Gli occhi di Maria, i prodigi nell’Italia invasa da Napoleone

È il 9 luglio 1796, l’esercito di Bonaparte invade lo Stato Pontificio. Più di cento immagini sacre, la maggior parte mariane, si ‘animano’, ovvero muovono gli occhi o cambiano colore ed espressione. Si tratta di una concatenazione di eventi prodigiosi raccontata con dovizia di particolari nell’inchiesta Gli occhi di Maria (Ares 2023, pp. 312) condotta da Rino Cammilleri e Vittorio Messori. Nel saggio, ora ripubblicato in una nuova edizione aggiornata, Cammilleri ricostruisce le tappe più significative di questa vicenda con oggettività e competenza sotto il profilo storico per poi interrogarsi sul suo significato in dialogo con l’amico Messori.

La Madonna muove gli occhi per la prima volta nel dipinto che la raffigura ad Ancona. Ne è testimone lo stesso Napoleone che ne rimane profondamente scosso e chiede che la stessa venga coperta e portata via. Napoleone arriva ad Ancona perché la città adriatica, a seguito di un armistizio imposto al pontefice, era diventata un porto francese. Subito impone una taglia e la confisca di tutti gli ori e gli argenti delle chiese. La versione ufficiale diffusa dai giacobini locali era quella secondo cui erano stati i preti a fomentare il fanatismo religioso popolare.

Eppure il fenomeno dilaga a Roma protraendosi per mesi. Prima dunque la Madonna di San Ciriaco ad Ancona, poi quelle dell’Archetto di via San Marcello e di via delle Muratte a Roma. Centouno icone si animano soltanto a Roma. Marchesi e popolani vedono Maria mentre «abbassa gli occhi sugli astanti per poi riportarlo in alto»; non è cosa di un momento, la Vergine dell’Archetto lo fa per mesi, giorno e notte. Lo stesso fenomeno è osservato per cinque, sei mesi, a Frosinone, Veroli, Torrice, Ceprano, Frascati, Urbania, Mercatello, Calcata, Todi, tutte città dello Stato pontificio. Interessa complessivamente centoventidue icone mariane e sono centinaia di migliaia gli spettatori testimoni oculari dei prodigi che non riguardano solo gli occhi di Maria, ma anche i colori spesso sbiaditi di tali immagini sacre che prendono le sfumature delicate di una persona viva e i gigli secchi nelle edicole mariane «trovati rinverditi e freschi». Di qui si formano «lunghe fila di migliaia di fedeli, scalzi, ceri in mano, recitano rosari e litanie. I confessionali sono stracolmi. Mucchi di armi e refurtiva vengono depositati ai piedi delle immagini prodigiose: malintenzionati e delinquenti si convertono e fanno voto di cambiar vita». Il papa, tramite il cardinale Giulio della Somaglia, fa istruire un procedimento giuridico teso ad accertare e certificare i fatti. Sono migliaia le testimonianze raccolte, le prime ottantasei concordano a tal punto che diviene superfluo procedere oltre; si trascrivono per scrupolo un altro migliaio di dichiarazioni giurate. La sentenza del 28 febbraio 1797 conferma la verità dei fatti e il 9 luglio è indetta la festa liturgica dei Prodigi della Vergine a perenne memoria di questo speciale intervento di Maria a protezione dell’indipendenza del Papa e della Città Santa.

Riprendendo le fonti storiche Cammilleri annota nel dettaglio l’immagine mariana interessata, il lasso temporale in cui il movimento degli occhi è stato osservato e il numero di testimoni. Nel merito lo storico De Felice, pur essendo scettico riguardo a tali miracoli, confessa che non poteva trattarsi di una montatura, in quanto vi sono tra questi anche «casi di una tale ingenuità da rendere impensabile che dietro a essi vi fossero dei “registi”, per sprovveduti che fossero». Questa vicenda ha avuto senza dubbio di miracoloso, a suo giudizio, «il clamore suscitato in tutta Italia e in buona parte dell’Europa».

Sono in tanti i testimoni inizialmente scettici, compresi i sacerdoti, che poi però si trovano a dover constatare «il prodigioso moto» arrendendosi all’evidenza di quanto vedono coi propri occhi. Per esempio il parroco di Botteghe Oscure a Roma, Onofrio del Sole, «non potendo avvicinarsi a causa della troppa folla, salì in casa del macellaio che stava proprio dirimpetto e si affacciò dalla finestra. Munito di un “cannocchialetto”, da diversi giorni osservava e aspettava. Scrive: “Il volto della Sagra Effigie aveva acquistato un non so che di vivido, di lucido, e per meglio dire di risplendente, che sembrava essere non già una figura dipinta, ma il volto di una persona vivente”. Sentiva tutti i presenti confermare quel che egli vedeva».

Tra le testimonianze illustri spicca quella del celebre architetto Giuseppe Valadier, il quale osserva il prodigio in ben sei immagini, tra cui le icone mariane di via del Corso, di via della Vittoria e quella della Madonna dei Miracoli in piazza del Popolo. Egli testimonia quanto segue: «All’improvviso mi avviddi che le pupille di ambedue gli occhi gradatamente, e con moto lento e posato si elevarono e si nascosero sotto le palpebre superiori, in guisa tale però che ancor appariva qualche porzione della luce degli occhi, e nello stesso tempo scorgevasi una maggiore quantità di bianco degli occhi, che corrispondeva a quella che prima era occupata dalle luci. Dopo un brevissimo intervallo mi accorsi che le dette luci si abbassarono, tornarono ad apparire le pupille e a porsi in quella medesima situazione ove prima si trovavano e un tal effetto parimenti seguì gradatamente e a poco a poco conforme era successo nell’elevarsi. Confesso il vero, che mi sentii in quell’atto ripieno di una grande dolcezza e tenerezza interna, onde agli occhi mi si affacciarono le lagrime. Fu altresì osservato da mia moglie, da mia sorella, dal servitore e da quante altre persone ivi erano presenti». Quanto osservato, prosegue l’architetto del neoclassicismo, è «un movimento totalmente prodigioso da non attribuirsi a cause naturali ed estrinseche, bensì all’opera di Dio. È successo quando a Dio piacque di manifestare un tanto portento».

Solo per le strade del centro storico di Roma si contano oggi circa seicento Madonnelle. Trastevere è stato il primo rione della Capitale ad accogliere il culto mariano. Perciò i suoi abitanti sono stati tra i più accaniti oppositori degli invasori giacobini, difendendo strenuamente quelle edicole che sono il segno della grande devozione mariana di tanti quartieri, al punto che molte chiese nascono proprio quali ex voto per accogliere le immagini delle Madonnelle, da Santa Maria in Vallicella al Santuario del Divino Amore. Tra queste rientra anche la Vergine dell’Archetto, la prima a muovere gli occhi a Roma il 9 luglio 1976. Sotto tale edicola una sedicenne storpia dalla nascita viene guarita. Di qui alla Vergine ‘Madre di misericordia’ e ‘Causa della nostra gioia’ dell’Archetto sono stati devoti tra gli altri i santi Giuseppe Benedetto Labre, Vincenzo Pallotti, Gaspare del Bufalo, Pio X, Bartolo Longo, Massimiliano Kolbe e Giovanni XXIII.

Se la storiografia ufficiale si è occupata di questi eventi liquidandoli quale «psicosi collettiva, illusione di massa, sbocco inevitabile della paura per i giacobini», fa riflettere quanto verbalizza la Chiesa stessa che, dinanzi a tali fenomeni, si premura di vagliarli sempre con occhio critico e attento: «Un’illusione che accomunasse tanta gente e in tanti luoghi diversi non sarebbe un prodigio superiore a quello che codesto Tribunale ha dovuto riconoscere?». E sul significato spirituale di tali fatti prodigiosi Messori afferma: «La Vergine volle far sentire la sua presenza materna proprio all’inizio della via crucis che la modernità avrebbe fatto percorrere alla Chiesa».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidana

L’amore alla prova del tempo nell’ultimo film di Avati

Un chiosco di gelati in un fermo immagine in bianco e nero, «un posto dove le cose che sognavi accadevano», apre La quattordicesima domenica del tempo ordinario di Pupi Avati, il suo «film più autobiografico e più sincero sul tempo e sull’amore», come lo stesso regista bolognese lo ha definito.

Bologna, anni Settanta. Marzio, Samuele e Sandra sono giovanissimi, ognuno con un talento da compiere conformemente alla propria vocazione. Il film si muove perciò costantemente tra passato e presente; com’erano e come sono diventati. Inizialmente c’è un amore giovanile ed entusiasta, folle e sognante, al quale in particolare la gelosia asfissiante del protagonista tarpa le ali; c’è un’amicizia nel contempo solida e fragile, quella di due compagni di classe, Marzio e Samuele, che condividono la passione per la musica e il canto e diventano un duo “I Leggenda”.

Quindi Marzio versa un frappè sul vestito di Sandra, «la ragazza più bella di Bologna», le promette il mondo e pretende di essere il suo tutto. Fatica però ad amarla come conviene, molto probabilmente perché è orfano di padre sin da quando era piccolo; Sandra, invece, è tutta protesa al lavoro e alla carriera di indossatrice, anche perché la madre le ripeteva ogni giorno di essersi pentita di averla generata.

Per i due giovani sposi, allora, l’amore diventa subito un cammino in salita per imparare ad amare anche nella prova e nel dolore, nel tradimento e nella sofferenza, al fine di divenire essi stessi realmente quel sacramento che hanno celebrato nella quattordicesima domenica del tempo ordinario. Passano perciò dall’età dei sogni, forze motrici della vita e nel contempo illusioni che prima o poi deludono, alle difficoltà concrete dell’età adulta della responsabilità che ti costringe a fare i conti con la realtà. A differenza del realismo dell’amico Samuele che accetta un tranquillo posto in banca, Marzio ancora sogna il successo come rocker. Eppure, nonostante l’immaturità affettiva e relazionale, è Marzio a dissuadere Sandra dal proposito di abortire quando quest’ultima vede nella maternità un ostacolo alla propria carriera professionale. Allo stesso modo, quando poco dopo scopre che non si tratta in realtà di un figlio, bensì di un carcinoma ovarico, Marzio alimenta la fede e speranza entrando in chiesa a pregare per la guarigione della moglie. Misteriosa è infine anche la figura del padre di Marzio che, nei momenti critici, gli compare in sogno, quasi figura allusiva del Padre, «il soccorso di Qualcuno che avevo sempre sentito inaccessibile» e che invece si manifesta sorprendentemente presente e vicino.

Tra gli attori spiccano su tutte per intensità le interpretazioni dei protagonisti Lodo Guenzi e Camilla Ciraolo che incarnano la coppia negli anni ‘70 e quelle di Gabriele Lavia ed Edwige Fenech che sono rispettivamente Marzio e Sandra in età adulta.

Tutto il film è infine significativamente condensato nella sua colonna sonora scritta in parte dallo stesso regista e composta da Sergio Cammariere e Lucio Gregoretti. È il titolo della canzone del duo “I Leggenda”, la sola da loro incisa, la sola a essere diffusa da qualche radio locale, la quale recita: «Ovunque nella stanza ci son sogni non realizzati, s’involano lontane nel silenzio terre remote, le cose belle son volate via, lasciandomi nel buio della vita». A questa amara e nostalgica constatazione fa però da contrappunto quella che segue – «Le tue labbra che cercano le mie, che trovano le mie. E tornerò per sempre alle tue dita che intrecciano le mie nel tuo tepore, nel tuo tepore sempre» – quale preludio di un anelito profondo del cuore, di una speranza destinata a compiersi in un ‘per sempre’ nonostante tutto non soltanto auspicabile, ma finalmente possibile e realizzabile.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

La storia gloriosa dei mercedari

«Pietro Nolasco, un commerciante, un mercante, un uomo benestante, a un certo punto della sua vita guarda e vede. Vede la sofferenza inumana di uomini ridotti in schiavitù, perseguitati per la loro fede. E cosa fa? Fa più del samaritano, non solo si ferma, non solo riscatta con i soldi che guadagna un gran numero di schiavi, ma mette la sua stessa vita a rischio e fonda un ordine religioso, i mercedari, che, nel caso i soldi del riscatto non arrivino in tempo o non bastino, intervengono con la propria vita pagando con il proprio corpo la somma pretesa dai “mori”».

Così scrive Angela Pellicciari nella prefazione alla gloriosa storia dei mercedari raccontata nel recente saggio Mercanti di anime (Fede e Cultura 2023, pp. 261) di Maria Bianca Graziosi, docente di Storia del Monachesimo a Verona.

 Fondati all’inizio del Duecento da Pietro Nolasco nello spirito della Reconquista spagnola e nel segno di Nostra Signora della Mercede, i mercedari si sono da subito dedicati al riscatto e alla redenzione di chi cadeva schiavo del potere islamico, con l’obiettivo di salvare le anime che rischiavano di rinnegare la fede e perdere così la salvezza eterna. Per i musulmani ridurre in schiavitù i cristiani era un’attività economica particolarmente redditizia, cui provano a porre un argine i padri mercedari, compiendo innumerevoli opere di liberazione, anche a costo della libertà e della propria stessa vita offerta in contraccambio.

Quelle fondate da Pietro Nolasco (1180-1265) sono dunque missioni di redenzione, in quanto i mercedari professano come quarto voto quello di «offrire la propria vita in cambio di prigionieri in pericolo di perdere la fede». Tali missioni si concludevano con processioni solenni in onore della misericordia divina e hanno contributo a liberare 52000 schiavi cristiani nei primi 130 anni di vita dell’Ordine.

 Tutto ha inizio quando, nella notte tra l’1 e il 2 agosto, la Vergine appare «con abito candidissimo» a Pietro Nolasco, chiedendogli di fondare un Ordine cha abbia quale opera di misericordia la redenzione degli schiavi. Qualche giorno dopo, il 10 agosto, l’Ordine viene fondato nella cattedrale di Barcellona. A Pietro Nolasco interessa «l’uomo umiliato, mercificato, sfruttato, privato della libertà e dell’identità; lo schiavo che non possiede neanche se stesso è il più povero tra i poveri». Al Nolasco sta a cuore non solo la sorte di tanti fedeli cristiani caduti nelle mani degli infedeli, ma anche quella di quanti venivano rapiti dai pirati saraceni a seguito delle incursioni sulle coste del Mediterraneo.

 Coi suoi confratelli si premura di raccogliere elemosine, anche in spezie e beni alimentari, facendo collocare «salvadanai o sacchi nelle chiese, nei crocevia, nelle piazze, nei mulini». La contrattazione, poi, non era cosa semplice: richiedeva la presenza di un interprete, del competente nel cambio e del funzionario del sovrano turco. Se il denaro non bastava i mercedari si consegnavano loro stessi in cambio del prigioniero, in specie per liberare donne e bambini, finché non fosse giunta l’intera somma pattuita. Tra i bambini, coloro che erano destinati a diventare la milizia personale del Sultano, ossia i giannizzeri, non potevano essere riscattati. «La mia vita per la tua libertà» è il nobile motto dell’Ordine. Talvolta quando il denaro si perdeva, perché magari un carico faceva naufragio, il mercedario veniva ucciso in segno di vendetta.

Bernardo di Corbara consegna l’abito a Maria de Cervellòn per cui, intorno alla metà del 1200, viene fondato il ramo femminile dell’Ordine che non ne esclude l’apostolato attivo. Attualmente i monasteri di mercedarie sono presenti solo in Spagna. Il primo santuario mariano d’America viene fondato a Santo Domingo nel 1514 ed è dedicato proprio alla Vergine della Mercede.

In una relazione dei padri mercedari del 1678 si racconta di una spedizione ben riuscita ad Algeri, in cui l’autore fa notare che se le leggi locali obbligano a curare gli animali feriti o ammalati, i padroni dei cristiani possono fare quello che vogliono di quanti sono loro ‘proprietà’. Oltre a colpirli con le corde «li attaccano al giogo delle carrette e li obbligano, a forza di colpi, a trascinare calce, sabbia, pietre per le loro costruzioni». Nella stessa relazione si racconta anche di una bambina che il padrone turco custodiva gelosamente per darla in sposa a suo figlio. Purtroppo però, poiché il figlio muore prematuramente, il padrone la chiama “cagna” e le ripete che meglio sarebbe stato se fosse morta lei. Federica viene riscattata dietro pagamento di 440 scudi. Lo sappiamo in quanto in ogni elenco i mercedari annotano nome, età, origine, anni in schiavitù e costo per la libertà dei prigionieri. L’ultimo di tale lista è un trentenne di Milano, la cui liberazione è costata 205 scudi.

Tra i prigionieri illustri a esser catturati anche San Vincenzo de’ Paoli, prigioniero dei pirati turchi durante il viaggio da Marsiglia a Narbona, e Miguel de Cervantes, «catturato dai corsari turchi nel 1575 e portato ad Algeri dove restò cinque anni».

L’Ordine di Santa Maria della Mercede è una realtà prevalentemente spagnola; in Italia si diffonde a Cagliari, Napoli, Palermo, poi a Roma. Oggi svolge la sua attività nelle carceri, nell’impegno per i rifugiati e nell’evangelizzazione missionaria per realizzare la liberazione dalle nuove forme di schiavitù economica e sociale in specie nei Paesi in via di sviluppo e nelle zone di maggiore emarginazione.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

La casa di Maria a Efeso, un luogo che preannuncia il Cielo

Panaghia-Capouli, ‘le porte della Tutta Santa’. Così sono indicate nei registri del catasto dell’impero ottomano, in un singolare connubio di lingua greca e turca, le rovine di Meryem Ana evi, la ‘casa di mamma Maria’ a Efeso. Riportata alla luce dagli archeologi nel 1891, grazie alle puntuali descrizioni offerte dalla beata Anna Katharina Emmerick che ne contemplava il luogo nelle sue visioni, la casa di Maria a Efeso è un santuario meta di pellegrinaggio per oltre un milione di fedeli l’anno di ogni provenienza e religione. Di qui, in occasione del Mese di Maggio dedicato alla Madonna, La Nuova Bussola intervista in esclusiva Enza Ricciardi, laica consacrata dell’Associazione “Discepole di Maria e dell’apostolo Giovanni”, che vive a Efeso da otto anni occupandosi, insieme alle consorelle e ai frati cappuccini, di «custodire il santuario, di animare la preghiera quotidiana e in special modo di accogliere i numerosi gruppi di pellegrini che vengono da ogni parte del mondo e desiderano celebrare la Messa nell’ultima dimora terrena della Vergine».

 

Enza, con quali parole la Emmerick descrive la ‘casa di Maria’?

La casa «era divisa in due parti da un focolare collocato al centro». Così scriveva il poeta tedesco Clemens Brentano nel trasporre su carta le visioni della Emmerick.  I padri lazzaristi, che nel 1891 ritrovarono le rovine della Casa di Maria, non poterono che constatare con stupore la veridicità di queste parole. Essi infatti si trovarono di fronte ai resti di un’antica costruzione che corrispondeva con incredibile precisione a quanto descritto nelle pagine dello stesso poeta. Anche gli studi archeologici, effettuati negli anni immediatamente successivi, confermarono le analogie e stabilirono senza ombra di dubbio che le fondamenta dell’edificio risalivano al I secolo d. C.

A Efeso la Madonna ha vissuto con l’apostolo Giovanni, figura della Chiesa nascente. Quali altri momenti degni di nota sono legati a questo luogo santo?

Innanzitutto bisogna ricordare che probabilmente proprio in questo luogo, domus ecclesiae in cui è avvenuta la Dormitio Virginis, è stata eretta la prima chiesa del mondo dedicata alla Madonna, dato che nei primi secoli gli edifici sacri potevano sorgere soltanto nelle località dove il Santo era vissuto o morto. Qui è poi risuonato l’annuncio della Theotokos nel 431, all’indomani del Concilio di Efeso che la proclamava ‘Madre di Dio’. In seguito alla scoperta archeologica della ‘casa di Maria’, i padri lazzaristi hanno raccontato che ogni 15 agosto una comunità di contadini ortodossi del vicino villaggio di Kirkince, insieme con un sacerdote, percorreva a piedi 17 km in salita sul colle, il Monte dell’usignolo, per celebrare proprio a Meryem Ana evi l’Eucarestia nel giorno dell’Assunzione. La ‘maternità’ cominciata con Giovanni sotto la croce – Efeso, Smirne, Pergamo, Filadelfia le sette chiese dell’Apocalisse, tutte facilmente raggiungibili da qui, sono nate sotto lo sguardo vivo della Madre della Chiesa che da questa collina riversava il suo amore su quelle giovani e fragili chiese – non è ancora finita!

E in effetti, stando anche alle visioni della beata Emmerick, Maria fu assunta in cielo proprio qui. Quale significato assume questo fatto per noi?

Maria «era pervasa di nostalgia e io potevo percepire quella sua nostalgia che la faceva tendere verso l’alto. La santa Vergine riposava sdraiata di spalle, era pallida e silenziosa. Aveva lo sguardo rivolto verso l’alto ed era come in estasi. Il soffitto sopra alla stanza di Maria scomparve e la Gerusalemme celeste discese su di lei. […] Ella stese le braccia con indicibile nostalgia e […] la sua anima uscì dal corpo come una piccola purissima figura di luce con le braccia tese verso l’alto e salì verso il cielo», così riporta la Emmerick. Il suo corpo assunto in cielo ci annuncia e ci assicura che è aperta per noi una porta sicura per tornare a casa, per entrare in cielo, col nostro corpo, con la nostra storia, con tutto l’essenziale della nostra umanità.

Durante il mese di maggio, ci sono preghiere e gesti di carità particolari che offrite alla Madonna?

Maggio è il mese in cui, esattamente un anno fa, abbiamo iniziato a trasmettere in diretta dalla Casa di Maria la preghiera del Rosario. Ogni sera alle 17:15 ora italiana, la comunità locale recita i misteri del Rosario in quattro lingue (turco, inglese, coreano, italiano). La preghiera viene trasmessa in diretta streaming sulla pagina Facebook della Diocesi (Izmir Katolik Kilisesi). Quest’anno il 6 maggio è in programma la prima edizione di un pellegrinaggio dal vicino villaggio di Acarlar fino al Santuario di Meryem Ana. Dopo un cammino di tre ore lungo i sentieri della collina, animato da canti e preghiere nella lingua locale, i partecipanti giungeranno sulla cima del Colle dell’usignolo per partecipare alla celebrazione eucaristica nell’area adiacente al piccolo santuario. Nella Casa di Meryem Ana inoltre in alcune occasioni speciali si recita il Rosario di Efeso per contemplare i cinque principali misteri che le mura di questa casa custodiscono: 1. Gesù affida Maria a Giovanni sotto la croce; 2. Il viaggio di Maria e Giovanni a Efeso; 3. La vita di Maria nella piccola casa sul colle: preghiera, silenzio, attesa; 4. Maria ripercorre il cammino della croce; 5. Il Paradiso accoglie Maria in anima e corpo.

Maria, è noto, è tenuta in grande considerazione anche dai musulmani…

Maria rinnova il miracolo di una pacifica convivenza tra cristiani e fedeli dell’islam, i quali hanno profondo rispetto per Colei «che credette nelle parole del suo Signore» (Corano 66, 12), intravedendo nella madre del Profeta Gesù un modello perfetto di fede e di verità.

C’è un episodio di conversione significativo legato alla casa-santuario di Maria che desideri raccontarci?

Proprio qualche settimana fa, ad Istanbul, ha emesso i primi voti religiosi nella comunità delle Missionarie Identes, una giovane donna turca. Il suo cammino di conversione, come mi ha raccontato con grande commozione, è cominciato esattamente dieci anni fa con un pellegrinaggio a Meryem Ana per la festa del 15 agosto, un’esperienza che lei stessa definisce “il viaggio che ha cambiato la mia vita”. Le vocazioni che fioriscono in questa terra sono sempre un miracolo della Madre.

 Infine, come questo luogo santo nutre ogni giorno la tua vita spirituale e illumina il tuo ministero nella Chiesa?

Oltre chiaramente alla preghiera quotidiana, alle attività pratiche legate alla custodia del santuario e all’accoglienza dei pellegrini, il vero significato della mia presenza qui è incontrare la Donna che ha vissuto in questo luogo, scoprendone giorno per giorno i gesti quotidiani e imparandone a leggerne la vita tra le pietre della casa, negli angoli della preghiera, accanto al focolare, nello sguardo aperto sul mare e lungo i sentieri che portano in cima al colle. Sono tanti i misteri della vita di Maria su cui siamo in certo modo abituati a meditare: l’Annunciazione, il Magnificat, la nascita di Gesù. Ma spesso ci mancano gli elementi per riflettere su come Ella ha vissuto negli anni successivi alla morte e resurrezione di Gesù e questa casa è un libro aperto proprio sull’ultima pagina della vita di Maria!

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

 

Le radici gnostiche del pensiero contemporaneo

Rivoluzione, libertà, progresso e cambiamento sono le parole più abusate dall’ideologia sessantottina alle cui radici soggiace l’antica eresia gnostica. Quest’acuta intuizione di Emanuele Samek Lodovici è accompagnata da parole che si riveleranno profetiche nel constatare gli sviluppi di «una rivoluzione culturale nel senso ampio del termine cultura, perché tende a ricostruire un nuovo modo di vivere, di parlare e di comunicare, di essere genitori e di essere figli, di essere marito e di essere moglie, di essere uomo e di essere donna» oggi sotto gli occhi di tutti.

«Samek aveva chiaro che la conoscenza, staccandosi dai contesti vitali della tradizione, diventa un’istanza chiusa e disumanizzante e, nei suoi riflessi etici, può portare al trascolorare della libertà nel capriccio sregolato e maldestro. Pertanto, ne denunciava i sofismi e gli artifici retorici». Così scrive il professor Clemente Sparaco nel recente saggio La conoscenza che salva (Aracne 2023, pp. 476), nel quale indaga intorno alle radici gnostiche della società contemporanea. In questa prospettiva, infatti, la condizione umana è una ‘malattia’, in particolare per colpa del corpo, che è nefasto, perciò dalla condizione umana bisogna salvarsi; esiste un ‘sapere salvifico’ quale la dottrina transumanista e il sapere tecnoscientifico; questo sapere salvifico, tramite le tecnoscienze, presume di poter ricreare l’uomo, come osserva Giacomo Samek Lodovici nella prefazione a tale volume che prende le mosse proprio dagli studi teoretici del padre sulla Metamorfosi della gnosi.

E in effetti la gnosi, che rintraccia la salvezza nella conoscenza, non designa solo un antico movimento ereticale, ma un modello teologico con pesanti ricadute antropologiche. Lo hanno individuato e denunciato apertamente intellettuali acuti quali Samek e Del Noce, Voegelin e Ratzinger. A millantare una pretesa di autoliberazione analoga allo gnosticismo sono infatti non solo i movimenti di liberazione di massa, ma anche le ideologie contemporanee, dai diktat del gender ai dettami morali dello scientismo. D’altra parte «lo gnostico si ritiene della stessa sostanza del mondo divino, e come tale, capace in forza della sua originaria divinità di redimersi. Egli prova un disprezzo profondo per il diritto e per le forme istituzionali in generale e per la legge morale in particolare», ponendosi sempre «al di là del bene e del male», come osserva ancora Samek.

Tuttavia laddove la «gnosi antica ateizza il mondo (col negare la sua creazione da parte di Dio) in nome della trascendenza divina; quella postcristiana lo ateizza in nome di un immanentismo radicale». Per cui, considerando «il male conseguenza esclusiva della società, la politica sostituisce la religione nella liberazione dell’uomo». Diviene allora la rivoluzione, per dirla con il Pellicani, la «levatrice del Mondo nuovo». E in effetti «le ideologie, partite dalla determinazione di liberare l’uomo, hanno finito per istituire regimi totalitari e violenti che ne hanno conculcato le libertà fondamentali».

Lo gnosticismo, infatti, «disincarna la fede e la riduce a pura idea». Così Ratzinger individua un altro tratto peculiare di tale eresia, che si accompagna al rifiuto del limite e alla conseguente esaltazione della superbia, giustificata quale recupero di una dignità non riconosciuta. Demitizzazione della figura di Gesù e secolarizzazione in ambito religioso; manipolazione del linguaggio e culto dell’opinione in ambito culturale; rivoluzione sessuale, possibilità di procreare senza l’altro sesso e scelta del proprio ruolo di genere in ambito bioetico sono tappe imprescindibili da attraversare secondo il paradigma gnostico. Di qui mentre la femminista Butler osservava che «il corpo è una costruzione culturale e l’identità è il portato dell’esclusione sociale e della discriminazione», il dottor Money coi suoi esperimenti contribuiva ad affermare «un transumanesimo come condizione redenta dell’umanità in un paradiso in terra da realizzarsi su base transessuale».

Eppure il compimento di ogni rivoluzione coincide col suo suicidio: «Il mito rivoluzionario non è stato abbattuto, ma è imploso», divenendo un «esercizio puramente distruttivo dell’esistente senza prospettiva di cambiamento reale». Il comunismo, sconfitto sul piano della prassi, si è risolto nella «massima ingiustizia, massima illiberalità, massima miseria» (Messori). Infatti «la libertà per tutti si è rovesciata nel regime della massima oppressione». Così il comunismo ha provato a reinventarsi alleandosi con il neocapitalismo nel condividere l’abbattimento dei valori tradizionali. Ma se la storia, e Vico insegna, non è «un’incontrastata galoppata trionfale, quanto piuttosto un ritornare sui propri errori, per dover ricominciare daccapo», più che agire sulle contingenze esterne attendendo una redenzione da chi non può offrirla, si tratta allora di guardare al cuore dell’uomo considerandone parimenti il peccato e la necessità dell’ausilio della grazia divina. In effetti «il cielo vuoto non è stato riempito dalla grandezza dell’uomo, ma dalla sua follia, dal suo orgoglio, dalla sua sete sanguinaria» (Tamaro); dal nichilismo, dallo scientismo, da un’autodeterminazione autoreferenziale e dall’onnipervasività di «una ragione digitale che tende a soppiantare la ragione integrale, spazzando via il mondo reale e il senso comune».

Per arginare tale deriva conoscitiva ed etica occorre liberarsi «dalla presunzione progressista di essere i primi, pur essendo arrivati ultimi» (Samek) e recuperare la possibilità che «ragione e fede si ritrovino unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza» (Ratzinger). In sostanza, poiché il cambiamento non è buono in se stesso, la storia non salva se stessa né la conoscenza salva, è opportuno tornare a una conoscenza umile e vera della realtà mediante una ragione aperta alla fede e adorare in special modo l’Eucarestia, in cui «la conoscenza che salva si fa mistero di salvezza».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Ridere in sagrestia non fa peccato

«C’era qualcosa che Egli nascose a tutti gli uomini quando andò a pregare sulla montagna. Qualcosa che Egli ha coperto costantemente con un brusco silenzio o con un impetuoso isolamento. Era qualcosa di troppo grande perché Dio la mostrasse a noi quando Egli camminava sulla terra. Ed io qualche volta ho immaginato che fosse la Sua allegria», scriveva Chesterton, ben consapevole che vivere con Gesù significhi rimanere nella gioia.

 Si può allora ridere allegramente anche in compagnia di papi, preti e beati, come attesta Il riso fa buon santo – una copiosa raccolta di barzellette e simpatici aneddoti per ogni giorno dell’anno, a cura del ‘patriota cosmico’ (frate Roberto Brunelli), Costanza Miriano e l’attore Pietro Sarubbi – recentemente pubblicata da Leardini (2023; per ulteriori informazioni su vendita e distribuzione: laperlapreziosa@libero.it).

D’altra parte «al fondo di ogni tristezza c’è la paura della morte, del non essere, e quindi anche del non esser amati», come precisa la Miriano, per cui al contrario il cristiano è invitato alla gioia proprio dalla consapevolezza di esser partecipe di un destino di salvezza e di gloria senza fine.

 «Un giorno un bambino chiede a un gesuita: “È vero che voi gesuiti rispondete sempre a una domanda con un’altra domanda?”. E il religioso: “E chi ti ha insegnato questa falsità?”». A questa battuta fa eco anche una barzelletta che, con sagace ironia, evidenzia specificità e carismi di ordini religiosi e movimenti dentro e fuori la Chiesa: «Durante un raduno ecumenico, un usciere grida: “Al fuoco, al fuoco, l’edificio sta bruciando!”. I francescani si radunano e cantano le lodi di frate focu. I luterani affiggono 95 tesi dichiarando che il fuoco è corrotto. Gli ebrei mettono un segno sulla porta perché il fuoco non li tocchi. Gli scientisti dimostrano che non c’era alcun fuoco. I pentecostali aspettano che arrivi sulle loro teste. I domenicani radunano un capitolo che nomina un delegato, il quale indice una commissione per studiare il fenomeno scientificamente. I benedettini scrivono un nuovo brano in gregoriano. Opus Dei pensa che è un attentato di Dan Brown. I neocatecumenali davanti al fuoco che incombe confessano i loro peccati pubblicamente. I salesiani insegnano a non aver paura del fuoco. I paolini mandano un giornalista che descrive l’incendio. I gesuiti fanno passare un cestino per raccogliere i fondi e pagare i danni».

Tra gli insegnamenti ripresi anche quello di un monaco, il quale soleva dire ai bambini: «Dio è come una farfalla. Più cercate di afferrarla, più vi sfugge. Se invece avete la fedeltà e la pazienza di aspettarla, viene a posarsi sul vostro naso».

 Relativamente alle modalità di predicare dei pastori, san Tommaso d’Aquino afferma: «Le prediche corte piacciono di più: se sono buone, si ascoltano più volentieri; e se sono cattive, pesano di meno». Gli fa eco Joseph Ratzinger: «Il miracolo della Chiesa è di sopravvivere ogni domenica a milioni di pessime omelie». D’altra parte «molti teologi andranno in Paradiso, ma per verificare di persona fino a che punto si sono sbagliati». Un altro aneddoto ricorda che «un porporato parlava molto di dialogo al Concilio, ma lo predicava poco nella propria diocesi. “È uno specialista del monologo sul dialogo” dicevano i suoi preti».

 Biagio da Cesena, cerimoniere al seguito di Paolo III, si lamenta col pontefice del fatto che Michelangelo gli avesse dato il volto di Minosse perché aveva criticato i nudi del Giudizio universale. E l’ironia del papa non si fa attendere: “Se t’avesse messo nel Purgatorio, farei di tutto per levarti; ma nell’inferno non posso fare nulla”.

Tra le ‘battute papali papali’ a chi chiede al papa Giovanni XXIII quante persone lavorino in Vaticano, il pontefice risponde candidamente: “Oh, non più della metà!”. C’è spazio poi per i suggerimenti creativi dei santi, in particolare san Filippo Neri invita una signora a trattenere dell’acqua in bocca senza ingoiarla quale antidoto all’ira verso il marito. A chi gli chiede come si faccia a peccare col naso, lo stesso santo fiorentino replica: “Ficcandolo negli affari degli altri”».

L’autoironia del curato d’Ars emerge in modo particolare in un episodio quand’egli, ancora seminarista, si sente apostrofare ‘asino’ da un professore molto severo al quale però ribatte prontamente: «“Se Sansone con una mascella d’asino è riuscito ad abbattere 3000 Filistei, che cosa non potrà fare il Signore con un asino tutto intero?”».

Un professore di Firenze crede invece che san Pio si sia procurato le stimmate per autosuggestione. Il frate di Pietrelcina replica: «“Dite a costui di pensare intensamente di essere un bue e vediamo se gli spunteranno le corna!”». A un visitatore che chiedeva con insistenza la sua intercessione, san Pio risponde con ironia: «“Non sono io che faccio i miracoli. È quello lassù! Io non sono che un maccherone senza sugo”».

Nel volume sono raccolte anche barzellette legate alla vita matrimoniale – «Pratichi sport estremi? Sì. Ogni tanto contraddico mia moglie» – e battute d’autore, come quella di Chesterton: «I rivoluzionari francesi adoravano la dea Ragione, la quale, anche ammettendo le loro molte virtù, sembrava la divinità che meno li aveva favoriti».

Insomma dalle battute pungenti a quelle più esilaranti; dagli episodi comici e ironici più o meno celebri delle vite di papi e santi appare evidente che ‘il riso fa buon santo’!

Fonte: Il Timone news

Tra l’animale e l’uomo è l’anima che fa la differenza

L’anima è soffio vitale. I filosofi greci, che ne indagano la natura a partire dall’etimologia della parola greca anemos (“vento”, “respiro”), le riconoscono il ruolo di principio del movimento, ossia ciò che rende gli esseri viventi. Per Socrate l’uomo è la sua anima; per Platone l’anima, essendo principio di vita, non può abbracciare il suo contrario che è la morte; per Aristotele è in grado di cogliere le realtà intelligibili ed è immateriale perché, se fosse corporea, dovrebbe avere una qualità (es. il caldo) e non anche il suo contrario. In ambito latino per Cicerone l’anima umana ha rapporto con Dio; in ambito cristiano, lungi da ogni forma di spiritualismo e materialismo, l’anima è carnale, per dirla con Péguy.

È quanto scrive in un rapido excursus sulle diverse concezioni dell’anima nel corso dei secoli il professore e giornalista Francesco Agnoli nel recente saggio L’anima c’è e si vede (Il Timone 2023, pp. 164). Nel volume l’autore individua inoltre numerose vie razionali quali prove per una deduzione logica dell’esistenza dell’anima, grazie all’apporto sinergico di diverse discipline, dalla genetica alla paleontologia, dalle neuroscienze all’archeologia.

Il materialismo, che affonda invece le proprie radici nell’atomismo di Democrito criticato già da Aristotele (in quanto se l’anima fosse corporea, si troverebbero nel contempo due corpi in un solo corpo, il che è logicamente impossibile), si trova nell’impasse di dover spiegare come «la materia, che è immobile, rigidamente determinata, non vivente, quantificabile, pesabile, possa giustificare il movimento, la libertà, la vita, il pensiero, l’amore, la moralità, le idee religiose, filosofiche, matematiche». In buona sostanza i materialisti sostengono che tra l’uomo e il sasso vi sia una differenza puramente quantitativa legata al numero di atomi e non anche qualitativa tra la «materia-uomo che vive e pensa e tutto il resto della materia che non vive e non pensa». Per costoro con la morte anima e corpo si disgregano a vantaggio dell’universo, divino ed eterno. Siamo dunque agli antipodi della visione cristiana per la quale l’uomo è immortale mentre l’universo finirà.

 La conoscenza di verità universali e necessarie, come le leggi fisiche e matematiche, è un’operazione dell’intelletto, per cui è parimenti immateriale anche l’anima che le conosce. C’è poi la via del linguaggio, che è biologico-istintuale, ripetitivo e limitato negli animali, laddove quello verbo-vocale umano è estremamente creativo, «un potere illimitato di un organo finito», per dirla col paleoantropologo Tattersall. Gli animali invece, pur possedendo un codice comunicativo, non sanno comporre e disporre, non hanno la sintassi e la ricorsività (capacità di espandere una frase potenzialmente all’infinito), né la capacità di combinare insieme diversi gesti iconici. Ogni anima è poi singolare e presenta una coscienza morale, per cui naufraga il tentativo della criminologia ottocentesca di dimostrare che l’uomo agisca deterministicamente alla stregua di un oggetto materiale.

C’è poi una via genetica all’esistenza dell’anima, in relazione alla quale il genetista Collins afferma che «l’altruismo disinteressato rappresenta un vero scandalo per il pensiero riduzionista». A differenza di quello biologico dei lupi e delle api dettato da reazioni automatiche, l’altruismo umano è infatti sempre accompagnato da un giudizio morale. D’altra parte non esiste un gene per l’amore o per la coscienza e «l’uno per cento che distingue Shakespeare da uno scimpanzé è proprio la prova che non sono i suoi geni ad aver scritto l’Amleto», per dirla col biologo francese Testart.

Anche la medicina apporta un contributo all’esistenza dell’anima. Agnoli riferisce in proposito l’argomento delle malattie psicosomatiche; il fatto che in tanti si risveglino dal coma perché magari i familiari hanno continuato a parlare loro e la preghiera, i cui effetti benefici anche a livello cardiologico e psichico sono stati recentemente oggetto di numerose conferme scientifiche.

La felicità giammai conseguita soddisfacendo i soli bisogni materiali e che dimora in esperienze spirituali, come la natura del desiderio di portata infinita, testimoniano ancora che l’uomo ha una dimensione spirituale. La via delle neuroscienze non è in grado di spiegare «come da una serie di eventi elettrochimici emerga la soggettività di ogni uomo», osserva Agnoli citando il neurochirurgo Gandolfini. La stessa intelligenza artificiale è sempre programmata dall’uomo per rispondere agli stimoli in modo meccanicistico, e dunque non libero.

Ci sono poi la via della mano, data la capacità prensile dell’uomo (basti osservare una persona che canta accompagnandosi con uno strumento) e la via della fragilità corporea, che considera l’uomo fisicamente inadatto rispetto alle altre creature eppure così capace di «modificare l’ambiente in cui vive per metterlo in armonia con i propri geni», di contro agli altri animali non razionali. Infine, a ulteriore conferma dell’esistenza dell’anima, si pongono la via dell’archeologia, dalla quale affiora il bisogno di ogni civiltà di seppellire i morti nella fiducia di un destino ultraterreno; la via della sessualità e dell’amore e quella cosmologica secondo cui, citando l’astrofisico vietnamita e docente all’Università della Virginia Xuan Thuan, «l’universo sembra essere configurato apposta per la comparsa di un osservatore intelligente, capace di apprezzarne il livello di organizzazione e di armonia. Questo universo è la pianta, noi il fiore».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

I misteri del Triduo pasquale nelle omelie di San Bernardino

«Cristo, volendo far capire quale fosse la grandezza del mondo, volle che gli fosse portata l’asina che era aggiogata. La gloria del mondo è come un vapore della terra che il sole, che è la vera gloria di Dio, subito manda via». Nel suo ingresso a Gerusalemme Gesù rifugge le lusinghe del mondo, preparandosi così alla sua Passione, che costituisce il cuore dell’omiletica in volgare del frate Bernardino da Siena condensata nelle sue Prediche della Settimana Santa (Paoline, pp. 262).

Le reportationes sul «Cristo passionato», ossia gli ‘appunti’ delle omelie del santo senese pronunciate a Firenze durante la Settimana Santa del 1425, si sviluppano lungo le coordinate ‘amore-dolore’ e sulla scia della drammatizzazione della Passione già in auge ai tempi di Jacopone da Todi. San Bernardino, che nel 1400 rimane a lungo al capezzale di tanti ammalati di peste e moribondi per assisterli anche spiritualmente fino all’ultimo respiro, contrae gravemente anch’egli il morbo, provandone gli effetti devastanti sulla propria pelle.

«Non vi è miglior cibo, né più dilettevole, per chi si è ben esaminato nella sua coscienza e confessato bene, che il sacramento del corpo di Cristo», proclama il santo frate nell’omelia In Coena Domini, ricordando la necessità di celebrare degnamente il sacramento della riconciliazione «con grande dispiacere del peccato, amarezza e dolore di cuore; l’intenzione di correggersi; il diletto del divino parlare, anche nell’ascolto delle divine ispirazioni; la prontezza nelle opere buone e il godere del bene e il piangere del male del prossimo» per poter poi vivere pienamente la comunione con Cristo e i fratelli nel sacramento dell’Eucarestia.

Relativamente all’omelia nel Venerdì Santo, «per sentire la dolorosa morte di Cristo, bisogna che la fonte della grazia impetri per noi la grazia senza la quale non è possibile che noi ora contempliamo un mistero tanto doloroso». Di qui San Bernardino ricorre in apertura a Maria, «fonte di grazia, confitta in croce con Cristo e trasformata in lui e Cristo con lei»; poi ripercorre dodici dolori vissuti da Gesù. Tra questi rileva anzitutto il dolore del Maestro nel lasciare gli amici di Betania e non solo –  Marta, Maria e Lazzaro, ma anche la Vergine e Maria Maddalena – per recarsi a Gerusalemme e lì affrontare la sua Passione per compiere la volontà del Padre. In un dialogo commovente tra il Figlio e la Madre, «io penso che allora Gesù le dicesse: “In te sola verserò l’angoscia del mio dolore. Questo trapasserà la tua anima, dolce madre mia”», scrive il frate santo parafrasando i versetti evangelici, nel contempo in maniera fedele e creativa, sulla scia delle laudi drammatiche.

Il secondo dolore è dato dalla consapevolezza del tradimento di Giuda e nel «vedere i suoi cari discepoli dispersi e scandalizzati per lui. Aveva quasi più dolore per loro che per sé, perché li amava come fratelli». Il terzo dolore è legato all’agonia nel Getsemani: «Il timore della carne, che vedeva avvicinarsi l’ora di tanta passione, risalì con tutto il suo sangue al cuore, facendolo restare pallido e smorto; ma la carità sgorgata dal cuore esce fuori e manda via il sangue alle altre parti del suo corpo con tanto empito di amore sgorgato che non poté resistere e uscì fuori da tutti i pori, proprio come fa il sudore di acqua; uscì e sgorgò fino a terra. Pensa come dolore ed amore combatterono forte in lui».

Il maltrattamento subito da Cristo mentre «si lasciava trattare a modo loro» costituisce il quarto dolore; l’abbandono dei discepoli il quinto. I dolori di sua Madre e quelli delle percosse, per cui «da più bella creatura del mondo è diventato tutto livido e smorto» costituiscono il sesto dolore; l’esser sbeffeggiato da Pilato ed Erode e «condotto legato di qua e di là» il settimo. Flagellazione e corona di spine, sputi e scherni, sono l’ottavo dolore; «il dolore e la pena che ebbe per Lei», quando incontra lo sguardo della Madre, ne costituiscono il nono. La caduta sotto il peso della croce e la «superangoscia» della Vergine sono il decimo, mentre la crocifissione è l’undicesimo dolore: «Sostenne una grandissima sofferenza e dolore. Il suo sangue prezioso scorreva copioso, l’amore sgorgava, diluvio di grazie d’amore». L’ultimo dolore traspare infine dalle cinque piaghe e nelle sette parole pronunciate dal trono della croce.

 L’omelia nel Sabato Santo è invece il prosieguo ideale di quella del Giovedì Santo, per cui la predicazione di san Bernardino ritorna sul sacramento dell’Eucarestia per promuovere il precetto della Comunione almeno a Pasqua quale «sacrificio a Dio, viatico nostro e comunione del prossimo o col prossimo». Di qui l’esortazione: «Apri a Dio e chiudi al mondo nel Sacramento vigorosamente! Ricevilo con buon viso, come ricevi a casa tua un grandissimo tuo amico; sorridigli e fagli molte carezze».

Poiché gli apostoli e le donne «non avrebbero potuto sopportare la vista della sua forma così splendente», nella domenica di Pasqua, Cristo «si mostra fisicamente secondo quanto erano disposti verso di lui più o meno, così appare loro». Di qui, sulla scia del Risorto, «lucentezza, levità, sottilità e impassibilità sono le quattro doti che avranno i corpi resuscitati in gloria». Dopo aver accennato brevemente alle apparizioni del Risorto, tale omelia s’interrompe purtroppo bruscamente sulla scena del perdono a Pietro dopo il rinnegamento, segno di luminosa speranza per la redenzione di quanti si aprono con cuore umile ad accogliere l’infinita misericordia del Padre per vivere una vita nuova ‘da risorti’ che produca frutti di salvezza eterna.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Padre Livio: “Con Maria sulla strada della Pasqua”

«Il mistero pasquale della nostra salvezza non è soltanto un evento del passato ma, per volontà di Gesù Cristo espressa nell’ultima cena, rivive in ogni celebrazione eucaristica, affinché possiamo partecipare attivamente e ottenere i frutti della redenzione». Con questo auspicio padre Livio Fanzaga, noto direttore di Radio Maria, apre il recente volume Con Maria sulla strada verso la Pasqua (San Paolo 2023, pp. 160)

Costellato di numerosi spazi per scrivere le proprie riflessioni, il libro intende offrire un prezioso percorso spirituale per accompagnare il fedele, attraverso la meditazione sulla Parola e la preghiera a e con Maria, nel tempo proficuo di grazia della Quaresima in attesa di risorgere con Cristo a vita nuova.

Immersione nella Parola e volontà di entrare nella lotta con il proprio impegno personale costituiscono il punto di partenza del cammino quaresimale. D’altra parte «le sue parole illuminano, perché egli è la Luce. Le sue parole indicano il cammino da percorrere, perché egli è la Via. Le sue parole nutrono e infondono forza, perché egli è la Vita», osserva padre Livio.

Le meditazioni e i piccoli ‘esercizi spirituali’ quotidiani proposti dall’autore traggono linfa dalla Parola che salva. Pertanto, relativamente alle tentazioni con cui Cristo viene messo alla prova, padre Livio sottolinea che «il “vattene, Satana” pronunciato con­tro il tentatore segna l’inizio di un tempo nuovo, di una novità radicale nella storia umana. La li­berazione dell’umanità dalla dittatura di Satana è la grande opera compiuta da Gesù Cristo». L’esercizio pratico suggerito in questo caso è un invito: «Esaminati sulle situazioni che, in particolare, sono per te di ostacolo al tuo avvicinarti a Dio con cuore libero»; mentre la preghiera invoca Maria attraverso le parole di San Luigi Maria Grignion de Montfort: «Le tue virtù prendano il posto dei miei peccati».

Tra i consigli spirituali di padre Livio spicca quello «di essere fedele nel frammento di tempo che Dio ti dona, senza guardare troppo avanti, avendo la massima cura che ogni giornata sia come un fiore di amore che offri al tuo Dio», in quanto se «come la minuscola formica, avrai messo ogni giorno nel granaio di Dio un chicco di santità, arriverà un momento in cui scorgerai con meraviglia quanto la grazia del Signore ha fruttificato nella tua vita». E ancora una volta la Parola si fa preghiera attraverso le parole di Madre Teresa di Calcutta, nella richiesta alla Vergine di un cuore puro: «Dammi il tuo cuore, rendimi capace di ricevere Gesù nel pane della vita, amarlo come lo amasti e servirlo sotto le povere spoglie del più povero tra i poveri».

Oltre al combattimento spirituale la Quaresima è un tempo propizio anche per mettersi in ascolto della propria sete di Dio, ossia del proprio desiderio di felicità. Eppure lo stesso autore, commentando l’incontro di Gesù con la samaritana al pozzo, constata con amarezza che «nell’acqua morta dei pozzi umani, la sete non fa che aumentare, fino a diventare un’arsura insopportabile». Ma il Signore è venuto a colmare tale anelito del cuore e «il dono di Gesù non è una cosa, ma la sua stessa persona». Infatti, prosegue il direttore di Radio Maria, «se sei stanco, lui è il tuo riposo. Se sei malato, lui è la tua medicina. Se sei debole, lui è la tua forza. Se sei triste, lui è la tua gioia. Se sei disperato, lui è la tua speranza». Di qui «Gesù non ha escogitato un metodo per salvarsi dal male e dalla morte, ma ha semplicemente indicato se stesso come sicuro porto di salvezza».

Dinanzi alle prove e avversità della vita, occorre perciò domandare al Padre la fortezza, virtù che non «la si mostra con le parole nei momenti di bonaccia, ma con i fatti quando si sca­tena la bufera», proprio come la Madre ai piedi della croce. In questo modo non si rimane prigionieri della paura, sebbene quella provata da Gesù nel Getsemani non sia la medesima paura dei discepoli, bensì «lo sgomento della natura umana di fronte a una potenza ostile che la sovrasta».

Certo se da un lato la croce è «la prova manifesta di quanto l’uomo sia amato», dall’altro assume anche un valore pedagogico, nella misura in cui «nella prova l’Onnipotente ci mostra quello che siamo e ci mantiene nell’umile conoscenza di noi stessi» e nella consapevolezza della necessità della sua grazia. Dunque il modo di portare la croce costituisce senza dubbio «la prova della verità di una persona», dal momento che «la vita di ogni uomo è una “via crucis”, una salita al calvario della propria morte». Così, per Cristo, «nel momen­to della massima abiezione, quando il mondo cerca di distruggere l’umanità di Gesù, dalla croce emana lo splendore misterioso della sua divinità». E in effetti «il miracolo del croci­fisso è di rivelare attraverso l’immagine di un uomo torturato la presenza misteriosa del Figlio di Dio». Tra le preghiere di questa sezione meritano di essere citati questi splendidi versi di Efrem il Siro alla Vergine, invocata quale «asilo dei peccatori pentiti»: «Sperdi la nebbia dei miei torbidi pensieri affinché, ravvivato dalla serena e tranquilla luce del tuo sguardo, io possa offrirmi vittima accettevole al tuo Figliolo e mio Dio, venuto al mondo per chiamare i peccatori a penitenza».

Maria, donna della fede, è infatti «la prima credente e la prima cristiana»; sotto la croce «la Chiesa è viva soltanto in lei». Così, «quando una grossa pietra chiude il sepolcro e la rassegnazione senza speranza si impadronisce dei cuori, la Vergine persevera nella fede fino alla fine e apre la via alla gloria della risurrezione». Tale gloria si rivela dunque quale promessa mantenuta di un destino comune. D’altra parte, come evidenzia padre Livio, «il desiderio di immortalità, che l’uomo avverte nel suo cuore, è un anelito per una vita nuova, liberata dal male che la inquina. È l’aspirazione a una vita superiore, circonfusa di bellezza e di purezza, di libertà e di gioia, di amore e di pace. Gesù conosce questa profonda aspirazione del cuore umano e si propone come colui che la adempie in pienezza».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Io sono Giuda, un dramma ispirato agli scritti di Maria Valtorta

«Signore, tu devi avere aspetto regale. È questo che la gente vuole vedere. Nel mondo bisogna imporsi con la presenza e io ho preparato tutto come si addice a un Re». Così si esprime l’apostolo che tradirà il Maestro in Io sono Giuda (Ares 2023, pp. 123), sceneggiatura di un mediometraggio disponibile su YouTube scritta da Giampiero Pizzol sulla scorta dell’Evangelo di Maria Valtorta, per la regia di Andrea Carabelli, che è anche interprete del protagonista.

Girato tra Matera e Milano nell’estate del 2021, «il film è la rappresentazione dell’amicizia che Gesù stabilisce con Giuda. E insieme a lui con ogni uomo che Lo incontra. Da vivo e da risorto. Giuda è prima di tutto colui che tradisce un amico, anzi l’Amico. Un amico che comprende tutto dell’essere umano: le sue fragilità, le sue incomprensioni, le sue passioni malate, il suo egoismo. E come amico gli chiede solamente di riconoscere il suo male e di starGli vicino. Ma anche di fronte a un’amicizia certa, stabile e sicura si può retrocedere, non abbandonarsi, non fidarsi», sottolinea Carabelli nell’introduzione.

 Giuda vive di contraddizioni, manifesta un amore fragile, immaturo e irruento per Gesù, è «un vino giovane che trabocca e spacca gli otri con violenza», per dirla con le parole della Valtorta, la quale lo presenta come l’unico tra gli apostoli che non è stato chiamato, che si autopropone al Maestro perché «sogna il Regno di Dio» in forza delle sue competenze.

Nel tratteggiarne la figura, Carabelli rileva infatti che Giuda si proclama capace di «fare affari, creare rapporti coi romani e garantire stabilità economica e protezione al gruppo»; è un perfetto «businessman» in competizione costante con gli altri apostoli che non smette di invidiare. Inoltre è «perfettamente inserito nella mentalità del suo tempo: tutto il popolo ebraico aspettava un avvenimento miracoloso, qualcosa di eccezionale che avrebbe realizzato la giustizia nel mondo, ma quando Gesù gli propone un’altra strada, la Sua strada, Giuda non accetta. A Giuda manca l’umiltà di riconoscere chi solo può salvare la vita. La decisione di togliersi la vita è frutto del crollo del suo progetto e dell’esplicitarsi in lui del germe del peccato: sarete come Dio», osserva ancora il suo interprete.

Per questo motivo Giuda non desidera il perdono divino: è questo il peccato imperdonabile di un cuore ostinato che si condanna così a rimanere da solo nelle tenebre. «Sogna gloria e onore e di far cadere a terra quelli che accusavano Gesù. Far piovere fiamme dal cielo!». Perciò non accetta l’idea di un Dio umile e umiliato, esclamando: «“Bella figura abbiamo fatto. Dottrina, guarigioni e nient’altro!”». Finge di preoccuparsi dell’onore del Maestro, senza però curarsi del proprio, dal momento che viene sorpreso tra l’altro mentre esce ubriaco da un bordello, stando a quanto racconta la Valtorta.

Nella drammaturgia di Pizzol, Gesù gli ricorda: «“lo ti insegno la via per divenire come dio e tu ti abbassi a voler essere un misero ministro di uno Stato. Coltivi pensieri di grandezza umana e amicizie che giudichi utili a questa grandezza. Ma il Sinedrio non ti ama, come non ama me». Ma Giuda rimane fermo sulle proprie convinzioni. Allora le parole del Maestro si fanno più esplicite e dirette: «“Tu non mi vuoi seguire mi vuoi guidare. Il mio potere si arresta alla soglia della tua anima, della tua libertà”»; la libertà di fare del male a Lui e dunque anche a se stesso.

Negli ultimi dialoghi si constata come più il cuore del peccatore rimane indurito nella propria ostinazione, più la misericordia di Cristo senza limiti cerca con ogni sguardo e mezzo di spezzarne le catene affinché ritorni a Lui: «“Giuda credimi, Dio ti ama e attende solo il tuo volere per fare di te la gemma della Redenzione, la preda più grande strappata al nemico. Giuda è stato il mio più grande dolore e per lui io sarò misericordia fino all’ultimo respiro, fino all’ultimo bacio”».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana