Senza diritto naturale non c’è giustizia, de Tejada conferma

«Sotto l’orizzonte della civiltà cristiana il singolo è irriducibile al tutto sociale in quanto dotato di un destino d’immortalità». È tale consapevolezza a illuminare il legame tra diritto naturale e giustizia al centro di Filosofia del diritto pubblico (Jovene 2022, pp. 225), una raccolta di saggi significativi del filosofo giusnaturalista spagnolo Francisco Elías de Tejada con una preziosa introduzione del professor Giovanni Turco.

Di qui, sulla scia della tradizione aristotelico-tommasiana, «dato il carattere sociale dell’uomo, la politica è arte regolatrice in vista di un adeguato sviluppo, conferma alla vita autenticamente umana», come osserva Turco relativamente all’analisi tejadiana. Il diritto si configura allora quale condizione della politica, per cui non c’è separazione tra i due ambiti, come accade invece nella tradizione moderna, che oscilla tra il primato del legale (Kelsen) e quello del politico (Schmitt), in cui è l’autorità di chi governa a dettar legge emanando norme in ossequio esclusivo alla sua volontà di potenza.

E in effetti lo ‘Stato di diritto’, «quello che sminuisce l’uomo alla pura condizione animale, eludendo la dimensione trascendente, è un attentato alla dignità dell’essere umano», scrive de Tejada. E ciò lo si constata anche oggi drammaticamente in tante leggi inique. Perciò occorre ripristinare uno ‘Stato del diritto’ quale «ordinamento giusto, nella misura in cui è il primato del bene comune a determinare il giusto legale e questo dà compimento a quello» – come sottolinea ancora Turco nel commento al contributo speculativo del giusfilosofo spagnolo – perché la politica non può esser ridotta né ad attività amministrativa, né di governo, né all’operatività dello Stato.

Il realismo del pensiero dell’Aquinate viene ripreso con grande chiarezza da Tejada: «La società è il risultato del desiderio della socialità, il potere politico è l’ordinazione naturale di quella società che la natura umana impone e la politica è l’arte regolatrice di conseguenze, con tutta la ricchissima gamma di problemi che comporta l’adeguato sviluppo di una conveniente convivenza umana».

In relazione al legame tra giustizia e sicurezza, Tejada rileva che «l’essere umano deve conseguire, praticando la giustizia, il suo destino trascendente verso Dio; l’uomo deve coesistere nella sicurezza con altri uomini per avere la possibilità di operare in modo da presentarsi come giusto davanti al suo Creatore e giudice». E ciò adempiendo anzitutto ai comandi divini.

La libertà dell’uomo è allora dunque sempre «libertà nella responsabilità del suo destino ultraterreno», per cui si tratta di riconoscere il diritto naturale quale condizione di possibilità del bene comune e «fondamento di ogni autentica civiltà», ribadendo il primato della retta ragione nel giudizio sulla realtà delle cose e su quanto accade. Al contrario, «se il diritto positivo è svincolato dal diritto naturale, elude la dimensione conforme all’ordine morale degli enti e si riduce a mero apparato di coazione», generando «tirannia animalesca».

Osservando la realtà empirica, Tejada ritiene perciò che il diritto non possa fondarsi sull’uomo che «può sbagliarsi o fare deliberatamente il male, poiché l’uomo può peccare settanta volte al giorno; la maggioranza democratica non è mai garanzia di avvedutezza, perché un cieco non è adatto a guidare un altro cieco. Occorre dunque una regola sicura, regola per non sbagliare che può derivare solo da Dio».

Pertanto «il diritto positivo, opera degli uomini, deve essere subordinato al diritto naturale, opera di Dio». In altri termini, «il diritto positivo è diritto nella misura in cui fa suo il diritto naturale» in ossequio alla legge eterna divina. Altrimenti un capo politico può anche essere un buon custode dell’ordine pubblico senza per questo mai amministrare la giustizia.

Alla luce di tali riflessioni, in buona sostanza, «senza il diritto naturale non è possibile la civiltà cattolica, né lo zelo missionario, né eroismo crociato; non è possibile la libertà teologica, e in assenza di questa non c’è libertà politica. Neppure è possibile autorità giusta, perché l’autorità viene da Dio attraverso il conformarsi alla legge naturale dettata da Dio stesso. Senza il diritto naturale cattolico non c’è altro che violenza politica, amarezza teologica, umiliazioni indegne, soggettivismi assurdi, collettivismi degradanti, rivoluzioni e tirannidi».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Il cavaliere rammollito, aneddoti tra storia e devozione

«L’Anello era poi passato di mano in mano, ma non aveva portato fortuna a chi non ne aveva tenuto in giusta considerazione il carattere sacro». Ne Il cavaliere rammollito (Fede e Cultura 2023, pp. 160), Rino Cammilleri si sofferma anche sulle peripezie e i prodigi legati all’anello nuziale donato da San Giuseppe alla Vergine Maria e ora custodito nella cattedrale di San Lorenzo a Perugia.

C’è spazio poi per il racconto delle origini della devozione spagnola alla Nostra Signora del Buon Successo, a partire dalle apparizioni profetiche della Madonna «a madre Mariana Francisca de Jesús Torres y Berriochoa, superiora delle concezioniste (francescane consacrate specialmente all’Immacolata Concezione) a Quito in Ecuador, dal 1594 fino alla morte della veggente (che era stigmatizzata) nel 1635, in virtù delle quali a Madrid vengono celebrate messe dalle cinque del mattino alle due di pomeriggio ininterrottamente».

Egli indaga ancora le vicende del principe rumeno Constantin Brâncoveanu nato nel 1654 che, grazie alla sua abilità diplomatica, riesce a mantenere la Romania fedele al cristianesimo, sebbene lavori come funzionario dei turchi. Accusato ingiustamente di tramare contro gli stessi, viene deportato insieme ai figli a Costantinopoli: avrebbero avuta salva la vita se si fossero convertiti all’islam. Alla vista del sangue dei fratelli giustiziati il piccolo Matei lo supplica di accogliere tale proposta, ma «il padre gli risponde che non valeva la pena di tradire Cristo per vivere pochi anni ancora». Decapitato, viene canonizzato quale martire nel 1992.

Di qui il Kattolico ripercorre le tappe della conversione di Hermann Cohen, omonimo del noto filosofo neokantiano, pianista di successo, allievo di Liszt, «gagà, playboy, viveur, giocatore ed ebreo, che si scioglie in lacrime durante la celebrazione eucaristica. Tornato a Parigi si fa battezzare col nome di Augustin nella chiesa di Nostra Signora di Sion fondata dal Ratisbonne per gli ebrei convertiti. Egli idea l’adorazione eucaristica notturna nella chiesa parigina di Nostra Signora delle Vittorie». Poi diviene sacerdote – questo significa etimologicamente il suo cognome – carmelitano. Durante l’omelia della sua prima Messa «esordisce col chiedere scusa alla città per gli scandali della sua vita dissipata. Poi dice chiaro che aveva cercato la gioia nel successo, gli svaghi, le amicizie altolocate. Ma non l’aveva trovata. Solo Cristo era stato capace di procurargliela». Dopo aver contributo alla conversione di diversi familiari, riceve a Lourdes nel 1868 la grazia della guarigione da un glaucoma che lo stava rendendo ormai cieco. Trascorre gli ultimi anni della sua vita accanto ai prigionieri francesi nella guerra franco-prussiana del 1870 e muore di vaiolo l’anno successivo.

 Cammilleri svela anche interessanti retroscena. È molto probabile che Salgari, nel narrare le imprese di Sandokan, si sia ispirato alla vita avventurosa dell’apostolo del Borneo, il vescovo missionario Carlos Cuarteroni, che finanziò personalmente una missione in quelle terre dove aveva visto tanti uomini, donne e bambini cadere nelle mani dei pirati della Malesia. Egli diventa «così esperto in trattative coi pirati, che le autorità civili e anche militari ricorrevano a lui quando loro cittadini venivano catturati».

Lo stesso ricorda ancora che il Graal esiste ed è un calice custodito nella cattedrale di Valencia, dove viene portato da san Lorenzo, diacono di papa Sisto. Usato da Gesù durante l’Ultima Cena e poi da Pietro, Lino e i primi pontefici, è stato provvidenzialmente sottratto alle profanazioni della guerra civile spagnola.

 Cammilleri rileva altresì che tra i ‘famigerati inquisitori’ figurano anche Guillaume Arnaud e i suoi dieci compagni i quali, richiamati con l’inganno dai catari per un incontro pacificatore nel castello di Tolosa il giorno dell’Ascensione, dopo aver intonato il Te Deum, vengono trucidati. A Guillaume viene mozzata la lingua.

 Tra i diversi aneddoti tra le pieghe della storia il nostro apologeta si sofferma sulla straordinaria fedeltà al papa e alla Chiesa di Matilde di Canossa e sugli accordi tra Liborio Romano, ministro dell’Interno di Francesco II e massone di grado 33, e il boss della camorra Tore ‘e Criscienzo il quale, con gli altri affiliati alla criminalità organizzata, diviene tutore dell’ordine pubblico e scorta Garibaldi nel suo ingresso a Napoli. E ancora, relativamente alla storia americana, ricorda il gesto di Washington che, giurando sulla copia della Bibbia della sua Loggia, inaugura di fatto negli States la cosiddetta ‘religione civile’ quale unico collante di un Paese multireligioso e multietnico.

Infine menziona i sacrifici di monsignor Josef Tiso e di Augustin Vološin, sacerdoti e politici, presidenti rispettivamente della Cecoslovacchia e della Rutenia (Ucraina carpatica) che cercano di custodire l’indipendenza dei loro Paesi e rimangono vittime dell’orda comunista.

Insomma in questo volume l’apologeta Cammilleri torna a raccontare curiosi aneddoti di storia e devozione, additando alle giovani generazioni, che cercano il successo nei like sui social, il modello del santo cavaliere quale uomo che dà senso alla propria vita sapendo per Chi spenderla.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Il sistema in(visibile), così le élite manipolano i popoli

«Pensavamo di essere padroni del nostro destino, mentre altri, in luoghi che nemmeno immaginavamo e che non necessariamente coincidevano con governi e parlamenti, decidevano per noi». È questa la tesi di fondo del saggio Il sistema in(visibile) (Guerini e Associati 2022, pp. 256) di Marcello Foa –docente di comunicazione all’Università Cattolica di Milano e all’Università di Lugano e già Presidente della Rai dal 2018 al 2021– nel quale l’autorevole giornalista illustra con chiarezza le logiche e le influenze socioculturali di un sistema visibile e nel contempo intenzionalmente invisibile dettato dalle agende delle lobby di potere.

Egli analizza in sostanza il ruolo delle élite, mostrando come sia possibile modellare le masse, cambiare i valori, orientare la politica, l’economia e i media avvalendosi anche delle tecniche di influenza psicologica. D’altra parte «il giornalismo subisce ormai la passione compulsiva del mondo digitale, che oltre a permettere una moltiplicazione delle fonti – ed è senz’altro un bene – ha però generato nuove metriche del successo, ovvero un’ossessione per il consenso per le pagine viste, per i “like” ricevuti, per il numero delle condivisioni: dunque per un approccio che diventa sempre più superficiale, al contempo omologato e omologante, privilegiando una lettura istituzionale della realtà», osserva acutamente Foa.

E in effetti, quando dopo il crollo dell’Urss comunista, gli Stati Uniti diventano di fatto l’unica superpotenza mondiale, si fa avanti l’idea di globalizzazione anche se «in teoria una governance democratica avrebbe dovuto reggersi su un Parlamento del mondo. Washington, allora, ha optato per un sistema di delega alle organizzazioni sovranazionali. Queste, tuttavia, non si basano sulla sovranità popolare e ciò pone un problema al contempo delicato e complesso, che poteva essere risolto solo in due modi: promuovendo una collaborazione internazionale volta a stabilire regole comuni minime, mirate e condivise nel rispetto delle prerogative degli Stati (ed è la multilateralità propriamente intesa), oppure favorendo un’internazionalizzazione spinta, coercitiva, tale da creare progressivamente condizionamenti ineludibili per i singoli Paesi (ed è il nuovo concetto di multilateralismo)».

L’ha spuntata purtroppo la seconda opzione, incentivando la tensione tra gli Stati attraverso la guerra finanziaria (speculazioni per gettare sul lastrico le economie di interi Paesi) ed economica, culturale e tecnologica per il dominio globale. Il mantra “lo chiede l’Europa”, anche e soprattutto in relazione al bilancio di uno Stato, conferma infatti quanto i governi nazionali debbano sottostare a logiche sovranazionali decise a Bruxelles o oltreoceano. Tali logiche sono fortemente orientate se non imposte, tra i vari enti, dalla Banca Mondiale, dal Fondo Monetario Internazionale, dall’Ocse, dalla Nato, dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, da Onu, Unicef, Unhcr, Fao, tutte (o quasi) a trazione statunitense.

Il processo è quasi sempre il medesimo: «in conses­si internazionali, quale per esempio il World Economic Forum, le élite pubbliche e private riflettono sui destini del mondo, ma al contempo individuano le possibili soluzioni. Poi passano all’azione. Preparano l’opinione pubblica con un’adeguata campagna di comunicazione (solitamente am­mantata di buone intenzioni, di cause nobili e di altruismo, ovvero facendo passare il messaggio che si agisce per il bene dell’umanità o per porre rimedio a un’incombente trage­dia). Successivamente, si attiva la governance internaziona­le, secondo Davis “tipicamente attraverso un distributore di politiche che funge da intermediario, come il Fmi o l’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) che ha il potere di indurre i governi nazionali a uniformarsi alle decisioni prese”. Quindi sulla scena appaiono i partner privati, top manager e grandi aziende dichiarano la volontà di contri­buire al successo di questa buona e onorevole causa (che in realtà essi stessi hanno contribuito a ideare) e offrono la loro collaborazione ottenendone – ovviamente – anche un ritorno economico, oltre che strategico e di sistema. I me­dia, stante l’importanza delle fonti, rilanciano questi temi, creando consapevolezza nelle masse. In sintesi: le organiz­zazioni internazionali, i governi nazionali, i grandi gruppi economici, l’opinione pubblica convergono nella stessa di­rezione. E le decisioni ricadono sui popoli, che restano in­consapevoli del processo».

Non è forse questo quanto accaduto, in relazione alla recente pandemia, ossia che quanto stabilito dall’Oms, «forma di partenariato pubblica-privata» (finanziata tra gli altri anche da Bill Gates per il 15%, con la stessa percentuale degli Stati Uniti!), è stato poi pedissequamente assecondato dai diversi Paesi? Per non parlare dello strapotere degli oligopoli in ogni ambito, nell’abbigliamento sportivo con Nike e Adidas; nei sistemi operativi con iOs e Android; nella finanza con Black Rock, Vanguard e State Street, che gestiscono l’equivalente dei 2/3 del PIL americano; nell’e-commerce con Amazon; nei social con Meta di Zuckemberg che detiene Facebook, WhatsApp e Instagram, e YouTube che è un marchio Google che ha invece il monopolio quasi incontrastato come motore di ricerca. In sostanza «il mercato è libero e per i giganti più libero di altri». Basti pensare che solo Apple e Microsoft hanno una capitalizzazione in borsa pari al PIL di almeno il 92% dei Paesi del mondo.

Il rovescio della medaglia di tale capitalismo finanziario altamente speculativo, di cui è un effetto la recente crisi del 2008, è la crescita dell’indebitamento pubblico e privato, nel silenzio complice dei media rispetto all’opinione pubblica; «la stampa infatti non anticipa, non contribuisce a prevenire, semmai asseconda. E amplifica, quando è troppo tardi».

Foa approfondisce il meccanismo della propaganda, alla luce della psicologia delle masse, per la quale si agisce su sentimenti e idee, sollecitandone emozioni, bisogni e volontà, tanto nella dimensione pubblica quanto in quella privata. Una volta erano televisione, musica e Hollywood a contribuire a rendere popolare e desiderabile lo stile di vita americano; «nell’era digitale, gli influencer sui social media, rendendo partecipi i follower della propria vita privata, stabiliscono un rapporto ancora più intimo: ognuno di essi si sente parte di quella famiglia, soprattutto su Instagram, che diviene un Truman Show all’ennesima potenza».

Riguardo ai temi portanti sposati dalle lobby, quali il matrimonio omosessuale o la maternità surrogata, la strategia dello sdoganamento prevede che ciò che è inconcepibile sia prima vietato con delle eccezioni; poi gradualmente diventi sensato, socialmente accettabile e persino legalizzato, fino a divenire addirittura un valore condiviso.

Relativamente al ruolo dei media, si punta a costruire una cornice emotiva nella quale viene poi a svilupparsi tutta la narrazione di un determinato fenomeno, all’insegna del «prima pubblico, poi semmai rettifico», basta che «il titolo o l’articolo, meglio se ottimizzato SEO, conquisti la fiducia dell’algoritmo», tanto il lettore si accontenta di infotainment, «un’informazione di intrattenimento» sulla quale è sollecitato a dire la sua senza particolari riflessioni. Di qui, come si è visto, dalla ‘mucca pazza’ al Covid, si fa leva in particolar modo sulla «paura della malattia mortale quale forma di condizionamento assoluta che può essere strumentalizzata per ragioni politiche, economiche, di controllo sociale o per far avanzare agende».

Così per i social, che ci conoscono più di noi stessi, siamo non tanto il prodotto, quanto la materia prima da cui il nuovo capitalismo digitale estrae ogni dato di cui necessita per foraggiarsi. La manipolazione ad personam diviene dunque, col supporto delle neuroscienze e dell’intelligenza artificiale, l’ultima frontiera di una ‘guerra cognitiva’ in grado di influenzare capillarmente ciascuno perché ne conosce interessi, gusti e preferenze meglio di se stesso. Si tratta allora di inventare nuovi spazi di libertà e pluralismo capaci di aggirare la censura dei motori di ricerca e la cancel culture, preservando la dimensione democratica da tale omologazione conformante delle élite.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

“Il fumo nel Tempio”, il realismo profetico di Eugenio Corti

«Questo libro è la risposta di un uomo di fede non rassegnato a prendere semplicemente atto delle difficoltà ecclesiali e sociali, ma deciso invece a impegnarsi fino in fondo nella buona battaglia per dare a Dio il posto che gli compete in seno all’umanità». Così il compianto Cesare Cavalleri presenta Il fumo nel Tempio (pp. 296) di Eugenio Corti, pubblicato in nuova edizione dalle edizioni Ares che meritoriamente ha curato l’Opera Omnia dello scrittore brianzolo.

Si tratta di una raccolta di puntuali interventi di analisi di fatti avvenuti principalmente negli anni compresi tra il 1970 e il 2000; è il controcanto di un uomo libero che dà voce al disagio di tanti cattolici che, sulla scia di san Paolo VI, vedono il ‘fumo di Satana’ entrare nel tempio di Dio.

«Non ci si fida più della Chiesa; ci si fida del primo profeta profano che viene a parlarci da qualche giornale o da qualche moto sociale per rincorrerlo e chiedere a lui se ha la formula della vera vita», prosegue Cavalleri nella prefazione al volume. Di qui «la persuasione dello scrittore che all’origine dei gravi problemi che si trova ad affrontare la Chiesa ci sia l’intrecciarsi di due fenomeni: l’offuscamento della linea verticale che lega l’uomo a Dio e l’abbandono di quella linea orizzontale che definisce la vita cristiana nei suoi esiti sociali, vale a dire la cultura».

Nel commentare una citazione del filosofo Maritain, Corti riflette sulla dimensione politica in senso lato della Chiesa: «La Chiesa (anche se istintivamente ci ripugna mescolare a una realtà per tanti aspetti soprannaturale, categorie come destra e sinistra) in quanto riceve la propria autorità dal­l’alto non potrà mai essere considerata una organizzazione di sinistra, ma se mai il suo contrario. Ci spieghiamo allora meglio perché una politica ‘di sinistra’ (non ci si fraintenda: ripetiamo che disturba anche noi usare per la Chiesa questo frasario pro­fano) – com’è quella appunto preconizzata con tanta autorità dallo stesso Maritain – abbia potuto portare a uno stato di se­miparalisi, e alla scelta di tanti uomini sbagliati soprattutto per i posti chiave della cultura, dei mass media, eccetera. Unico conforto per noi è sapere che la Chiesa non potrà comunque ar­rivare allo sfacelo, in quanto il Salvatore sarà sempre con lei».

Corti critica dunque aspramente anche quel «gruppo dei cattolici ‘illuminati’, i quali si atteggiano a maestri dei vescovi e del Papa, e anzi, al­l’occasione, addirittura a ‘correttori’ delle sacre scritture», così simili ai ‘cattolici adulti’ contemporanei che assumono posizioni sui temi etici in netto contrasto con il magistero della Chiesa. Di qui, sul piano politico, lo scrittore brianzolo osserva con amarezza che «i politici cri­stiani parlano ormai quasi soltanto il linguaggio degli altri», per cui quanto valeva un tempo per la Democrazia Cristiana vale ancora oggi per tanti politici che relegano la propria fede alla sola sfera privata, impedendone le ricadute in ambito sociale.

Rispetto alla strumentalizzazione mediatica del Concilio Vaticano II, Corti osserva con preoccupazione, «come al­lora tutti senza eccezione applaudissero la Chiesa: tutti gareg­giavano nell’osannarla, non si sentiva più un solo crucifige. Anche chi fino a poco tempo prima aveva insultato e calun­niato, si convertì all’applauso».

 Attento e profondo conoscitore dell’ideologia comunista, di cui ha sperimentato la follia anche sulla propria pelle, si chiede provocatoriamente, alla luce dei milioni di vittime da essa mietute: «Si vorrebbe portare i cristiani a collaborare con questa gente, con questi ‘movimenti storici’?».

 Nel decostruire il comunismo Corti sottolinea l’impossibilità di prescindere dal capitalismo, dal momento che lo stesso Lenin in Cinque anni di rivoluzione russa ammetteva: «“Il capita­lismo di Stato non è un elemento socialista… Ma se noi non ci fossimo dimostrati in grado di eseguire questa ritirata (sul capi­talismo di Stato) saremmo stati minacciati dalla rovina”». Certo con tale regime il sistema capitalista da privato diventa ‘di Stato’, ma continua comunque a esistere. Insomma, di contro a un «liberismo a oltranza», si tratta di recuperare un po’ di sano «realismo cristiano, e non in base a uto­pie, tanto meno laiciste».

 D’altra parte, «Marx può ben essere stato mosso da un grande impulso di generosità umanitaria, e così Lenin, che ha tentato di attuare l’utopia di Marx nella dolentis­sima realtà russa, e così dopo di loro i rivoluzionari cinesi: ma da quella generosità di partenza sono derivati solo morti, e do­lori, e miseria. Che una simile distruzione dell’uomo – letteral­mente mai vista prima nella storia – possa non essere tenuta in alcun conto dai visionari di matrice laicista, tuttora abbagliati dal gigantesco tentativo di Marx di avviare una redenzione non cristiana dell’umanità, lo si può anche capire, se pure a fatica. Ma com’è possibile che degli studiosi, tanto più cristiani, non se ne rendano conto?», si domanda lo scrittore brianzolo riflettendo sulle ricadute di tale sistema ideologico. A tal proposito egli osserva acutamente che «nel mondo intero il comunismo ha fatto più presa, al di là dei paesi in cui s’è imposto con la violenza, in quelli cristiani, e più propriamente cat­tolici: in Italia, Francia, Spagna, America latina. Nei paesi pro­testanti invece, dove la gente non va quasi più in chiesa e crede sempre meno nella trascendenza, la presa è molto minore. Que­sto perché nei cattolici c’è l’attesa della redenzione, ed è rima­sta anche in quelli che credono sempre meno. Il comunismo si presenta appunto come una redenzione portata dall’uomo all’uomo: soprattutto come tale è sentito a livello po­polare». Eppure le «idee non cristiane, sono sfociate in aberrazioni tra­giche, tra cui enormi stermini, perfino superiori a quelli del tempo pagano (anzitutto in Vandea, poi nel corso delle guerre nazionalistiche, poi nelle lotte razziali, e più ancora in quelle di classe)».

Quale testimone autorevole delle ricadute tragiche del comunismo Corti addita proprio Giovanni Paolo II, «un pastore con la forma mentis del pastore e non dell’intellettuale (pur con tutto il ri­spetto che a questa è dovuto), che ha inoltre sperimentato di persona la realtà sommamente tragica di quel comunismo che tanti intellettuali cattolici, da Maritain in poi, si illudevano d’in­quadrare nella ‘nuova cristianità’».

Nel commentare invece la strumentalizzazione del ‘caso Seveso’ da parte degli abortisti, egli afferma, dati alla mano, che «a distanza di oltre un anno e mezzo dalla fuga del gas tossico a Seveso, possiamo affermare in tutta obiettività che le uniche vittime umane della diossina sono stati i bambini uccisi nel grembo materno dalla campagna forsennata degli abortisti». E aggiunge un accorato appello estremamente attuale soprattutto per quei cattolici attualmente impegnati in politica: «Per il futuro bisogna che noi cattolici ci svegliamo: non dob­biamo più permettere che siano gli anticristiani a decidere della vita e della morte dei nostri figli».

Profeta del suo tempo, Corti è anche un romanziere di opere monumentali, tra le quali il capolavoro Il cavallo rosso, di cui Cornelio Fabro scrive: «È certamente anche il romanzo del trionfo cristiano del bene sul male, ma non qui in terra come ne I promessi sposi, bensì nella luce eterna di Dio, che non conosce tramonto». Eppure, rispetto alla crisi della Chiesa, auspica l’avvento di una «società cristiana nuova. Che sarà pur sempre uno sviluppo della nostra: una nuova ‘città sul monte’, non meno luminosa».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Dal conflitto alla collaborazione, l’evoluzione da ripensare

«Lamarck non aveva tutti i torti!». Ne spiegano le ragioni Carlo Bellieni e Lourdes Velázquez  nel saggio Il vero segreto dell’evoluzione (Cantagalli 2022, pp. 128), in cui gli esiti del neodarwinismo sono discussi criticamente alla luce dei risultati delle scoperte scientifiche più recenti, le quali riabilitano le ipotesi teoriche di Lamarck. Ai primi dell’Ottocento il naturalista francese, nei confronti del quale lo stesso Darwin si riconosce debitore ed erede sul piano scientifico, «avanzò la tesi secondo cui gli organismi viventi compiono spontaneamente ogni sforzo per adattarsi all’ambiente, trasformando la propria costituzione e funzionalità, che vengono trasmesse ereditariamente alla discendenza».

Tuttavia «la questione dell’ereditabilità dei caratteri acquisiti, che aveva bloccato il lamarckismo si può riformulare sia considerando in senso lato la trasmissibilità di caratteristiche entrate nell’individuo dall’ambiente, sia gli aspetti di collaborazione, convergenza, simbiosi e solidarietà che, al puro e semplice livello biologico, limitano il ruolo della semplice selezione naturale», come osservano acutamente gli autori del saggio.

 «Darwin diceva che le specie si trasformano per poter sopravvivere: arriva un terremoto, un’inondazione e solo chi sa correre rapidamente o chi sa nuotare vive». Questo è vero, ma si verificano anche dei cambiamenti non legati necessariamente a migliori possibilità di sopravvivere o di riprodursi quali, per esempio, la riduzione nel tempo dei denti molari o delle dita dei piedi dell’uomo. Certo la capacità di adattamento all’ambiente è un segnale importante di integrazione che non va trascurato, ma non evidentemente l’unico fattore sufficiente a spiegare l’evoluzione delle specie.

D’altra parte il valore assunto dalle recenti scoperte legate all’epigenetica, ossia alla «capacità dell’ambiente di determinare un silenziamento o un’attivazione di uno o più geni», e al concetto di eredità genetica transgenerazionale implicano un ripensamento della teoria dell’evoluzione. Nel 2021 è stato infatti documentato per la prima volta un trasferimento genico orizzontale (TGO) avvenuto tra una pianta e un animale: una mosca bianca ha acquisito da una pianta di cui si nutre un gene che le consente di proteggersi dalle tossine delle piante cui portava alimento. Per quanto rara, esiste infatti la possibilità di trasferimento genico anche tra cellule conviventi, e non soltanto tra cellula-madre e cellula-figlia, la quale si verifica anche nei celebri batteri farmaco-resistenti, allorquando un germe aiuta un suo simile a sopravvivere «‘regalandogli’ un pezzetto di DNA», ossia di geni della resistenza. Allo stesso modo nei rotiferi i ricercatori di Harvard hanno individuato almeno 22 geni provenienti da trasferimenti orizzontali. Le ricadute di queste scoperte sono significative, in quanto determinano che «i confini tra una specie e l’altra non sono così chiari e impermeabili. L’individuo vivente, incluso l’individuo umano, è una cosa unica e irripetibile, certo, ma allo stesso tempo un mosaico di forme di vita e geni di varia origine», rileva ancora Bellieni.

Un altro elemento degno di considerazione è offerto dall’endosimbiosi, ossia la scoperta di creature a cellula singola che avrebbero conseguito una «compatibilità duratura, per caso e interessi sovrapposti», con altre creature simili. Gli stessi «mitocondri si originarono da antiche endosimbiosi di batteri. Prova ne è il fatto che i mitocondri possiedono un DNA diverso da quello del nucleo cellulare e simile a quello dei bacteria».

Di qui deriva la constatazione che «all’alba della vita sulla terra, a quanto pare, le prime vie evolutive non furono solo dovute alla scomparsa dei meno adatti dopo mutazioni casuali del DNA, ma anche all’ingresso di DNA nelle cellule dall’esterno, sotto forma di archea o di batteri che venivano inglobati e questo inglobamento veniva reso stabile ed ereditabile. Dunque si apre lo scenario che l’evoluzione della vita non sia stata dovuta solo a competizione, ma anche a collaborazione tra le specie».

Il modello evolutivo diviene così assimilabile più a una rete che a un albero, in quanto si basa sul principio del mutualismo che comporta il «fare un’azione in vantaggio di un altro, ma per salvare se stesso», per cui «un batterio si evolve per salvare il verme dove vive». Pertanto se nella «simbiosi una delle due specie soltanto ci guadagna dalla convivenza, nel mutualismo nessuna delle due specie conviventi potrebbe sopravvivere senza l’altra». Di qui, per esempio, il pesce pagliaccio e gli anemoni si proteggono reciprocamente dai rispettivi predatori, oppure «l’ape senza fiore morirebbe di fame; così come certi fiori senza ape non potrebbero riprodursi». Allo stesso modo, se non vi fosse tale mutualismo nell’occhio umano tra retina, cornea e cristallino non vi sarebbe alcuna possibilità di visione solo con l’uno senza l’altro. Inoltre uno studio recente sulla pianta Arabidopsis thaliana (arabetta comune) ha rilevato sorprendentemente che i «geni essenziali alla sopravvivenza sono i più protetti dalle mutazioni», il che conferma ulteriormente il fatto che non tutto avviene secondo selezione naturale e in maniera casuale.

La bioeticista messicana Velázquez ripercorre le tappe più significative della storia dell’evoluzionismo, evidenziando in particolare le ricadute in ambito culturale, economico e politico del darwinismo sociale, dalle leggi razziali all’eugenismo e all’ideologia gender contemporanei, i quali in nome di pseudo ‘diritti civili’ non fanno altro che perpetrare tale logica del più forte, sconfiggibile anche sul piano biologico da forme di mutualismo, collaborazione e solidarietà tra le diverse forme di vita.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Le prove dell’esistenza di Dio nella filosofia

«Le prove dell’esistenza di Dio non intendono suscitare la fede, ma aprire uno spazio che la rende possibile». Con queste parole il compianto professor Enrico Berti – accademico dei Lincei e docente di Storia della filosofia antica all’Università di Padova – riprende con stile divulgativo nel volume Le prove dell’esistenza di Dio nella filosofia (Morcellania 2022, pp. 192) le numerose argomentazioni dei filosofi a supporto dell’esistenza di Dio. Tali dimostrazioni costituiscono il cuore della filosofia, se si considera «la totale problematicità del mondo dell’esperienza, cioè la sua insufficienza a spiegarsi interamente da sé».

Il volume raccoglie gli appunti di un ciclo di lezioni sul tema tenute dal professor Berti nel 2009 alla Facoltà di Teologia di Lugano poi revisionati dallo stesso docente. Vengono quindi prese in considerazione in special modo le dimostrazioni dell’esistenza di Dio di Aristotele, Anselmo d’Aosta, Tommaso d’Aquino, Cartesio, Leibniz, Hume, Kant, Hegel e di altri pensatori contemporanei.

Partendo dalla considerazione che ciò che si muove non è semovente ma è mosso da altro, poiché non ha in sé il principio del proprio movimento, Aristotele sostiene che deve esistere una prima causa nella catena delle cause motrici, altrimenti nessun movimento potrebbe aver mai luogo. Tale causa è il celebre primo ‘motore immobile’, che è tale in quanto perennemente in atto e non soggetto al divenire dalla potenza all’atto implicito in ogni realtà che invece si muove. Aristotele rifiuta infatti l’idea del demiurgo platonico, in quanto ritiene che la «concezione antropomorfica del divino non si addica alla sua perfezione».

L’unum argumentum di Anselmo d’Aosta definisce Dio a partire dalla negazione della sua esistenza da parte dell’insipiente il quale, nell’affermare che Dio non esiste, in realtà si autocontraddice. Infatti se Dio è ‘ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore’, necessariamente deve esistere, in quanto se esistesse solo nel pensiero e non anche nella realtà non sarebbe ‘ciò di cui non può esser pensato nulla di maggiore’. Solo dall’idea di un Assoluto pensabile in questi termini è possibile dedurne implicitamente l’esistenza; ecco perché non vale l’obiezione dell’’isola beata’ avanzata dal monaco Gaunilone. Essa non è in effetti ‘ciò di cui non può esser pensato nulla di maggiore’, definizione che vale soltanto per Dio ed è equivalente all’idea che Dio ha di sé quando pensa se stesso. Quello che però Anselmo non riesce a dimostrare è la trascendenza di Dio rispetto all’universo creato, per cui saranno necessarie le cinque vie di san Tommaso d’Aquino.

Esse ricorrono in diverse opere del Dottore Angelico, in particolare nella Summa contra Gentiles. L’Aquinate ritiene che dagli effetti da noi conoscibili si possa dimostrare che Dio esiste, pur essendo la conoscenza di Lui solo in sé evidente e non per noi. Di qui, riprendendo il discorso aristotelico sul moto, Tommaso desume che Dio sia il primo motore che origina il movimento senza esser mosso da altro. Il Creatore è anche la causa efficiente da cui deriva ogni ente; è causa dell’essere delle altre cose; è un essere necessario e «possiede tutte le perfezioni nel grado massimo». D’altra parte se l’essere è ordinato deve esistere necessariamente un ordinatore.

 Cartesio elabora tre prove dell’esistenza di Dio. La prima muove dall’evidenza che, «per poter dire di essere imperfetti, occorre avere in sé l’idea di perfezione». Allo stesso modo, poiché se l’uomo si fosse fatto da sé si sarebbe fatto perfetto, e così evidentemente non è, allora è Dio ad averlo creato. Il filosofo francese ritiene ancora, sulla scia di sant’Anselmo, che l’esistenza di Dio possa «essere ricavata analiticamente dalla definizione di essere perfetto».

 Leibniz sostiene che «la ragione ultima delle cose deve essere necessaria». Inoltre, dal momento che «tale sostanza è una ragione sufficiente di tutti quei particolari che sono connessi in ogni parte, ne segue che vi è un solo Dio e che questo Dio è sufficiente». D’altra parte una catena infinita di verità contingenti non è mai sufficiente a giustificare da sola un fatto, per cui occorre una verità necessaria come quella di ragione.

Con il filosofo tedesco Kant si chiude la possibilità di una dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio, poiché Egli eccede l’ambito dell’esperienza. L’essere pensato dal pensiero, così come lo rileva la prova anselmiana, è al contrario per l’idealista Hegel una dimostrazione efficace dell’esistenza dell’Assoluto.

Infine il volume di Berti riprende sinteticamente gli sviluppi del dibattito sul tema nel Novecento, in particolare la discussione tra filosofi neotomisti e neoidealisti, concludendo in buona sostanza con la ‘formulazione felice’ di Marino Gentile per il quale, data la contraddittorietà del mondo, che non è né il tutto né l’Assoluto, deve esistere necessariamente un Dio che lo trascende.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Da Salimbene alla Pulzella, sei storie medievali

Salimbene da Parma è un francescano vissuto nel Duecento. È un uomo con il suo temperamento e le sue idiosincrasie. Non sa a memoria solo la Bibbia, ha una biblioteca nella testa. Per lui la Bibbia è un gigantesco manuale di istruzioni per l’uso del mondo». Con queste parole Alessandro Barbero introduce in Donne, madonne, mercanti e cavalieri, recentemente ripubblicato da Laterza, la prima di sei storie paradigmatiche di un’intera epoca, quella medievale, facendone emergere – da una prospettiva di non credente – alcuni aspetti oggi misconosciuti. Salimbene da Parma, Dino Compagni e Jean de Joinville sono rispettivamente un frate, un mercante e un cavaliere; Caterina da Siena, Cristina da Pizzano e Giovanna d’Arco sono tre donne che per carattere e consapevolezza del proprio ruolo e compito hanno segnato il corso dei secoli medievali.

Figlio di un cavaliere, Salimbene viene ostacolato dal padre che non voleva assolutamente che diventasse frate, in quanto già l’altro suo figlio aveva intrapreso tale strada per cui nessuno dei due avrebbe potuto ereditare lignaggio e patrimonio. Di qui il padre scrive addirittura all’imperatore Federico II perché lo aiuti a riportare suo figlio a casa, poi si reca personalmente al convento per riprenderselo, intimandogli di non credere a questi «piscia-in tonaca che ti hanno incantato» e lo maledice. Ma quella stessa notte Dio premia Salimbene con un sogno in cui la Vergine con il Bambino in braccio «gli fan capire di aver agito bene». Salimbene giudica i ricchi dalla capacità che manifestano di saper condividere i propri beni materiali, vino compreso. Nella sua cronaca del tempo racconta tanti aneddoti legati ai suoi viaggi, prestando attenzione alle differenze culturali; in particolare si sofferma sull’incontro con Luigi IX di Francia quando, in abito di pellegrino, il sovrano ha sostato presso il suo convento, mentre era in viaggio per la crociata.

Dino Compagni è invece un mercante «di import-export di panni» nella Firenze delle lotte intestine tra guelfi e ghibellini; un uomo d’affari che ritiene la politica una «gara di uffici». Jean de Joinville è un cavaliere al seguito di Luigi IX e autore di una celebre biografia sul re santo. La giornata del sovrano, come quella di un cristiano nel Medioevo, o «di un gran signore che non deve lavorare, cominciava sempre con la Messa. Luigi è uno che dimostra continuamente la sua santità, e la gente è sbalordita. Accade che fuori dall’accampamento dei crociati siano rimasti i cadaveri dei morti dell’ultima battaglia. Si sono dimenticati di seppellirli. Un bel pomeriggio il re esce dalla tenda, si rimbocca le maniche e va a seppellirli». Questa è soltanto una delle tante opere di carità legate alla fama di santità che lo contraddistinse già in vita. La sua umiltà è tale che un Giovedì Santo si china personalmente a lavare i piedi ai poveri che incontra.

«Pochissime, invece, le donne che nel Medioevo hanno scritto di sé, o parlato di sé con altri che trascrivevano le loro parole». Santa Caterina è una di queste, «una donna autorevole che sapeva farsi ascoltare» da re, cardinali e pontefici. In un’epoca considerata pregiudizievolmente maschilista, «Caterina è una delle persone più ascoltate» e il suo ruolo politico è decisivo per il ritorno del papato a Roma dopo lo scandaloso periodo di cattività avignonese. Ella scrive parole di fuoco contro la corruzione dei prelati che pensano solo ai propri interessi, «assimilandoli a una donna che partorisce i figliuoli morti». La santa si offre in prima persona come vittima d’espiazione per i peccati non solo dei suoi familiari. In un’esperienza mistica, emblematica della sua missione, mentre i demoni la percuotono, «il suo cuore strappato dal corpo sale in cielo e Dio prende il suo cuore e lo stampa sulla Chiesa perché tutta la Chiesa senta la sua voce attraverso il cuore di Caterina». Santa Caterina, per dirla ancora con lo storico torinese, è insomma «una donna che si muove a 360 gradi nel mondo del potere, invasata dell’amore di Dio, e che sa quando è il caso di intervenire anche in cose molto concrete».

 «Cristina da Pizzano è la prima donna che ha concepito se stessa come scrittrice di professione, che si è guadagnata da vivere ed è diventata famosa scrivendo libri». Figlia del medico e astrologo personale di Carlo V il Saggio si trasferisce alla corte francese. Assolda copisti e miniaturisti; nelle illustrazioni si fa ritrarre coi suoi manoscritti. Scrive di politica, che le tasse bisogna pagarle, e intervista i cavalieri, redigendo un manuale sull’arte militare. Scrive anche La città delle donne, un romanzo sul ruolo delle donne «nella storia e per la vita dell’umanità», in cui decostruisce tanti luoghi comuni, mostrando come all’origine di tante invenzioni ci sia proprio la donna come, per esempio, il mito di Aracne dietro l’invenzione della filatura. Nel 1429, nel silenzio dell’abbazia dove si è rifugiata ad aspettare in preghiera la morte mentre i Borgognoni prendono Parigi, scrive Il poema di Giovanna d’Arco in cui celebra la grandezza di una donna alla testa di un esercito per liberare la Francia dagli Inglesi.

 La Pulzella d’Orleans è la più celebre donna del Quattrocento. Di lei abbiamo i testi di entrambi i processi, il primo imbastito dagli Inglesi per condannarla a tutti i costi; il secondo autorizzato da papa Callisto III, per nullificare il primo, ascoltare i testimoni e ‘santificarla’. Jeanne Romée, più che d’Arc, in quanto nel suo villaggio le donne prendono il cognome della madre, è la figlia analfabeta di un contadino ricco; «va sempre a messa, non solo la domenica, e si confessa il più possibile». Giovanna scappa di casa per comunicare al re che Dio le ha detto di voler salvare il regno di Francia ponendola a capo dell’esercito. Alla commissione che non le crede, anzi le obietta che non si è mai sentito di una donna in armi, Giovanna replica che «il Signore ha un libro che nessun chierico ha mai letto, per quanto sia istruito». La Pulzella combatte in prima linea, viene ferita quattro volte e in tre mesi contribuisce in maniera decisiva alla vittoria nella Guerra dei Cent’Anni.

 Caduta infine nelle mani degli Inglesi, viene processata come eretica anche per aver osato vestirsi da uomo. Barbero si sofferma sul dibattimento processuale dell’Inquisizione o meglio, presunta tale, evidenziandone le numerose irregolarità e incongruenze: si trattava infatti di un processo nullo, perché tutto era sotto il controllo degli Inglesi, che tra l’altro negarono a Giovanna l’appello al Papa e la tennero prigioniera in un castello da loro controllato, impedendo che fosse custodita in carceri ecclesiastiche, come sarebbe avvenuto in un processo regolare. Barbero rileva come la santa sia stata irreprensibile in ogni sua risposta, sebbene i giudici abbiano cercato in tutti i modi di coglierla in fallo. Nel processo-farsa a santa Giovanna d’Arco, in effetti, il rogo si giustifica quale pena per una relapsa (“ricaduta” nella colpa) che ha osato indossare ancora abiti maschili (per proteggere meglio la sua verginità, come spiegò la santa), testimoniando fino al martirio l’origine divina della sua missione.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

 

Ansia bye bye con l’aiuto di San Tommaso d’Aquino

«La persona che combatte contro l’ansia teme di perdere i beni di questo mondo e il loro go­dimento. È la paura di perdere il benessere, la salute, la sicurezza, le relazioni, la reputazione; oppure può aver timore di perdere l’amore di Dio, di scontentarlo e di incappare nei suoi terribili castighi».

È quanto scrive lo psicologo e psicoterapeuta Roberto Marchesini nel saggio Mio Dio, che ansia! (2022, pp. 112) appena uscito per l’edizione de Il Timone. Si tratta di un volume nel quale l’autore propone, nel solco della riflessione di san Tommaso d’Aquino, una serie di preziose indicazioni per far fronte proficuamente ad ansia, paura di non farcela, palpitazioni e attacchi di panico, sempre più diffusi anche tra i più giovani, soprattutto per i postumi del clima di tensione e restrizioni generato dalla pandemia.

Marchesini riprende «il realismo di san Tommaso d’Aquino come base di diagnosi e di cura psicologica», ma anche le acute considerazioni di Rudolf Allers – unico allievo cattolico di Freud, secondo il quale dietro la nevrosi c’è un problema metafisico non risolto per cui «il nevrotico è colui che non accetta la realtà e le rimprovera di non essere come lui la vorrebbe» – e di Viktor Frankl, e soprattutto attinge a piene mani alla fonte della Parola.

Se la ragione è l’auriga che conduce la biga alata nel mito platonico, il problema non sono evidentemente le passioni in sé, fondamentali per spingerla a perseguire il bene, bensì «dal punto di vista clinico i problemi cominciano quando la paura vince sulla ragione e prende il controllo della nostra vita». L’ansia è infatti una paura generalizzata dinanzi a ogni situazione che solitamente viene gestita attraverso l’attivazione di alcune modalità che rassicurano, quali la comfort zone, l’impiego di rituali e di meccanismi di controllo.

Relativamente alle dipendenze, Marchesini osserva che in esse in realtà «la persona si accontenta di un piacere perché pensa di non poter avere un bene vero». Inoltre «le dipendenze non dipendono dalla ra­gione; sono, infatti, l’effetto di una compulsione, cioè di una spinta forte, più o meno irresistibile e incontrollabile. Per questo è inutile l’appello alla ‘forza di volontà!’: la volontà, in questi casi, è quasi impotente». Di qui, dopo aver distinto il vizio dal peccato, lo stesso psicoterapeuta precisa ancora che «gli atti eseguiti in conseguenza di una di­pendenza sono un peccato nella misura in cui sono liberi. Tanto più è forte la compulsione, tanto meno saranno liberi e, quindi, peccaminosi».

In effetti la vera libertà è il presupposto «per compiere il bene e amare gli altri». D’altra parte se, per dirla con Allers, ««al di là del nevrotico c’è solo il santo», si potrebbe quindi definire «il grado di sofferenza di una persona con la misura della divaricazione tra la sua vocazione e la vita attuale». E proprio al fine di attenuare tale discrepanza e consentire alla vita attuale di rispondere concretamente al progetto del Padre, Marchesini offre una serie di suggerimenti pratici preziosi da tener presente: «Cerchiamo un ambiente buono, evitiamo gli ambienti cattivi. Circondiamoci di persone buone, sagge e intelligenti, che ci facciano crescere; facciamo in modo che la nostra casa sia un ambiente dove si stia volentieri e non dal quale si voglia fuggire appena possibile; ascoltia­mo buona musica, coltiviamo buone letture e selezioniamo buone relazioni; godiamoci questo mondo meraviglioso vivendo il più possibile all’aria aperta; facciamo questa, benedetta, “moderata attività fisica”; dedichiamo tempo ai nostri interessi e alla spiritualità. Rinunciamo alla fre­nesia, al lavoro eccessivo; non inseguiamo la reputazione, il prestigio, la carriera, i soldi. Ricordiamo che la nostra vocazione non sono le circostanze: siamo noi. Il nostro obiettivo quotidiano è diventare migliore di quanto fossi­mo ieri».

In sostanza «preoccupiamoci di arrivare al termine della nostra giornata avendo fatto un po’ di bene ed evitato un po’ di male. È sufficiente e alla nostra portata». Di qui l’invito dello psicoterapeuta a coltivare le virtù più che discutere di ‘valori’, anche perché la posta in gioco è la promessa di una felicità piena, ossia «la santità, che non consiste solo nell’avere una vita spirituale intensa, ma nello sviluppo in­tegrale della mia persona».

Eppure, per dirla infine con le parole profetiche della lucida e acuta analisi del cardinale Danneels pubblicata in appendice al saggio di Marchesini, «in Occidente la crescita incontrollata dell’io si è trasformata in cancro. Il senso di Dio è entrato in crisi e proprio per questo l’uomo ha perso la sua identità e la sua gioia. Perché ogni attacco a Dio ferisce l’uomo nella sua stessa natura. Lo rende triste», e nel contempo «la scomparsa della dimensione verticale porta a un’esaltazione dei rapporti orizzontali». Si tratta perciò, citando ancora il porporato, di «riscoprire Dio come Padre ed entrare con Cristo in que­sta esperienza filiale, questa è la fede cristiana ed è profon­damente terapeutica per la nostra civiltà».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

San Bernardo e la nascita dei monaci cavalieri

Nel suo libro Lode della nuova cavalleria (Liber ad milites Templi. De laude novae militiae) Bernardo di Chiaravalle approfondisce le ragioni teologiche del neonato Ordine templare. Scritto tra il 1128 e il 1136 al fine di chiarificare le finalità della nuova cavalleria monastica e di celebrarne la missione, il testo si colloca tra due date particolarmente significative. Nel 1128 infatti l’abate di Chiaravalle partecipa al Concilio di Troyes dove probabilmente per la prima volta viene a contatto coi Templari e contribuisce alla stesura della loro Regula, mentre nel 1136 muore Ugo di Payns, il fondatore dell’Ordine, al quale l’opera è indirizzata.

Nel contesto sociale del XII secolo, in cui violenza e uso delle armi sono all’ordine del giorno al punto che gli stessi tornei ludici si trasformano spesso in scontri cruenti se non addirittura mortali per chi viene sconfitto, Bernardo intravede nella cavalleria monastica la possibilità di realizzare un progetto di cristianizzazione degli ideali militari. L’abate di Chiaravalle incoraggia l’innesto della componente monastica nella tradizione cavalleresca per offrire al cavaliere un più alto ideale cui aspirare senza dover rinunciare al suo ordo: combattere il male in nome di Cristo. Bernardo pone dunque la sua eloquenza al servizio dell’Ordine Templare, affinché si potesse consentire ai milites feudali di canalizzare l’ordinaria violenza nell’esercizio della forza verso un nemico che, prima di essere di carne e ossa, è un nemico ‘metafisico’ che necessita di essere sconfitto soprattutto con le armi della fede in una battaglia spirituale.

Se in specie durante l’epoca medievale il fine unificante di tutte le attività dell’uomo risiedeva nella salvezza eterna della propria anima, in una società rigidamente divisa in oratores, laboratores e bellatores, per questi ultimi – data la professione delle armi – sembrava piuttosto arduo conseguire la propria santificazione. Insomma era necessario che i cavalieri fossero sottratti alla brutalità delle guerre combattute per futili motivazioni e ai duelli accolti esclusivamente per dar libero sfogo alla propria vanagloria. Occorreva al contrario che essi si convertissero, combattendo al servizio di Cristo, Colui dal quale avrebbero ricevuto ogni bene sulla terra e nel cielo.

In virtù del suo magistero spirituale unanimemente riconosciuto, Bernardo non si esime dal fornire spessore teologico a una causa tanto nobile, fortificata dalla scelta dei cavalieri di abbracciare anche la regola monastica, con i relativi voti di povertà, castità e obbedienza. La grande intuizione di Ugo di Payns, impegnatosi a trasformare dall’interno l’antica tradizione cavalleresca, incontra dunque la compiacenza dell’abate di Clairvaux che, rintracciando i motivi cristologici di tale scelta, vuole fornirle solidità teologica. Ecco perché nonostante la sua palese predilezione per l’ascesi spirituale più che per la vita mondana, egli si mostra ben felice di estendere anche ai membri della cavalleria monastica l’appellativo di milites Christi, sebbene al suo tempo questo titolo spettasse esclusivamente ai monaci.

La missione dell’Ordine Templare richiede che si debba combattere non soltanto il male dentro di sé attraverso un’impegnativa vita spirituale, ma anche quello fuori di sé, rappresentato dagli infedeli, con le armi del cavaliere. Il cavaliere di Cristo deve esser dunque consapevole di collaborare, mediante la propria azione militare, all’opera di redenzione del mondo, poiché contribuisce a liberarlo da tutti i nemici della fede che ostacolano la realizzazione del Regno di Dio. Una missione sicuramente ardua e nel contempo eroica, che non è votata alla conversione forzata o peggio all’eliminazione fisica degli infedeli. I Templari erano infatti chiamati innanzitutto a difendere il cammino di tutti i pellegrini che si recavano in Terrasanta, presidiandone le strade.

Bernardo li invita ripetutamente al discernimento spirituale dei propri pensieri e delle proprie intenzioni: la loro priorità non deve essere quella di uccidere l’infedele, ma di sottrarlo dall’errore della sua falsa fede. L’uccisione dell’infedele, letta nell’ottica evangelica, sarebbe giustificabile esclusivamente come extrema ratio, ovvero per legittima difesa dinanzi a un incombente pericolo per la propria vita o in caso di attentato o minaccia concreta a quella del prossimo.

L’abate cisterciense interviene così in sincera umiltà e con profonda carità a confermare le buone ragioni del conte della Champagne, spronando tutti gli altri cavalieri mondani ad aderire al nuovo ordine, dal momento che il soldato di Cristo – che rimanga ucciso o che sia costretto a uccidere nel tentativo di difendere sino alla fine la propria vita o quella degli altri cristiani – ottiene ugualmente la salvezza. In tale ottica la morte dell’infedele è soltanto un ‘malicidio’, un’ulteriore occasione per sradicare il male dal mondo sottraendo l’errante al suo errore, in modo da favorire l’espiazione dei suoi peccati anche al fine di spianargli la strada per la vita eterna.

Bernardo propone infine una geografia teologica della Terrasanta, da Betlemme al Santo Sepolcro, attraverso una lettura allegorica e spirituale delle Scritture, invitando i monaci cavalieri a meditare sui grandi misteri della redenzione compiuti in quei luoghi santi che essi sono chiamati a custodire.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

In un libro le “provocazioni per capire il mondo”

«La profezia di Friedrich Nietzsche si sta avverando, l’insegnamento del suo vicario Zarathustra ha attecchito nella cultura occidentale. L’uomo rinnega il suo Creatore e si sostituisce a Dio in un delirio di onnipotenza che lo porterà in breve tempo a compiere azioni incontrollate e incontrollabili in tutti i settori della vita, in particolare in quello sociale, genetico, medico ed etico. La trascendenza e ogni ordine provvidenziale vengono spazzate via, si tenta di oscurare la Chiesa e il suo insegnamento, di estirpare le radici da cui sono nate la cultura europea e occidentale. Siamo agli albori di una nuova umanità ove l’uomo diventa superuomo. Ogni uomo che conosce se stesso, e quindi i suoi limiti, può comprendere la pericolosità di un’umanità che detronizza Dio e sale sul trono al suo posto».

Tratteggia così la fisionomia della società contemporanea Ettore Gotti Tedeschi, economista di rilievo e già Presidente dello IOR, nel recente volume-intervista Così non parlò Zarathustra (Cantagalli 2022, pp. 160). In dialogo con Giovanni Castellini Rinaldi, non si sottrae alle ‘domande scomode’, anzi risponde alle ‘provocazioni per capire il mondo’ del suo interlocutore mostrando una profonda capacità di analisi della realtà attuale.

 In tale prospettiva si colloca anche la sua disanima dell’attuale «emergenza pandemica e sanitaria, che ha limitato antiche libertà che mai nessuno avrebbe osato mettere in discussione; abbiamo accettato provvedimenti di ogni genere perché terrorizzati dalla paura della morte e della sofferenza, l’emotività ha preso il sopravvento sulla nostra razionalità. La pandemia sembra essere il grembo in cui si compie la gestazione di un nuovo uomo, del superuomo. Una forma di transumanesimo, in cui la scienza e la tecnica sono le nuove divinità che intercedono per migliorare la condizione umana».

In un saggio del 1935 lo storico Hazard individuava nella trasformazione della ‘società dei doveri’ nella ‘società dei diritti’ la causa del tramonto della civiltà occidentale cristiana. D’altra parte la crisi dell’Occidente altro non è che «la conseguenza della negazione del valore della vita, accompagnata dalla pretesa utopistica e nietzschiana di rifondare un nuovo mondo». E in effetti «il nichilismo nietzschiano ha causato una profonda rottura con il passato, con la tradizione, affermando il primato della realtà sulla morale tradizionale, ridimensionando la trascendenza e assolutizzando la scienza, oggi unica verità inopinabile. In questo quadro è stata riabilitata l’etica protestante che, separando le opere dalla fede, ha introdotto una diversa coscienza del peccato, meno rigorosa rispetto all’etica cattolica. In campo economico è stato demonizzato il capitalismo, considerato uno strumento di controllo della società. Insomma, la ragione umana è oggi il solo strumento che permette di delimitare il confine tra il bene e il male, di vincere l’irrazionalità e la morale religiosa».

È in fieri un Nuovo Ordine Mondiale che ha dichiarato apertamente i propri intenti ideologici: «1) omogeneizzare la diversità culturale; 2) relativizzare le religioni (soprattutto quelle dogmatiche); 3) incentivare la denatalità con ogni mezzo; 4) creare Stati globali in contrapposizione a quelli nazionali da considerare sovranisti ed egoisti; 5) orientare il mercato verso la globalizzazione senza però perderne il controllo». La strategia, ormai nota nel ‘post-pandemia’, è sempre la stessa: «quando non si sa come risolvere un problema si inventa una soluzione – richiede meno sforzo –; se poi la soluzione non è efficace si riversa la colpa del fallimento sugli altri».

Per fortuna la realtà lascia trasparire altri dati ben lontani dall’ideologia. E, in effetti, non esiste alcuna decrescita felice, «anzi se non si mettono al mondo bambini, in un lasso di tempo breve sembrerà di ottenere un vantaggio perché si risparmia e si ha una disponibilità finanziaria ed economica maggiore; ma a medio termine il ciclo di crescita flette; a lungo termine crolla». D’altra parte «se la popolazione decresce in tempi brevi e non ci sono possibilità che questo trend si inverta, il Pil diminuisce e con esso gli investimenti in tecnologia e ricerca. Le tasse aumentano per far fronte alle spese (pensioni, accoglienza migranti, sanità, ecc.) e i valori mobiliari e immobiliari crollano (considerando la liquidità sui mercati). Le banche entreranno in crisi, alcune irreversibili. Non saranno più elargiti aiuti ai Paesi poveri, innescando il fenomeno della migrazione di massa. Chissà che qualcuno pensi di porre rimedio a questa situazione, soprattutto per controllare il costo della spesa previdenziale, stabilendo leggi eutanasiche». In sostanza, «la denatalità ha causato negli ultimi 40 anni l’aumento delle tasse, la diminuzione del potere di acquisto, la necessità del lavoro femminile, che ha comportato l’aumento dell’età in cui una donna ha il primo figlio, con effetti intuibili sulla fertilità femminile». Inoltre delocalizzazione e deindustrializzazione hanno favorito ulteriormente la trasformazione dell’Occidente in un «popolo di consumatori che produce poco o nulla».

Questo scenario è il frutto delle teorie neomalthusiane e ambientaliste, foraggiate e propagandate dagli organismi internazionali, secondo cui «l’uomo non è più il fine, ma il mezzo per la tutela dell’ambiente». Negando e sovvertendo le leggi naturali, tali tesi ideologiche hanno ormai determinato una trasformazione radicale del paradigma antropologico, in quanto «se prima l’uomo era al centro del sistema e l’economia era a servizio dell’uomo, oggi, grazie a questa “attualità” del pensiero malthusiano, è centrale la terra. Il paradigma ‘Creatore-Creatura-Creato’ è stato trasformato in ‘(Creatore?)-Creato-Creatura’». In sostanza «si è pensato di diventare più ricchi facendo meno figli e tutelando l’ambiente ed invece è accaduto il contrario».

Alla luce di tali considerazioni, l’autore ritiene perciò che l’unica strada per recuperare ragione, senso morale, verità sull’uomo e la realtà, contro ogni forma di relativismo etico-culturale e dogmatismo ideologico, sia la Via maestra accolta nella fede, poiché «l’Occidente può risorgere solo se con coraggio ammetterà che la sua civiltà affonda le radici nel cristianesimo».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana