Un manuale di resistenza all’ideologia gender

Sono contro ogni ingiusta discriminazione. È giusto e doveroso che un ordina­mento giuridico punisca condotte violente o ingiu­stamente discriminatorie, e le leggi già in vigore nel nostro Paese puniscono ogni forma di minaccia, vio­lenza, aggressione, intimidazione, oltraggio, ingiu­ria e diffamazione a carico di chiunque, aggravando la pena se il fatto è commesso per motivi abbiet­ti quali quelli riconducibili alla discrimi­nazione per orientamento sessuale. Nella questione “omofobia”, la posta in gioco non è quella di fermare le discriminazioni. Per questo bastano già la Costituzione e il Codice penale. Qui l’obbiettivo è un altro: imporre per leg­ge un’ideologia, e imbavagliare con la minaccia della galera chiunque non la condivida». Apre così il suo Manuale di resistenza al pensiero unico (Giubilei Regnani Editore, 2022) l’ex senatore Simone Pillon, nel quale approfondisce le radici storiche e antropologiche sottese all’attuale egemonia culturale dell’ideologia gender, ne documenta gli esiti nella cronaca e propone alcune strategie operative per arginarla.

La decostruzione dell’identità maschile e femminile a vantaggio di una più fluida identità di genere auto-percepita è solo il primo passo di tale sistema ideologico; «i passaggi successivi prevedono sul piano culturale e politico giuridico il matrimonio gay, la legittimazione della omogenito­rialità ottenuta dal traffico di materiale genetico o per mezzo dell’utero in affitto e, infine, la definitiva cancellazione della famiglia naturale» come già accaduto negli altri Paesi ‘avanzati’. Il vero obiettivo dell’agenza Lgbt però consiste nel formare un’umanità «in cui non esista più nulla di dato, come il proprio sesso, il proprio nome, il proprio cognome, la propria identità e le proprie relazioni familiari, i propri genitori e i propri parenti, ma tutto diventi autoprodotto, fluido, instabile, oggetto di quotidia­no arbitrio».

Ripercorrendo l’iter dei diversi disegni di legge, da Scalfarotto a Zan, Pillon evidenzia la pretesa paradossale di «definire un reato sulla base di “omofobia e tran­sfobia”, il quale comporterebbe un’assoluta inconoscibilità della condotta, visto che la realizzazione o meno del­la fattispecie non dipenderebbe dalla condotta dell’a­gente ma dalla percezione della vittima». Riprendendo gli esperimenti sociali del Forteto e di Bibbiano, balzati all’orrore della cronaca giudiziaria, Pillon sottolinea il naufragio della demonizzazione ideologica della famiglia patriarcale di contro alla pretesa di affido a coppie omogenitoriali, la quale dimentica che il principio fondamentale alla base dell’istituto giuridico dell’adozione non è «dare figli a chi non ne ha, ma dare nuovamente mamme e papà ai bambini che, a causa di una disgrazia, ne sono rimasti privi».

Nell’enorme business delle banche del seme «il padre viene sostituito da una scatola di polistirolo, contenente liquido seminale congelato», per non parlare della violenza perpetrata sulla ‘madre surrogata’, nella quale ci si preoccupa di impiantare più embrioni, anche perché «visto che il suo patrimonio ge­netico non ha nulla in comune con quello del bam­bino che porta in grembo, i suoi anticorpi leggono l’intruso come un carcinoma e tentano di eliminarlo. Ecco perché le gestanti devono essere trattate con pesantissimi farmaci antirigetto di tipo chemiotera­pico per garantire che il bambino non sia abortito». Pillon auspica quindi «una moratoria inter­nazionale di questo moderno schiavismo, ma gli in­teressi in gioco sono ormai colossali e nessuno se la sente davvero di andar contro le potentissime fab­briche di bambini».

A partire dagli esperimen­ti del dottor Money relativi alle vicende di Bruce/Brenda/David Reimer e del fratello Brian conclusisi con due suicidi, l’autore passa in rassegna i principali teorici dell’ideologia gender formatisi nell’alveo del femminismo radicale e alla scuola del decostruzionismo, secondo i quali «i nostri corpi devono essere plasmati a piacimento, senza più obbedire agli stereotipi culturali che han­no costruito l’idea di maschile e l’idea di femminile solo per poter sottomettere le donne». Secondo la Butler il corpo dell’altro deve essere ‘distrutto’ nella misura in cui ostacola il desiderio spasmodico di libertà e autonomia di essere ciò che voglio. Agli antipodi di tale pensiero, stando alla realtà, sulla base delle sostanziali differenze biologiche tra maschi e femmine, «Giovannino Guareschi scriveva che la piena uguaglianza tra uomo e donna si raggiungerà quan­do negli ospedali oltre al reparto di “maternità” si avrà quello di “paternità”». Insomma da un lato si propaganda l’indifferentismo sessuale nel miraggio del genere neutro, dall’altro resiste un pensiero della differenza ancorato alla realtà. L’indifferentismo sessuale genera paradossi e ingiustizie; per esempio quando uomini in percorsi di transizione di genere gareggiano ‘alla pari’ in competizioni sportive femminili o quando il ‘self ID’ di uomini sedicenti donne consente loro di stare nei reparti carcerari femminili per mietere altre vittime, se si è stati magari già condannati per reati sessuali, come accaduto in California.

Rispetto alla disforia di genere nei bambini, sebbene lo stesso DSM-V rilevi come «il 98% dei maschi e l’88% delle femmine ‘gender confused’ in età adolescenziale, in epoca post-adolescenziale recupera la propria appartenenza sessuale biologi­ca», si sceglie di agire con triptorellina e ormoni del sesso opposto per favorirne la transizione. Eppure basti citare quanto accaduto alla giovane Keira Bell per smascherarne la menzogna. A 16 anni inizia il percorso di transizione di genere, poi però ci ripensa e vuole una detransizione. Le conseguenze «sono gravi: probabile infertilità, amputazione del seno, impossibilità di allattare, genitali atrofizzati, cambio della voce, peluria sul viso. Era compito dei profes­sionisti che si stavano occupando di me considera­re tutte le mie comorbilità invece di assecondarmi nella mia ingenua convinzione che per farmi sentire meglio sarebbero bastati gli ormoni e la chirurgia». È significativo in proposito anche la proposta dell’American College of Pediatricians di considerare simili trattamenti quali «abusi sui minori». Invece in Canada i genitori che contrastano la volontà dei figli di intraprendere tali percorsi rischiano la galera.

L’ideologia gender intende plagiare anche le giovani generazione attraverso un massiccio indottrinamento nelle scuole. Mette a tacere il dissenziente – sia egli dottore, scrittore, docente, avvocato, giudice, religioso o persino Ministro – con la gogna mediatica e, se occorre, secondo quanto sempre più frequentemente riporta la cronaca, con il processo e in alcuni casi addirittura l’arresto. Chi osa affermare che un figlio necessita di una mamma e di un papà o predica con le parole di san Paolo è tacciato di omofobia e incriminato, oppure si è licenziati se ci si rifiuta di indossare la maglietta arcobaleno, come accaduto a una barista di Starbucks.

Tale ideologia intende «cancellare l’identità sessuata e imporre una iden­tità fluida e indeterminata, vuol sostituire la famiglia con la solitudine, vuol cancellare la relazione coniugale e genitoriale con forme posticce e surrogate di relazione affettiva e vuole imporre tutto questo ai ra­gazzini­». Allora la strategia per «fermare le ideologie antiumane e la loro agenda distruttiva» se da un lato non agisce contro le persone, dall’altro non cede a «compromessi sui valori» e si premura di difendere con coraggio la vita umana, i diritti dei più piccoli e la libertà autentica, nella consapevolezza che la verità raccontata con umiltà «ha in sé la forza di farsi strada nei cuori delle persone che la odono», tanto più se di essa si è testimoni e «sentinelle negli ambiti della nostra vita».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Roma medievale. Il volto perduto della città

Roma è ‘caput mundi’ non solo in età repubblicana e imperiale, ma anche tra VI e XIV secolo. Nel Medioevo infatti la Città Eterna è il «faro d’Europa, una città verso la quale convergono re e pellegrini, intellettuali e prelati provenienti dalle regioni più lontane, attoniti davanti alle testimonianze dell’antichità intessute con quelle della cristianità, alle grandi basiliche sfavillanti di mosaici e arredi preziosi, cresciute sulle tombe dei martiri».

Articolata in nove sezioni, la mostra Roma Medievale di Palazzo Braschi a Roma – curata da Anna Maria D’Achille e Marina Righetti e visitabile fino al 5 febbraio 2023 – si snoda attraverso 160 opere, tra le quali tanti mosaici e affreschi, che contribuiscono a ricostruire ‘il volto perduto della città’, quel volto troppo spesso celato tra «i fasti delle rovine antiche e lo splendore dei palazzi rinascimentali e delle piazze e chiese barocche».

 Il visitatore è invitato a compiere un viaggio ideale verso Roma, una delle mete per eccellenza del pellegrino medievale desideroso di entrare a contatto con le prime testimonianze del cristianesimo e le reliquie dei martiri. Indossata la cappa benedetta prima della partenza e un cappello a falda larga il pellegrino, chiamato ‘romeo’ in virtù della sua meta, prendeva con sé il bastone per il viaggio e una bisaccia per portare cibo, acqua, messale e per accogliere i doni di carità di quanti incontrava lungo il cammino lungo e faticoso. Chi si recava a Roma poteva procurarsi le quadrangulae, placchette di piombo e stagno con le immagini dei Santi Apostoli Pietro e Paolo. Egli poteva inoltre rifocillarsi o esser curato se infermo negli hospitalia, il cui nome allude proprio all’iniziale scopo di tali strutture.

Tappe obbligate per ottenere l’indulgenza plenaria, a partire dal primo Giubileo del 1300 indetto da Bonifacio VIII, le quattro grandi basiliche papali – di cui la mostra ricostruisce accuratamente le tracce medievali – sono la meta di ogni pellegrino per le reliquie dei Santi Apostoli e della mangiatoia di Gesù, ancora oggi a Santa Maria Maggiore, prima basilica dedicata alla Vergine che custodisce anche la celebre icona della Salus populi romani e il primo presepe della storia realizzato da Arnolfo di Cambio.

Dell’antica San Pietro in Vaticano si ammirano, sulla base della ricostruzione proposta, un affresco del quadriportico coi volti di Pietro e Paolo e i mosaici superstiti di una fenice e di papa Innocenzo III collocati nel catino absidale. In un disegno acquerellato si scorge il pontefice Bonifacio VIII che si affaccia dalla Loggia delle Benedizioni della basilica lateranense. Dello stesso papa sono esposti anche i raffinati paramenti sacri, in particolare casula e piviale con grifi, pappagalli e aquile. Dalla basilica di Santa Croce in Gerusalemme è stato invece riportato alla luce un prezioso ciclo di affreschi dei Patriarchi risalente al 1150.

 Un acquerello del 1823 è una ‘foto istantanea’ della veduta di San Paolo fuori le Mura durante l’incendio che la devastò in quello stesso anno. Mentre, sempre nel 1823, Francesco Diofebi dipinge su tela i danni provocati dal medesimo incendio. L’abbazia benedettina di San Paolo custodisce un vero gioiello artistico dell’Europa altomedievale che è possibile ammirare: la Bibbia carolingia di Carlo il Calvo, databile tra l’866 e l’875. Nella miniatura su cui è aperta si vede l’imperatore con la moglie, mentre nella fascia superiore le quattro virtù cardinali sono affiancate ai lati da due angeli.

Nella sezione dedicata ai Papi spicca la custodia d’argento sbalzato e dorato a forma di croce del tempo di papa Pasquale I (817-824), decorata con un ciclo cristologico. Sono ancora esposti, tra i pochi reperti superstiti dell’antica abbazia medievale di Montecassino, parte del rotolo dell’Exultet e un lezionario per la festa di San Benedetto. Mirabile è anche la miniatura con l’incipit della Messa in onore di San Giorgio di un codice trecentesco.

Tra gli oggetti liturgici spicca un coltello eucaristico del 1170 proveniente dall’Abbazia di Sant’Andrea a Vercelli e appartenuto a Gaula Bicchieri, cardinale e legato pontificio, mentre merita uno sguardo contemplativo il grande crocifisso del XIII secolo proveniente dall’aula capitolare dell’Istituto Angelicum.

Nella sezione dedicata alle icone mariane c’è spazio per la Madonna della Catena di S. Silvestro al Quirinale, che rievoca la prodigiosa guarigione di un indemoniato, le cui catene furono poi lasciate alla stregua di un ex voto accanto alla tavola dipinta ed è possibile contemplare sia una Vergine con Bambino del 1100 di Pietro di Belizo e Belluomo, sia una Vergine con Bambino del 1300 custodita nella chiesa di S. Maria sopra Minerva.

La mostra evoca anche storie di vita quotidiana tra botteghe, artisti e artigiani nel Medioevo, attraverso i reperti provenienti dalla Crypta Balbi; evidenzia l’importanza del Tevere che ha caratterizzato l’assetto urbanistico della Città Eterna e si sofferma sulle diverse ‘torri dei Barones’, di cui forse la più celebre è la Torre delle Milizie.

La Vita Nili – una biografia agiografica di San Nilo di Rossano, fondatore dell’Abbazia cattolica di rito greco-bizantino di Grottaferrata –, insieme ai codici della Bibbia della comunità ebraica più antica al mondo testimoniano infine come Roma sia stata e continui a essere un crogiuolo di popoli e tradizioni culturali differenti.

Al termine del percorso espositivo, a conclusione dell’ideale passeggiata nello spazio sacro di una chiesa medievale, al visitatore è consegnata una mappa che circoscrive ben trenta siti, perloppiù chiese, in cui è possibile scorgere ancora oggi le gloriose vestigia (in specie affreschi, mosaici, sculture e architetture) di un’epoca che ha fatto della bellezza una strada privilegiata per contemplare le meraviglie del Creatore operate in maniera sublime nella creazione e in modo ancor più mirabile nella redenzione.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

 

 

 

Giocare con Dio, lo spirito da bambino di papa Luciani

«Se avessi saputo prima che sarebbe stato eletto Papa avrei cercato di conservare più materiale, in particolare tanti interventi sicuramente significativi», afferma monsignor Francesco Taffarel, segretario di Albino Luciani quand’egli era vescovo di Vittorio Veneto.

 Tra le ‘sudate carte’ del monsignore si ritrovano anche appunti preziosi di omelie del futuro papa Giovanni Paolo I, e dunque testi inediti, ora raccolti in Giocare con Dio (Ares 2022, pp. 239), un’antologia di scritti di curata da Nicola Scopelliti, firma nota ai lettori de La Nuova Bussola Quotidiana. Il volume prende il titolo da un episodio raccontato da Luciani, che vede protagonista un santo gioioso, il quale si rivolge così a un bambino: «Se tu riesci a giocare con Dio, farai la cosa più bella che si possa fare. Tutti prendono Dio talmente sul serio da renderlo perfino noioso. Gioca con Dio… è un compagno di gioco incomparabile». Di qui traspare lo ‘spirito da bambino’ di Giovanni Paolo I che vive il proprio ministero con allegria e fiducia nell’abbraccio di Dio, il quale è prima di tutto un Padre buono.

 «Niente è peggio che fare le cose a metà: essere buoni a metà, studiare a metà, pulirsi a metà! Pensate quanto sarebbe piacevole se la moglie sapesse cucinare la carne solamente in questi tre modi: mezza cruda, mezza cotta e mezza bruciata», afferma durante un’omelia il futuro pontefice sull’importanza di compiere bene le proprie azioni quotidiane.

Relativamente alla necessità di fare il bene, Luciani racconta che «un uomo cristiano era preoccupato di osservare la legge di Dio e di non fare peccati. Diceva: “Voglio andare a letto ogni sera con la coscienza pulita, per presentarmi sereno e sicuro davanti a Dio”». Una volta morto costui si rivolge a Dio con queste parole: «“Signore, guarda le mie mani: esse sono pulite!” – “Saran pulite, ma sono completamente vuote!”, la replica del Padre, a testimonianza del fatto che «non basta non fare il male, ma bisogna fare il bene, come dice la parabola dei talenti».

 Pastore umile, Luciani utilizza uno stile semplice e concreto, attingendo dalla tradizione racconti e aneddoti significativi anche dalle vite dei santi, in particolare quelle di don Bosco e Filippo Neri, per nutrire l’anima dei fedeli. Di qui racconta che alla bottega ‘Doni di Dio’ c’è un angelo dietro il bancone a servire i diversi clienti. A un bambino che ne aveva richiesti tanti, l’angelo risponde: «Mio caro bambino, nella bottega di Dio non si vendono frutti maturi, ma soltanto piccoli semi da coltivare! Poi viene il raccolto!». In un’altra occasione Luciani riprende l’incontro di Francesco di Sales con un ragazzo che trasportava un secchio d’acqua con un pezzo di legno all’interno per non far cadere l’acqua. Da tale incontro il vescovo ginevrino traeva quest’insegnamento: «Sulle onde dei tuoi dubbi e dolori, o uomo, metti la croce di Cristo. Essa ti darà tranquillità e non perderai la pazienza nel tuo soffrire». O ancora un simpatico aneddoto che rivela l’ironia del padre dei salesiani: «In una casa di signori molto ricchi venne portata a Don Bosco una tazza di caffè, nella quale, per sbaglio, avevano messo del sale inglese invece dello zucchero. Don Bosco sorbì piano piano il caffè, poi alla fine disse: “Cercavo il dulcis in fundo (il dolce dopo l’amaro) ma non lo trovo!”».

Sull’amore di sé Luciani si domanda «perché usiamo due misure diverse per noi e per gli altri?  Perché il nostro amor proprio e orgoglio ci privilegia e ci scusa sempre». Perciò egli ricorda che bisogna anche imparare a saper ridere di se stessi «perché nessuno è importante come crede di esserlo!». Bisogna poi imparare ad amare: «Ama, anche se il tuo amore è amaro, perché più amaro di un amore amaro è l’amarezza di non saper amare».

 «Non cade mai in disgrazia chi si affida alla grazia!», ripete invece in un’altra circostanza invitando il peccatore a non scoraggiarsi. D’altra parte «è meglio quello che Dio manda, che quello che l’uomo gli domanda!».

Prendendo spunto da una pagina de Il piccolo principe, Luciani si sofferma anche sull’importanza di vivere santamente del tempo che ci è dato, per cui «saper gioire del tempo e non esserne schiavi, saper godere del tempo in pienezza, saper comprendere e amare il tempo senza dissiparlo o esserne travolti: questo è un grande impegno di vita». D’altra parte «la felicità e l’infelicità stanno nel modo con cui si accettano i fatti della vita, imparando a esser contenti di quello che posso avere».

Sulla necessità di coerenza tra fede e vita quotidiana, Luciani afferma che «certi cristiani pensano che la religione sia come una giacchetta che si mette alla domenica per andare in chiesa e che poi, tornati a casa, la si può togliere e fare tutto diversamente».

Per far comprendere ai giovani il valore della preghiera papa Giovanni Paolo parla di un telefono senza fili, anzi con «filo diretto con Dio. Si dice: “Signore, pronto: sono Beppino… ti chiamo per dirti che ti voglio bene, che mi ricordo di te, che ho bisogno di un po’ di aiuto, di bontà, di buona volontà, di amore, di essere più obbediente, di fare la pace con i compagni”. Telefonare a Dio è pregare, è farsi vivi con Lui, è mettersi in comunicazione con Lui, anche con la Madonna e con i santi!». Agli stessi ricorda che «la Confessione è il quaderno nuovo che Dio ci regala. Egli ci dice: “Dammi qua il tuo vecchio quaderno, pieno di macchie, di peccati; prendi questo quaderno nuovo; te lo regalo! Incomincia da capo! Mettiti di buona volontà e scrivi bene”».

Relativamente alla sequela di Cristo, riprendendo l’immagine della nave, insegna che «chi ama Dio bisogna che si imbarchi sulla nave di Dio, deciso ad accettare la rotta segnata dai suoi comandamenti, dalle direttive di chi Lo rappresenta e dalle situazioni e circostanze di vita da Lui permesse». Occorre dunque far propria l’espressione di san Luigi IX: “Non mi preoccupo di sapere dove vada; mi preme soltanto di andar con Lui”». Insomma «davanti a Dio bisogna essere come bambini», lasciandosi custodire ogni istante dal Suo amore.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Il postino di Dio

«Non riuscivo a comprendere perché quella persona buona ci fosse stata sottratta così presto dal trono pontificio. Mi ritornò in mente la frase coniata una volta per il pontefice Marcello II, anche lui morto improvvisamente: “Mostrato, non dato”. Nel frattempo, però, mi si è fatto via via sempre più evidente che anche il ‘mostrare’ ha il suo significato. Di papa Luciani resta nel mio ricordo, e in quello di tutti coloro che lo hanno conosciuto, l’immagine del Buon Pastore; egli ha trasformato le sue sofferenze in un sorriso di bontà, e questo è un messaggio che, specialmente oggi, per noi è salutare».

Queste le parole pronunciate dall’allora cardinale Ratzinger una volta appresa la notizia della morte improvvisa del pontefice Giovanni Paolo I che sarà proclamato beato il prossimo 4 settembre. «La Chiesa postconciliare versava in una grande crisi, e la figura buona di Giovanni Paolo I, che fu un uomo coraggioso sulla base della fede, rappresentò un segno di speranza», ha affermato ancora Benedetto XVI durante il processo di beatificazione di papa Luciani. La sua testimonianza è ora ripresa ne Il Postino di Dio (Ares 2022, pp. 193), volume a cura del nostro Nicola Scopelliti, che raccoglie numerosi ricordi e studi di coloro che hanno conosciuto Albino Luciani. Oltre alle testimonianze del Papa emerito  e di monsignor Francesco Taffarel – segretario di Luciani quand’egli era vescovo di Vittorio Veneto –, vi sono quelle dei cardinali Parolin, Scola, Comastri; del primo postulatore della causa di canonizzazione dal Covolo e della nipote Pia Luciani.

Monsignor Taffarel ricorda che «l’allora vescovo di Vittorio Veneto teneva nel suo breviario una frase di sant’Agostino: “Vuoi essere un grande? Comincia con l’essere piccolo. Vuoi erigere un edificio che arrivi fino al cielo? Costruisci prima le fondamenta dell’umiltà”». Allo stesso modo egli, durante un’udienza sulla libertà dell’amore, citando ancora l’Ipponate, sottolinea che «Dio non soltanto ti attira in modo che tu stesso voglia, ma perfino in modo che tu gusti di essere attirato».

 Umiltà (aveva ripreso il motto Humilitas di San Carlo Borromeo), fede e carità sono state la cifra del suo brevissimo pontificato. Come rilevato ancora dal pontefice emerito nella sua Positio al processo, «la sua semplicità e il suo amore per le persone semplici erano convincenti. E tuttavia, dietro quella semplicità, stava una formazione, specialmente di tipo letterario, grande e ricca, come emerge in modo affascinante dal piccolo libro Illustrissimi», un fantasioso epistolario di lettere ai grandi del passato.

«L’incontro con Dio nella preghiera ha scandito la sua vita quotidiana di vescovo: la meditazione al mattino presto, il breviario, la messa, il rosario, la visita in chiesa, la compieta prima di coricarsi la sera. Anche con il clero amava ripetere che dobbiamo lavorare per Dio, senza aspettarci lodi, con spirito di fede. Parlava del timor di Dio come paura di perdere Dio, impegno per vivere secondo Dio, confrontarsi con la sua Parola. Dimostrava venerazione all’Eucaristia con la visita quotidiana. Passava ogni giorno diverso tempo in cappella, anche studiando e scrivendo davanti al tabernacolo», racconta monsignor Taffarel.

«Amava definirsi ‘il postino di Dio’, che porta la Sua parola ai fedeli, dopo averla personalmente assimilata e messa in pratica. Mise grande impegno nella predicazione partendo sempre dal Vangelo. Amava ripetere con san Paolo: “Dio mi ha amato e ha dato sé stesso per me. Io cosa posso fare per ricambiare questo amore?”». È quanto rileva ancora il suo segretario quando Luciani era vescovo di Vittorio Veneto, evidenziandone al contempo «lo stile povero e austero».

 Accusato di utilizzare un linguaggio troppo semplice e popolare, egli replicava con sapiente ironia, come racconta il cardinale Parolin, che «le nuvole alte non portano pioggia». «Uomo di grande preghiera, ai sacerdoti soleva dire che “per parlare di Dio, bisogna prima parlare con Dio”», sottolinea il cardinale Re.

Consapevole dell’esigenza di una riforma della Chiesa in linea con la tradizione, nonostante la brevità del suo pontificato, Giovanni Paolo I ha saputo «difendere la figura di Cristo dalla diffusa presentazione che se ne faceva come di un semplice liberatore sociale e anche denunciare quelle posizioni teologiche che mettevano in ombra aspetti fondamentali dell’identità e della missione della Chiesa».

«Ho iniziato ad amare la Vergine Maria prima ancora di conoscerla…Le sere al focolare sulle ginocchia materne, la voce della mamma che recitava il rosario», così lo stesso Giovanni Paolo I descrive le radici della sua devozione mariana. «Mai tralasciare il Rosario!» è stata poi la sua raccomandazione pastorale più frequente. La sorella Antonia testimonia in proposito che suo fratello affermava che «il Rosario, preghiera umile, semplice e facile, aiuta l’abbandono a Dio, a essere fanciulli». D’altra parte è nota la sua celebre definizione di Dio anche come ‘madre’, dato l’«amore intramontabile di cui noi siamo oggetto».

Giovanni Paolo I è stato senza dubbio il ‘Papa del sorriso’, un sorriso che «ha trasmesso a tutti tanta pace e una grande nostalgia di bontà», come scrive il cardinal Comastri. «Dietro quel sorriso c’è una grande spiritualità, una tempra forte, un cuore generoso», osserva il vescovo emerito di Belluno-Feltre, monsignor Giuseppe Andrich. Papa Luciani stesso raccomandava infatti soprattutto ai sacerdoti di sorridere, di circondarsi «di un’aria serena e lieta».

Insomma «in un mese egli ha conquistato il popolo cristiano, l’umanità tutta. Non ha conquistato solo coloro che vivono un rifiuto a Cristo, che vivono già una volontà di rifiuto nell’odio e nella menzogna. Quest’uomo è stato con noi soltanto per rivelarci la semplicità di Dio. Egli ha vissuto il suo pontificato – afferma don Divo Barsotti – perché lascia questa lezione e questa lezione vale più di tante lezioni teologiche».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Quei testi tosti che fanno splendere il vero

«Se leggendo mi imbatto in una bella pagina, subito con una passata di luce la infilzo e la trasformo in testo da condividere su quel social per anziani a cui sono iscritto da molti anni». Di qui, armato di scanner, frate Roberto Brunelli ha raccolto Perle Preziose per ogni giorno dell’anno nel libro omonimo che reca anche un altro titolo ‘meno romantico’, ossia ‘Testi tosti per animi maldisposti’, pubblicato recentemente dall’editrice Leardini (2022, pp. 384; per ulteriori informazioni su vendita e distribuzione: laperlapreziosa@libero.it).

Si tratta di pagine significative, di una bellezza che il curatore desidera far scorgere soprattutto a giovani ed educatori che han bisogno di riscoprire tale bellezza quale ‘splendore del vero’, per dirla con Platone. Perché chi vive nella Verità è nella gioia. E Bernanos rileva che «la Chiesa dispone della gioia, di tutta la parte della gioia riservata a questo triste mondo».

La fede emerge quale esperienza da vivere per poterla trasmettere nel racconto di Franco Nembrini, il quale ricorda che, nel vedere il papà che s’inginocchiava per recitare il Padre nostro o la mamma dopo la Santa Comunione che «per cinque minuti era come se non esistesse più nulla intorno a lei», si domandava chi fosse quell’essere misterioso da meritarsi i suoi genitori in ginocchio. Di qui «il segreto dell’educazione è non avere il problema dell’educazione. Avere il problema della propria educazione, e basta. Poi i figli fanno il loro mestiere, cioè guardano, scelgono, decidono, rischiano».

 Una fede che accorcia anche le distanze esistenziali. Quando Stalin ascolta alla radio il concerto K488 di Mozart suonato da Maria Judina telefona in radio per averne la registrazione e la pianista vince il Premio Stalin. La Judina scrive tuttavia al dittatore: «“Vi ringrazio, Josip Visarionovich, per il vostro aiuto. Pregherò per voi giorno e notte, chiedendo al Signore di perdonare i grandi peccati che avete commesso nei confronti del popolo e del paese. Il Signore è misericordioso e vi perdonerà. Il denaro l’ho dato alla chiesa che frequento”. Era una lettera da suicidio. Stalin la lesse e nulla disse. E la mise da parte. E a Judina nulla accadde. Il disco con il K488 suonato dalla Judina era sul giradischi di Stalin quando fu trovato morto nella sua dacia. Era stata l’ultima musica che Stalin aveva ascoltato».

Un invito a credere in se stessi anche dinanzi ai propri limiti e insuccessi perché Qualcuno crede in te traspare nelle parole del giovane beato Alberto Marvelli: «Non voglio essere un peso morto, un burattino che, finita la carica, casca in terra inutile, un fuoco fatuo che si dilegua alla prima brezza contraria, una brina che si scioglie al primo sole. Il Signore mi ha dato una intelligenza, una volontà, una ragione: ebbene, queste devo adoperarle, tenerle in esercizio, farle funzionare. Se non si adoperano si arrugginiscono e si finisce per essere delle nullità, dei terra terra, dei lombrichi che strisciano, senza un’idea buona, geniale, ardita; degli ignavi, a Dio spiacenti».

E in effetti «il senso della vita non è un punto alla fine della vita, ma l’inizio di una esperienza più profonda della vita. Essere perennemente in contatto con questo mistero ci rende infine autenticamente umani», per dirla con Vaclav Havel, e dunque santi, per citare Bernanos, nella misura in cui «il santo non sta al di là dell’umanità, si sforza di realizzarla il meglio possibile». Infatti «il grande apostolo non è l’attivista, ma colui che mantiene in ogni momento la sua vita sotto l’impulso divino. Ognuna delle nostre azioni ha un momento divino, una durata divina, una intensità divina, tappe divine, un termine divino. Dio inizia, Dio accompagna, Dio termina. La nostra opera, quando è perfetta, è insieme tutta sua e tutta mia», come afferma sant’Alberto Hurtado.

Sul senso del lavoro e dell’amore che dà senso a ogni cosa e costruisce la pace tra gli uomini sono memorabili le parole del testamento spirituale di Raul Follereau: «Una delle disgrazie del nostro tempo è che si considera il lavoro come una maledizione. Mentre è redenzione. Meritate la felicità di amare il vostro dovere. E poi, credete nella bontà, nell’umile e sublime bontà. Nel cuore di ogni uomo ci sono tesori d’amore. Spetta a voi, scoprirli. La sola verità è amarsi. Amarsi gli uni con gli altri, amarsi tutti. Non a orari fissi, ma per tutta la vita. Voi pacificherete gli uomini solamente arricchendo il loro cuore». Gli fa eco il poeta Rilke quando scrive che «amarsi è un lavoro, un lavoro a giornata».

Occorre però tener presente, come osserva la Miriano, che «vivere tutti gli amori non ti insegnerà sull’amore quanto viverne uno solo in profondità» e che «la nostra vita è una ginnastica del desiderio. Il santo desiderio sarà tanto più efficace quanto più strapperemo le radici della vanità ai nostri desideri», come sottolinea sant’Agostino.

Rispetto alla degenerazione dell’amore nella lussuria, preziosa è la riflessione di don Fabio Rosini, il quale rileva che tale vizio si alimenta «con la fantasia e con la curiosità. La fantasia è l’attardarsi sull’immagine lasciata entrare nella propria mente: si inizia ad elaborarla staccandosi dalla realtà. È un mondo senza la relazione: la sogna soltanto. Noi dobbiamo opporre alla curiosità la conoscenza: conoscere un ‘tu’, una persona. Il maschile tende a catturare l’oggetto, il femminile a catturare l’attenzione. L’uomo conquista, la donna desidera essere desiderata. L’uomo conquista, la donna desidera essere desiderata. L’esito finale della lussuria è il disprezzo della vita, perché uno ha tenuto se stesso lontano dalla sorgente della vita, che è l’amore».

Sgretolano invece ogni discorso ideologico le parole di Gianna Jessen, sopravvissuta a un aborto salino al sesto mese: «Se l’aborto riguarda solo i diritti della donna, come la mettiamo con i miei di diritti? Nessuna femminista radicale manifestava per i miei diritti di quel giorno. La mia vita veniva soppressa nel nome dei diritti di una donna». D’altra parte, sottolinea il cardinale Biffi, «chi è rifuggito dalla verità va a indottrinarsi nelle ideologie; chi si è ribellato alla disciplina salvifica è costretto alla soggezione immotivata; chi ha rifiutato la lotta quotidiana per restare fedele, viene d’autorità arruolato sotto estranee bandiere: chi cerca una libertà diversa da quella che ci viene dall’unico Liberatore, difficilmente si sottrae al destino di credere, obbedire, combattere. Pinocchio, ubbidiente…, nota due volte il testo: se ci si rifiuta di obbedire al Padre, alla fine si obbedisce al domatore».

Il volume curato da frate Roberto Brunelli offre, attraverso una miriade di testi, molteplici spunti di riflessione per le vacanze in montagna o sotto l’ombrellone, nella consapevolezza che – per citare il beato Franz Jägerstätter, un contadino obiettore di coscienza dinanzi alla chiamata alle armi nazista – «un uomo che non legge niente non si potrà reggere in piedi e sarà solo una marionetta nelle mani degli altri».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

A Dio don Franco Fedullo, testimone di verità e carità

Cavaliere di Cristo, paladino della vita dei piccoli minacciati nel grembo materno, padre attento e premuroso per ciascuno dei ‘figli’ affidati alle sue cure. Per tutti, semplicemente, don Franco. È questo don Franco Fedullo, parroco della “Parrocchia di S. Domenico” in Salerno dal 1999, che il Padre ha stretto sul suo cuore e chiamato a sé il 30 gennaio, domenica, la “Pasqua della settimana”, non senza averlo reso prima participe del calice del suo Figlio.

Un intero popolo da sud a nord – non solo dunque i fedeli della comunità di San Domenico che è la sua famiglia sin dagli albori della sua ordinazione sacerdotale nel 1983 – si è stretto intorno al suo pastore sofferente, soprattutto quando le condizioni di salute hanno reso necessario il ricovero ospedaliero, elevando al Padre una preghiera continua, in ogni ora del giorno e della notte, per supportarlo costantemente lungo la via dolorosa.

Agli occhi del mondo e per tanta cronaca locale è soltanto l’ennesima vittoria del Covid che continua a mietere le sue vittime; per lo sguardo della fede è invece il trionfo dell’amore che prega, ama e spera, soffre e offre, crea comunione e unità, si affida alla materna intercessione della Beata Vergine di Pompei perché sempre in Dio confida. Così gli occhi della fede possono cogliere (e non è una magra consolazione!) che, mentre la seconda lettura proclama il manifesto paolino della carità, il servo buono e fedele don Franco – che l’ha incarnata durante la sua vita terrena – è chiamato dal Padre a partecipare alle nozze dell’Agnello.

Don Franco è stato «un grande testimone del tempo in cui le sue battaglie erano quelle di un’epoca della Chiesa. Ora che la Chiesa sta vivendo forse un’altra fase, il Signore lo sceglie come strumento prezioso di intercessione per noi nell’aldilà», per dirla con le parole di padre Francesco de Feo, egumeno dell’Abbazia di San Nilo in Grottaferrata. Un uomo profondamente radicato in Cristo, con una fede solida e la freschezza del ‘convertito’, un testimone sempre in prima linea della verità nella carità e della carità nella verità, mai dell’una senza l’altra. Ne è una scia la sua premura costante alla formazione continua di giovani e adulti, nell’anelito di ridestare un popolo per la vita, consapevole della propria missione nella Chiesa e della posta in gioco da difendere, ossia la dignità di ogni essere umano come figlio di Dio sin dal grembo materno, contro l’imperante cultura della morte.

È tra i fondatori del Centro per la Vita “Il Pellicano”, che dal 1983 a oggi ha contribuito a strappare all’aborto 1153 bambini, tutelando la vita nascente e aiutando madri e padri a riscoprire la bellezza di tale dono. Di qui, dinanzi alle situazioni più problematiche, non solo ha saputo sapientemente invitare i genitori ad agire secondo un principio molto semplice, ossia “Fai a un bambino in grembo quello che faresti a un bambino in culla”, ma anche a supportarli concretamente attraverso le strade di una carità multiforme per affrontare insieme i problemi, senza cancellare la vita del loro figlio.

Un padre spirituale sempre disponibile a dare una mano o un buon consiglio, a infondere speranza e determinazione, che si è fatto docilmente tutto a tutti, «che incarna ciò che predica, che cammina con le scarpe rotte, che non riesce ad avere soldi in tasca, che non ha orari se hai bisogno di lui anche solo di parlare… a cui 24 ore, 7 giorni e 12 mesi non bastano perché ogni secondo è buono per aiutare qualcuno, dalla vita nascente a quella che si spegne», per riprendere le parole di Maria Rosaria.

La sua carità operosa, umile, silenziosa e lontana dai riflettori anche quando è nominato direttore della Caritas, riaffiora nei ricordi dei giovani di San Domenico, come racconta Mariano: «Me la ricordo come se fosse adesso, quella sera di oltre 25 anni fa, ottobre 1996, quando verso le 10 di sera mi fermasti davanti la chiesa e mi dicesti: “Ciao, accompagnami a fare una opera bella!” e ti facesti accompagnare a portare una coperta a un barbone che dormiva per strada a via Velia».

Innamorato di Maria e di Gesù Eucarestia, appassionato cultore delle vite dei santi e della memoria storica di Salerno, si è sempre preoccupato sul piano pastorale in particolare della preghiera e della comunione quotidiana dei più giovani, tenendo la chiesa aperta fino a tarda sera. Santo sacerdote, ha incarnato quotidianamente la pagina del Vangelo di Giovanni dell’Ultima Cena che commentava con semplicità e profondità, ricordando che «niente è piccolo di ciò che è fatto per amore». Lo rileva acutamente ancora Paolo sui social: «Come un pellicano hai consumato te stesso per gli altri, con quelle carezze del cuore che erano consolazione dell’anima». Infatti don Franco si è continuato a spendere per amore di Dio e del prossimo anche quando i dolori fisici e articolari si facevano più acuti e intensi da rendere difficoltoso persino l’indossare il proprio giaccone.

Insomma, per dirla con le parole autorevoli del medico e professor Pino Noia: «Don Franco è sempre vissuto in Dio. Adesso partecipa della Sua gioia infinita e aiuterà di più noi poveri mortali a vivere secondo la volontà del Signore. A voi il lascito di continuare l’opera del Pellicano perché continui a vivere  tutta la sua vita nel dare vita spirituale, fisica, culturale, etica, umana e cristiana. A voi l’eredità di combattere come prima e più di prima affinché il wonderful gift (il dono della meraviglia della vita, come mi disse madre Teresa nel nostro incontro al Gemelli) sia difeso, custodito, protetto e diffuso sempre e comunque, perché Tu Signore sei Via, Verità e Vita. Lo abbiamo accompagnato con la preghiera e continueremo a farlo come intercessore presso Dio, per voi e per tutti noi».

Don Franco è una «finestra sul Mistero», come egli stesso amava definire gli autentici testimoni di Cristo, un segno tangibile dell’amore di Dio per me, una presenza paterna e amica della Presenza che mi è accanto sempre, un canale privilegiato attraverso il quale la grazia divina mi raggiunge, dal battesimo al matrimonio e nella ferialità dell’ordinario, e ancor di più ora che vive nel seno del Padre nella comunione dei santi.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Gridiamo il Vangelo, la vita di fede spiegata da Comastri

«Quando predichi, ricordati che la tua vita parla più forte delle tue parole. Se la tua vita smentisce le tue parole, la gente guarderà la tua vita e non ascolterà le tue parole. E porta sempre un esempio concreto: l’idea facilmente si dimentica, mentre l’esempio resta impresso nella memoria. E poi: prega e preparati bene! Se ti prepari, dici cose sensate…e sei breve!». Fa tesoro di quanto gli disse un giorno confidenzialmente Santa Madre Teresa di Calcutta il cardinale Angelo Comastri nel suo recente volume Gridiamo il Vangelo (Palumbi 2021, pp. 480), che raccoglie i testi di tutte le omelie sui Vangeli festivi dell’anno liturgico C in corso, il quale riprende principalmente il Vangelo secondo Luca.

Si tratta di testi ancorati alla Parola di Dio e legati alla pastorale, che nascono dal cuore e dalla sapienza teologica di un cardinale molto amato dai fedeli e ammirato per la sua capacità oratoria, capace di parlare ai colti come ai semplici. Le sue omelie si rivelano infatti come un prezioso strumento particolarmente utile tanto per i sacerdoti per la preparazione delle omelie festive, quanto per i laici che desiderino approfondire e meditare la Parola che salva.

 «Gesù ha scelto come collaboratori gli uomini meno idonei al successo. Ha scelto un pugno di pescatori, gente che non contava socialmente e li ha invitati per le strade del mondo per un’avventura che, umanamente parlando, era destinata a sicuro fallimento. Invece, questi uomini hanno scosso le fondamenta dell’impero romano, hanno affrontato persecuzioni, e hanno versato il sangue senza paura…e hanno vinto i loro persecutori. Tutto questo è stato possibile soltanto perché Gesù è Dio», scrive Comastri relativamente al cuore della proposta cristiana.

Egli avverte del rischio da parte dell’uomo «di fare di Dio una pericolosa

Gridiamo al Vangelo. Omelie sui Vangeli festivi. Anno C

caricatura», mentre ricorda che «Dio non è soltanto l’infinitamente grande, ma è anche l’infinitamente felice e l’infinitamente buono e gioisce nel condividere con qualcuno la Sua gioia». Di qui egli richiama, nell’omelia del Battesimo di Gesù, il valore dell’esempio nella trasmissione della fede: «La famiglia e soltanto la famiglia può ridare vita e ossigeno al Battesimo dei bambini. Oggi le nostre famiglie offrono un clima di esempi, in cui i figli possono percepire la bellezza della vita battesimale? Nei genitori si vede una via da seguire o si vede soltanto un cristianesimo esteriore contraddetto dalla vita di ogni giorno?». Così se da un lato ricorda in proposito che il battesimo è «il dono della vita di Dio messo dentro la nostra libertà perché lo accolga o lo lasci crescere»; dall’altro cita quanto constatato con amarezza dal cardinal Suenens: «Mi tormenta che noi abbiamo tanti battezzati, ma pochi cristiani».

 Nell’omiletica del cardinal Comastri si ritrovano suggerimenti e provocazioni per scuotere il torpore dei fedeli, e soprattutto, tanti fatti concreti e aneddoti innestati in un cristianesimo che si fa carne ogni giorno nelle membra della Chiesa.

Sul vangelo che apre il tempo di quaresima, Comastri cita il biblista Rinaldo Fabris: «Il racconto delle tentazioni è un Vangelo in miniatura, nel quale sono drammatizzate le scelte fondamentali di Gesù». Rispetto alla parabola del Padre misericordioso, in relazione alla reazione del secondo figlio nei confronti del fratello ritornato sui propri passi, sottolinea: «Questo figlio rappresenta i falsi buoni, i falsi amici di Dio, i falsi adoratori di Dio; coloro che non si convertono ai sentimenti di Dio». Allo stesso modo ricorda che «Dio è felice di perdonare quando trova un cuore pentito».

Parole poetiche e vere quelle pronunciate dal cardinal Comastri in calce all’omelia della Domenica delle Palme che apre la Settimana Santa, «storia di un amore sanguinante» mediante la quale «Cristo ci risponde con la sua passione e ci rivela chi siamo noi e chi è Dio». Riguardo al mistero pasquale della nostra salvezza il cardinale toscano proclama con forza: «La Pasqua non è dietro a noi, ma davanti a noi. Cristo Risorto: in Lui abbiamo riconosciuto la risposta di Dio alle ferite di angoscia, di nostalgia, di paura, di debolezza, che sono nel cuore di ogni uomo». Di qui l’invito a «gettare semi di risurrezione dove viviamo, seminando la bontà intorno a noi e in mezzo a noi, anticipando il trionfo finale della bontà con piccoli gesti di bontà, di perdono, di generosità senza meschini calcoli umani. Cominciando dalla nostra famiglia e dal nostro ambiente quotidiano di vita».

E ciò per contrastare «il primato del benessere senza anima, il primato degli omicidi, il primato dei suicidi, il primato della droga, il primato degli aborti, il primato dei divorzi, il primato della frivolezza» che ci rende «i primi in graduatoria nella tabella dell’egoismo»; per combattere solitudine, tristezza e nevrosi che testimoniano proprio che «non ci manca qualcosa, ma Qualcuno», in quanto solo «se si vive donando se stessi, la vita acquista un sapore nuovo».

 Alla luce di tali considerazioni e nella prospettiva del dono della propria vita, è necessario riscoprire tanto la bellezza del disegno divino sulla famiglia, nella consapevolezza che «paternità e maternità sono due modi che Dio ha scelto per presentarsi al mondo», quanto «gettare ogni giorno un seme di bontà per preparare la primavera del mondo». Per far questo non basta la buona volontà, occorre anche e soprattutto lasciar operare la grazia di Dio in noi. Lo sapeva bene anche Chesterton, il quale afferma con l’ironia che lo contraddistingue: «Essere buoni è un’avventura ben più grande e ben più ardita che fare il giro del mondo con una barca a vela».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

“Ascoltare San Domenico ci aiuta all’incontro con Dio”

In occasione dell’ottavo centenario della morte di San Domenico (Dies Natalis, Bologna 6 agosto 1221) è stato indetto un Anno Giubilare inaugurato il 6 gennaio 2021 che avrà termine il 6 gennaio 2022. Alcuni degli eventi e delle iniziative previste dal Comitato Internazionale per il Giubileo avranno luogo a Bologna presso la Basilica Patriarcale di San Domenico, dove riposano e sono venerate le spoglie mortali del Santo. Il tema scelto, “A tavola con San Domenico”, si ispira alla cosiddetta “Tavola della Mascarella” – primo ritratto del Santo databile tra il 1235 e il 1250 che testimonia anche un miracolo del pane ottenuto per sua intercessione – che lo raffigura con numerosi frati provenienti da tutta Europa. Si vuole, così, celebrare San Domenico non come un santo lontano e irraggiungibile, ma come un uomo che amava vivere in compagnia dei suoi fratelli uniti dalla stessa vocazione di annuncio del Vangelo con la parola e con la vita, condividendo i doni del Signore.

Tante le iniziative promosse per il Giubileo Domenicano – celebrazioni solenni, momenti di preghiera e spiritualità, convegni, una mostra e la proposta di un pellegrinaggio (il programma dettagliato è consultabile sul sito: http://www.giubileodomenicano.it/) – delle quali La Nuova Bussola ha parlato in esclusiva con il priore dell’Ordine Fra Davide Pedone, autore del recente volume Andata e ritorno. San Domenico, la stella del vespro. Il suo carisma e la sua eredità (ESD 2021, pp. 112) che ripercorre le tappe significative della vita umile, contemplativa e attiva, di un gigante della nostra fede.

Fra Davide, il tema scelto per quest’anno giubilare “A tavola con San Domenico” allude a una vicinanza, a una ‘prossimità’ di Domenico all’uomo di oggi. In quali aspetti un Santo di otto secoli fa può divenire nostro ‘contemporaneo’; ossia cosa significa per noi essere a tavola con san Domenico hic et nunc, qui e ora?

Quando siamo a tavola dialoghiamo, conversiamo; c’è uno scambio di opinioni, di idee e di pensieri. Se ci dovessimo pensare a tavola con San Domenico, ascolteremo quello che lui ha da dirci e a sua volta noi interagiremo con lui. Allora stare a tavola con San Domenico significa ascoltare quello che egli ci vuole dire, che cosa lo ha mosso durante la sua vita a fare tutto quello che ha fatto. E la passione di San Domenico è ciò che per cui ha vissuto per tutta la vita, cioè Cristo Salvatore. Egli ci racconterebbe di Gesù, della salvezza che ha portato, che è valida ai suoi giorni come ai nostri perché anche noi oggi cerchiamo salvezza.

Quali sono le iniziative principali in programma per celebrare il vostro Santo Fondatore?

Tenendo conto che purtroppo la pandemia ha fortemente limitato molte iniziative, tra le quali la possibilità di un ‘movimento di pellegrinaggio’ che sarebbe arrivato a pregare ai piedi dell’Arca di San Domenico, lì dove sono custodite le sue spoglie mortali, ci prepareremo al Triduo in suo onore con tre Messe celebrate il 31 luglio, l’1 e il 2 agosto presiedute da tre provinciali francescani, come da tradizione, la quale prevede ci sia un francescano a celebrare le Messe prima della festa del santo di Guzman e, viceversa, un domenicano a presiedere quelle precedenti la festa del santo di Assisi. Il 3 agosto ci saranno i Vespri Solenni, presieduti dal maestro dell’Ordine, con l’esposizione del capo di San Domenico che sarà portato in processione in Basilica. Il 4 agosto, cuore del Giubileo, ci sarà la Messa Solenne alle 19 presieduta dal Card. Matteo Maria Zuppi con l’omelia del maestro dell’Ordine. In chiusura, il 5 agosto, avremo un momento di preghiera in ricordo del transito di San Domenico.

Da dove nasce l’idea di ripercorrere attraverso un pellegrinaggio spirituale e culturale, sulle orme di San Domenico, il suo ultimo viaggio da Roma a Bologna?

Fare un pellegrinaggio consente un po’ di ripercorrere il cammino della propria vita, di fare un percorso di discernimento, purificazione e riconsiderazione della propria esistenza. Abbiamo scelto perciò di riprendere proprio un tratto di strada che Domenico ha fatto molte volte, quello tra Bologna e Roma. Di fatto poi è l’ultimo percorso che egli fece, perché di ritorno a Bologna cadrà ammalato e cominceranno ad aggravarsi le sue condizioni. Visto che l’ottocentenario ne celebra il dies natalis, allora questo cammino vuole alludere anche alla meta della sua vita, il regno dei cieli, l’orizzonte entro cui dovrebbe essere orientato tutto quello che anche noi facciamo. In tale prospettiva, il pellegrinaggio comporta anche un ricentrarsi verso il giusto obiettivo, quello dell’incontro con Dio, in un tempo in cui siamo un po’ smarriti. Venendo al percorso, si snoda idealmente lungo l’asse della Via Francigena e prevede alcune soste significative (Viterbo, Rieti, Orvieto, Montepulciano, Siena e Firenze) ed è fruibile anche con l’ausilio dell’app “SloWays”, provvista di una guida GPS dell’intero itinerario e di informazioni di carattere storico, artistico e spirituale legate al mondo domenicano.

Quale episodio della vita di Domenico potremmo sentire più vicino alla nostra sensibilità?

Una volta uno studente, sentendolo parlare con la sua profondità, gli domanda su quale libro abbia appreso tale sapienza. Domenico risponde – ed è una risposta significativa anche per noi oggi – che ha appreso la sua sapienza nel libro della carità. L’insegnamento che possiamo apprendere da tale episodio è che la conoscenza più gustosa di Dio la ritroviamo proprio nella carità applicata nella quotidianità.

Qual è l’attualità del carisma domenicano nella vita della Chiesa contemporanea?

San Domenico ha speso tutta la sua vita nella predicazione e nella costituzione di un ordine che si dedicasse alla predicazione. Oggi, per quanto antica e sempre nuova, la predicazione è sempre necessaria e attuale. San Domenico predicò il Cristo come via perché l’uomo potesse essere pienamente uomo in quanto figlio di Dio secondo la propria vocazione. È questa un’urgenza anche oggi, quella di ritrovare in Cristo colui che ci aiuta a essere pienamente noi stessi, dentro un orizzonte in cui l’uomo è smarrito al punto da rinnegare persino se stesso nella sua stessa realtà. Domenico combatté con la sua predicazione l’eresia catara che rinnegava il creato e la sua materialità e dunque il corpo, inteso quale prigione di cui liberarsi; eresia per la quale anche la famiglia era da abolire perché luogo nel quale nascevano altre ‘prigioni dello spirito’. Tale eresia, in una formula sicuramente nuova, è molto presente anche oggi nella difficoltà di custodire la famiglia nel progetto che Dio ci ha consegnato e la bellezza dell’uomo così come è data. In realtà, nel momento in cui smarriamo l’orizzonte divino, rinneghiamo noi stessi.

Una curiosità, qual è attualmente il Paese con maggior numero di vocazioni domenicane?

In estremo oriente il Vietnam e Filippine sono in forte crescita. L’America stessa ha province molto ricche di vocazioni, a partire da quella di Washington; in particolare, in America latina, la Colombia è fiorente di vocazioni. In Africa le vocazioni nel carisma di Domenico sono in crescita in Kenya e dintorni; in Europa in Polonia. A livello generale, tutto l’Ordine ha una crescita progressiva, nonostante paesi un po’ in difficoltà, quali Spagna, centro e sud Italia.

Volendo fare, infine, un appello ai nostri lettori e non solo?

L’invito per tutti è a venire pellegrini a Bologna a chiedere le grazie che vogliamo per l’intercessione di San Domenico e a mettere la propria vita sotto la custodia e il patrocinio di Maria, come lo stesso Domenico ha fatto, dal momento che è la Vergine che ha voluto l’Ordine e lo condurrà dove Dio vorrà.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

 

 

In un libro 123 storie di sacerdoti e religiosi morti in guerra

«O tutti o nessuno!», grida don Elia Comini a chi gli offre la salvezza poche ore prima della sua uccisione da parte delle SS a Pioppe di Salvaro in provincia di Bologna. Egli non è stato il solo pastore a offrire la propria vita per le sue pecore. Sono infatti 123 i sacerdoti uccisi in Emilia Romagna durante la Seconda Guerra mondiale: 45 caduti sotto i bombardamenti, 14 cappellani militari morti per cause di servizio, 37 per mano dei nazifascisti e 27 ‘in odio alla fede’ o per odio politico dei partigiani. I loro volti e nomi affollano le pareti e l’abside di una piccola chiesa a Pieve di Rivoschio, in provincia di Forlì.

Tale grido di don Elia è stato ascoltato da Alberto Leoni che, nel suo recente saggio O tutti o nessuno! (Ares 2021, pp. 192), ne ripercorre le storie, attingendo alle foto e testimonianze raccolte con particolare premura da don Alberto Benedettini.

Tra i cappellani, «compagni dell’uomo in guerra», c’è don Ettore Barucci «sorpreso in Libia da azione aerea di bombardamento mentre dall’altare impartiva l’estrema benedizione a due Caduti, rifiutava esplicitamente di cercare riparo. Vestito dei Sa­cri paramenti cadeva al suo posto, sull’Altare»; c’è don Alberto Carozza, che cede il suo salvagente a un soldato mentre la motonave sulla quale si trova viene colpita da un siluro nemico a largo dell’isola di Cefalonia.

Don Raffaele Dogali Busi è ferito a una gamba, quando il comandante dei bersaglieri del suo reg­gimento lo fa salire su un camion. «Poco dopo i partigiani tornano all’attacco e il sacerdote ferito rimane isolato sull’autocarro, circondato dai guerriglieri. Dice loro di essere disarmato, mostrando la croce rossa cucita sul petto, ma un partigiano lo accoltella al torace». È una delle numerose vittime della sanguinosa guerriglia in Jugoslavia.

Ci sono pastori che muoiono sotto i bombardamenti accanto al proprio gregge. Don Arturo Giovannini «quando suonava l’allarme passava dall’altare della Madonna, andava in una stanzetta, si se­deva in poltrona e recitava il rosario». È stato trovato sotto le macerie del santuario di S. Maria del perpetuo soccorso di cui era rettore a Bologna, «sereno come sempre». Frate Eusebio Galanti «vide una ma­dre che stringeva disperata il cadavere della figlia straziata dalle bombe e andò a confortarla proprio mentre arrivava la seconda ondata, e una scheggia lo falciò». Padre Giuseppe Rivola è sorpreso dalle bombe mentre corre in cappella per custodire al sicuro il Santissimo Sacramento. Don Santo Perin salta su una mina mentre scava per dare degna sepoltura a un soldato tedesco rimasto insepolto.

Tra i martiri della carità trucidati si ritrova Don Pasquino Borghi. «All’ordine di fuoco sui condannati si udirono solo due voci: il “Viva l’anarchia!” di Zambonini e il “Gesù mio, misericordia” di don Pasquino». Molte sono state anche le vittime della furia nazifascista, tra le quali Don Umberto Bracchi che «viene falciato mentre benediceva i propri assassini facendo il se­gno di croce» e don Alessandro Sozzi che muore «allargando le braccia in segno di preghiera».

 «L’11 dicembre 1944 una squadra di partigiani andò a prelevare il sacerdote usando, forse per la prima volta, un trucco che sarebbe poi stato ricorrente: riferire che c’era un malato grave che aveva bisogno dei sacramenti e dell’Estrema unzione». Con questo pretesto Don Ernesto Talè cade nelle mani dei nemici. Sono davvero efferate le crudeltà perpetrate nei confronti di don Giuseppe Viola, «che rallentava il passo per la flebite di cui soffriva. Arrivati al confine della parrocchia, su un piccolo ponte di pietra, i partigiani dissero al parroco che poteva tornare a casa: e fu a quel punto che gli vuotarono un caricatore di mitragliatore nella schiena. Poi lo presero per la testa e per le gambe, lo buttarono giù dal ponte e andarono a festeggiare all’osteria. Il cadavere fu trovato la mattina dopo: la mano stringeva ancora la corona del rosario. Era la mattina di Pasqua e per il paese furono visti personaggi che mostravano come trofei il cappello del prete o indossavano i suoi pantaloni macchiati di sangue. Ai funerali non partecipò alcun parrocchiano: i partigiani lo avevano vietato e, dopo le esequie, devastarono la canonica. Questo il contributo militare dato da questa banda alla lotta per la Liberazione», rileva acutamente Leoni.

Mentre con due colpi di pistola al petto e alla testa viene ucciso, sempre ‘in odio alla fede’ e con l’accusa assolutamente infondata di essere una spia dei tedeschi, il quattordicenne seminarista Rolando Rivi, dopo che della sua talare è stato fatto un pallone da calciare in un fosso.

Insomma nel volume di Alberto Leoni si ritrovano le storie troppo spesso sottaciute di martiri della fede che testimoniano «la tragica bellezza del sacrificio di sé» e lasciano trasparire, per dirla con le parole della postfazione di don Aldo Cianci, «da una parte il male banale della guerra, dall’altra il bene creativo di chi la contrasta» con la carità di Cristo senza trattenere nulla per sé, neanche la propria stessa vita.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

La battaglia di don Fortunato per salvare i piccoli dai pedofili

«Giù le mani dai bambini!» è il grido sofferto e non taciuto di un parroco di periferia contro una tragedia che si consuma drammaticamente nel silenzio e nell’indifferenza sociale: l’abuso dei minori. Un appello accorato raccolto da Roberto Mistretta nel libro-testimonianza Don Fortunato Di Noto. La mia battaglia in difesa dei bambini (Paoline 2021, pp. 200), che ripercorre la vita e le tappe dell’impegno costante e generoso di un sacerdote di Cristo contro pedofilia e pedopornografia nella fedeltà al Vangelo e che raccoglie anche alcune testimonianze di vittime di abusi, comprese quelle commesse nella Chiesa.

 «Grazie, sono libero, ma ora grida. Grida per me e per tutti gli altri bambini». Sono le parole di gratitudine per il sacerdote siciliano di Carlos, un bambino brasiliano che per due anni è stato segregato e ripetutamente abusato da una banda di pedofili. Le foto di quegli abusi venivano scambiate e vendute in Internet. Carlos è il primo innocente liberato dalla polizia nel corso di un’operazione scattata in seguito a una segnalazione partita dall’altra parte del mondo, da Avola, in provincia di Siracusa.

Piccoli indifesi violati nella dignità dalla pedopornografia, dalla circolazione di foto e video condivisi in rete per alimentare perversioni di orchi e orchesse per un business con cifre da capogiro in crescita che investe persino i neonati: nel solo 2020 sono stati individuati 14.521 link, 3.768.057 foto, 2.032.556 video e 456 chat. Oggi addirittura «succede anche di peggio: che i bambini diventino vittime due volte, del pedofilo e della società. Ricordo episodi in cui i bambini abusati sono stati allontanati, isolati, esiliati perché in qualche modo contaminati dal male. Esclusi dai giochi e dai parchi. Sarà questa la ragione per cui pochi denunciano e continuano a lavare i panni sporchi tra mura domestiche, magari gli stessi tuguri criminali dove si consuma il dolore silenzioso dell’innocenza. Ecco allora l’urgenza di accogliere chi bussa per essere salvato, accudito, guarito dalle profonde ferite di un abuso», afferma con forza il sacerdote di Avola.

 La sua vocazione affonda le radici negli orfanatrofi di Ragusa che Fortunato frequenta sin da ragazzino, spinto dal desiderio di mettere in pratica il Vangelo, mentre ringrazia per la gioia di nascere in una famiglia, dono precluso a tanti piccoli più sfortunati di lui. «Guardavo il Crocifisso e aspettavo di vedere chiaro in me». E così, dopo il diploma di ragioneria e il dovuto discernimento interiore, entra in seminario. Dalla sua infanzia affiora un ricordo traumatico, quello del maestro che strappa le basette agli alunni indisciplinati fino a farle sanguinare. Quel maestro vorrà don Fortunato al suo capezzale per riconciliarsi con Dio prima di morire. Da questa ferita interiore ne sarebbe scaturita presto una feritoia di grazie copiose per tanti innocenti indifesi.

Nel 1995 arriva ad Avola nella parrocchia della Madonna del Carmine, in un degradato quartiere periferico di seimila anime, che sarà il suo ovile per ventiquattro anni. Con un rogo simbolico sul sagrato della chiesa di riviste pornografiche invita la comunità alla custodita della purezza dello sguardo dei bambini.

Dopo la scoperta di diverse chat e immagini pedopornografiche in rete scattano le prime segnalazioni alle autorità competenti; quando ancora non esisteva la polizia postale, Don Fortunato Di Noto è il primo a porre il problema all’attenzione politica. Così nel 1998 l’Italia è il primo Paese a dotarsi di una legge che punisca con la reclusione chi detiene, commercia o ceda anche a titolo gratuito materiale pedopornografico. Ma i pedofili si riorganizzano, tentano di eludere i confini nazionali, istituiscono l’Alice Day per l’Orgoglio pedofilo il 25 aprile, allo scopo «di normalizzare i rapporti sessuali tra adulti e bambini, fino ad abolire i limiti di età in materia di rapporti sessuali». A questa iniziativa egli contrappone nella stessa data la Giornata Bambini Vittime della pedofilia.

Suscita poi tanto clamore mediatico un’indagine seguita dal procuratore di Torre Annunziata che conduce a numerosi arresti e scopre una rete con ramificazioni internazionali per un giro d’affari di «seicento milioni di dollari versati su conti della Western Union Bank di Mosca». L’operazione “Rescue” del 2011 scova una rete di settantamila adepti, porta all’arresto di 184 persone e, soprattutto, strappa 230 bambini dagli orchi, tra i quali un bambino siciliano abusato da un istruttore di calcio.

Don Fortunato prosegue con tenacia la sua missione, abbatte la coltre di silenzio e ha il coraggio di denunciare a voce alta le lobby dei pedofili che osano difendere questi atti ignobili. Tale grido, però, gli si ritorce paradossalmente contro dalle stesse istituzioni che avrebbero dovuto farlo proprio. Viene indagato, accusato perfino di detenere materiale pedopornografico e, naturalmente, ogni accusa si rivela del tutto infondata. Tuttavia egli non si perde d’animo, anzi procede con maggiore determinazione, incoraggiato dai frutti concreti di un’opera meritoria che può vantare «millecinquecento bambini salvati dalla schiavitù sessuale negli ultimi quindici anni».

«I bambini non si toccano» è il motto l’associazione Meter da lui fondata, nella quale lavorano tecnici informatici, psicologi e operatori sociali, che ha come logo una grande ‘M’, simbolo di un grembo che abbraccia, accoglie e proteggere ogni vittima attraverso un approccio globale che mira a coinvolgere in uno sguardo positivo le loro famiglie, affinché ogni bimbo possa riguadagnare l’autostima azzerata dalla violenza subita, nella consapevolezza che «un bambino amato non sarà mai abusato».

«Uno degli ultimi filmati mostrava un uomo e una donna che agghindavano bambine di un paio d’anni come se fossero minuscole prostitute» per soddisfare le perversioni di «gente disposta a spendere fortune per filmati orripilanti», per inondare gallery per turismo pedofilo, di cui abbonda il deep web, quel livello della rete che sembra assicurare l’anonimato ai carnefici.

Attraverso Meter don Fortunato Di Noto continua a combattere la pedofilia come un crimine, a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla vastità del fenomeno e a supportare le vittime con il sostegno psicologico e spirituale necessario. Questo senza dimenticare le parole più dure di Gesù, quelle rivolte proprio verso quanti scandalizzano i più piccoli.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana