Gesù nel Getsemani, le meditazioni di San Tommaso Moro

«Salì al monte a pregare, per insegnarci che, quando pre­ghiamo, dobbiamo distaccarci dal tumulto delle cose terre­ne per volgere lo sguardo a quelle celesti. Ma il monte Oli­veto – coltivato a ulivi – ha in sé anche un suo arcano signi­ficato. Il ramo di ulivo era comunemente simbolo di pace: quella pace che Cristo sarebbe venuto a portare fra gli uo­mini, ricomponendo il lungo dissidio che li separava da Dio. E inoltre, l’olio, spremuto dall’oliva, simboleggia l’unzione dello Spirito che Cristo, ricongiunto col Padre, avrebbe mandato ai discepoli, perché li rendesse capaci di affrontare quelle cose che solo un istante prima di quell’un­zione non sarebbero stati in grado di reggere». Così scrive Thomas More Nell’orto degli Ulivi (Edizioni Ares 2023, pp. 184), rivelandosi anche quale fine esegeta nell’opera iniziata nel 1534, ossia mentre egli vive la prigionia nella Torre di Londra e attende la decapitazione per non avere dato il suo assenso al divorzio di Enrico VIII e, di conseguenza, allo scisma della Chiesa d’Inghilterra dalla Chiesa cattolica.

 Scritta nel 1534 e nota anche come Expositio Passionis Domini, l’opera è il testamento spirituale di uomo di Dio che vive il tempo della prova e dell’abbondono come un momento di più intima comunione con Cristo, con quel Gesù abbandonato persino dagli amici più fidati nel giardino del Getsemani.

 Marito affettuoso e padre di sei figli, amico gioviale, uomo di cultura e scrittore fecondo, brillante avvocato generoso verso i poveri, chiamato alla più alta carica del Regno d’Inghilterra, san Tommaso Moro muore martire per custodire l’integrità della sua fede. Sua moglie Jane, con la quale genera quattro figli, muore a soli ventitré anni, per cui egli si risposa con la vedova Alice. Erasmo da Rotterdam, che frequenta la sua casa, ne racconta l’amabilità coi familiari e la disponibilità all’accoglienza. Di qui, quando un incendio brucia gran parte dei granai di famiglia – come ricorda Carlo De Marchi nell’introduzione – scrive alla moglie: «Non perdere il buonumore e di portare tutti quei di casa in chiesa e di ringraziare Dio sia per quello che ci ha donato sia per quello che ci ha tolto, e per quello che ci ha lasciato che, se a lui piacerà, ci potrà accrescere». Uomo di profonda ironia, scherza anche sul proprio cognome, si definisce «un mezzo pagliaccio o poco più»; crede che il Cielo stesso sia un «eterno raccolto di risate». Consigliere irreprensibile, quale cattolico coerente non può prestare giuramento di fedeltà a Enrico VIII dopo il divorzio del sovrano e lo strappo dalla Chiesa di Roma, per cui ne paga in prima persona le conseguenze prima col carcere, poi con la condanna a morte. Perciò è stato proclamato a buon diritto patrono dei governanti e politici.

Molto toccanti le ultime parole che scrive alla figlia poche ore prima dell’esecuzione: «I tuoi modi nei miei confronti non mi sono mai piaciuti tanto come quando mi hai baciato l’ultima volta, per­ché mi piace quando l’amore filiale e la carità affettuosa non hanno tempo di curarsi della cortesia mondana. Addio, mia cara figlia, e prega per me, e io lo farò per te e per tutti i tuoi cari, perché ci possiamo incontrare allegramente in cielo. Gra­zie di tutto quanto hai fatto per me». Infine, come ricorda ancora De Marchi, il condan­nato non perse il buonumore neppure sul patibolo, tanto da chiedere aiuto a chi lo accompagnava per salire i gradini e “poi per scendere lasciate pure che mi arrangi da solo”, e da raccomandare al boia di avere cura, nel decapitarlo, di non ta­gliare la barba “che non era colpevole di tradimento”».

Nella sua esegesi egli si sofferma sul fatto che Gesù trascorre spesso la notte in preghiera. Di qui «se anche noi sapessimo qualche volta scuoterci dalla pigri­zia se volessimo richiamare alla mente quelle veglie di Cristo e, anche solo per qualche istante, reagissimo all’indolenza e volgessimo a Lui un pen­siero di riconoscenza e la preghiera di accrescere in noi la sua grazia; se volessimo abituarci a fare anche solo quel poco – prosegue More – so­no convinto che Dio farebbe in breve fruttificare nella nostra anima un buon raccolto spirituale».

Gesù prende con sé in particolare tre apostoli. E More ne esplicita così il motivo: «Pietro era il primo degli Apostoli per l’ardore della sua fede, Giovanni per la sua purezza, Giacomo sarebbe stato il primo a subire il martirio in nome di Cristo». Il Maestro li «aveva già temprati, corroborandoli nel tempo con una momentanea folgorazione dello splendore eterno», ossia la sua Trasfigurazione.

 L’angoscia che Gesù prova nel Getsemani deriva «da una mole immensa di sofferenza dalla quale egli si sentiva già sovrastato: il tradimento, la consegna agli spietati nemici, l’incarcerazione, le false accuse, le bestemmie, la flagellazione, le spine, i chiodi, la croce e i terribili supplizi prolungati per ore. L’angosciavano inoltre il pensiero dei discepoli atterriti, dei Giudei perduti, della morte disperata del suo stesso perfido traditore e l’indicibile strazio dell’amatissima Madre. Questa tempesta di dolori, che gli piombavano addosso tutti in una volta, inondava il suo tenerissimo cuore come un oceano in piena». E questo per insegnare all’uomo – prosegue il santo inglese illustrando anche il senso morale della Parola – che «Io, fedele alle mie promesse, non permetterò che tu sia tentato al di sopra delle tue forze, ma con la tentazione ti darò anche la capacità di resisterle». Il segreto consiste nell’imparare a pregare, «elevando incessantemente il proprio pensiero a Dio, qualsiasi cosa si stia facendo».

L’invito di Gesù alla preghiera è dunque triplice, per indicare che bisogna «pregare la Trinità, e pregarla per tre cose: il perdono per il passato, la grazia per il presente, la salvaguardia per il futuro». Nel sonno degli apostoli More intravede invece l’indolenza e la pigrizia nell’annuncio e testimonianza del Vangelo da parte di vescovi, che lasciano così colpevolmente che «i nemici di Cristo seminino i vizi e sradichino la fede». E in effetti «ogni volta che il Corpo mistico di Cri­sto, la Chiesa (e dunque il popolo cristiano), è nell’imminente pericolo di venir consegnato nelle mani degli empi, si avvicina di nuovo il momento in cui Cristo, il Figlio dell’uomo, sta per essere consegnato nelle mani dei peccatori». Relativamente a Giuda, al di là del tradimento, è «la sua pervicacia» nel male a impedirgli di lasciarsi afferrare dalla grazia per riconciliarsi con Gesù.

Con la cattura di Cristo l’opera purtroppo s’interrompe bruscamente perché al suo autore, nell’imminenza della condanna a morte, vengono tolti persino carta, penna e inchiostro.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

L’arte della buona battaglia contro i vizi

«Ogni atto ha una sorgente, sia nel bene che nel male», ma tutto parte dai pensieri. Muove da tale consapevolezza L’arte della buona battaglia (San Paolo 2023, pp. 399), l’ultimo libro di don Fabio Rosini, nel quale il sacerdote romano affronta il tema del combattimento interiore a partire dagli otto loghismói, i pensieri maligni alla radice dell’inganno umano secondo la suddivisione operata da Evagrio Pontico, monaco del deserto del IV secolo. Contrastare tali nemici della vita spirituale, con l’ausilio della grazia divina, consente infatti di spianare la strada alla vera libertà dei figli di Dio.

È una battaglia che ha come campo il cuore dell’uomo. Il nostro io è infatti popolato da tre ordini di pensieri. Oltre ai pensieri propri, legati alla propria volontà e libertà, ci sono «i pensieri angelici che gettano luce, ad esempio, sul fine, lo scopo, la meta delle cose o degli eventi», ossia quelli che vengono dallo Spirito Santo, e i «pensieri diabolici, spesso tendenti al colore emozionale o passionale, il cui carico emotivo è normalmente ordinato al possesso e a una relazione con la realtà centrata sull’ego».

Omissioni, assolutizzazioni, superficialità, contaminazioni tra bene e male e false rappresentazioni sono gli spiragli attraverso cui il maligno si fa strada, col rischio di «un up-grade pericoloso di immagine/affezione che è proiettata sulle idee – che non per caso hanno la stessa matrice etimologica della parola idoli – per cui si diventa affezionati a delle idee che divengono degli assoluti e non si sa rinunciare alle proprie impressioni». Occorre perciò anzitutto arginare questi ostacoli attraverso la preghiera, l’analisi e l’interrogazione dei propri pensieri.

Al cuore dei loghismói, «suggestioni che hanno lo scopo di turbare l’anima», vi è la filautia, quella «centratura nel proprio ego che deriva dall’orrore del vuoto. Il terrore per se stessi diventa ansiosa e disordinata celebrazione di sé, dei possessi e dei propri bisogni». Questa radice malvagia fa essere «amico di sé contro se stesso», per dirla con san Massimo il Confessore.

Il primo dei loghismói è la gola, o meglio la gastrimarghia, quella sregolatezza del ventre che non riguarda solo l’ingordigia ma la brama di sapere, assimilare e provare tutto per sentirsi appagati. Di qui accade che «non ci si nutre per vivere, ma si vive per nutrirsi e per godere delle cose», per cui la vita «diventa la ricerca prolungata di orgasmo e ricerca di compensazione in ogni atto». Tale meccanismo della gola è dunque alla base di tutte le forme di dipendenza. Ci si aliena per il piacere di un attimo, senza considerare che «il mostro strisciante dentro ogni peccato di gola è la fuga da un dolore». Questo demone si combatte col dominio di sé, attraverso il digiuno quale «orientamento a un cibo migliore» per riscoprire il gusto delle relazioni con Dio, se stessi e gli altri.

Anche la lussuria è in sostanza «la gola che agisce nella sfera della genitalità; assolutizza alcuni millimetri di epidermide e banalizza il tesoro che c’è dentro ogni persona, per cui chi ha conquistato tanti corpi, ma non ha saputo essere fedele ad un solo cuore, non sa niente del vero piacere». Per combatterla è necessario custodire la purezza del cuore.

«L’avarizia porta a vedere ogni perdita come una tragedia. Di qui l’avaro manda l’attenzione in multi-tasking; se un figlio parla intanto si controlla il telefono, se c’è una telefonata intanto bisogna fare altro, perché un avaro non può perdere tempo o occasioni, ha l’ansia della perdita e va in caduta continua di attenzione perché tutto può distrarlo». L’avarizia è «“un calcolo di accumulazione”: cioè la mente dell’avaro sta sempre lavorando per risparmiare; dovunque va si chiede come può risparmiare. Praticamente non si gode la vita. Ha questo retro-pensiero, il calcolo». Per superarla occorre praticare distacco e donazione, non tanto diventando «così generosi da dare i propri beni, ma così saggi da prendersi quelli veri. Cuore del distacco è allora la memoria della paternità di Dio».

Poi c’è «l’ira che, per sua natura, fa perdere il paradiso, perché si oppone alla misericordia, unica porta di accesso al cielo; assolutizza una percezione, è pretestuosa». Per contrastarla è necessario favorire invece la magnanimità.

Un loghismós che non è nell’elenco dei vizi capitali occidentali è la tristezza, poiché non è un atto ma un atteggiamento che «rimesta nel male e gode del dispiacere come suo piacere; gioca su ipotesi, rimpianti e proiezioni ed è culto della frustrazione che produce ulteriore frustrazione». La tristezza «da bambini si manifesta con il beccuccio fatto con le labbra che fa tenerezza, da adolescenti è l’argomento in tasca per avere sempre ragione con l’autorità, da adulti è la scusa per i propri peccati e da vecchi è amarezza». Si combatte con la gioia, che «è una scelta che costa l’abbandono di ciò che non ci fa bene anche se apparentemente ci fa godere. Allora la gioia non capita, si sceglie, si asseconda, gli si obbedisce e poi si difende».

L’accidia non è solo l’indolenza, ma «è l’incapacità di perseverare e soprattutto non fare ciò che andrebbe fatto e l’avversione a tutto ciò che costa fatica». Un vizio simile deve essere contrastato dalla pazienza, virtù che consente di riscoprire che «il mio tempo è quello che è, Dio mi dà delle occasioni, mi apre delle porte, e io non ho altra salvezza che sfruttarle».

L’invidia è ancora la vanagloria di «chi vive di like nella pretesa di superare qualcuno e questo è vapore ed inseguire il vento». Tale vizio si combatte con la modestia e la benevolenza mentre si ricerca nel silenzio interiore la vera gloria e si vive in comunione coi propri fratelli.

Infine la superbia, «avversaria di Dio, ha il suo culmine nel rifiuto dell’aiuto di Dio e nell’esaltazione dei propri sforzi. Nel delirio del superbo i suoi pensieri equivalgono alla verità». Il vizio principe di tutti gli altri si combatte con l’umiltà, che è «un rapporto sano con la propria fragilità», il quale comporta anche una disponibilità a «lasciarci correggere dalla vita che è la sapienza di Dio e a imparare a riconoscere le proprie opere buone come un dono di Dio», nella fiducia che è la sua grazia a renderci vincitori contro ogni vizio nella misura in cui ci lasciamo raggiungere e trasformare dall’amore di Cristo. D’altra parte – conclude don Fabio Rosini – «se non ho amore, a che serve vincere i pensieri maligni?».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Gli inni di Sant’Efrem sull’Incarnazione del Verbo

«L’albero della vita fa giungere la speranza ai mortali. Oggi è nato un bimbo, il suo nome è Meraviglia. È proprio una meraviglia di Dio che si sia manifestato come un infante. Una terra vergine aveva partorito Adamo, capo della terra. Una vergine oggi ha partorito l’Adamo del cielo. Benedetto il Vero venuto dal Padre di verità. Ha compiuto le parole dei veridici profeti che si adempirono nella loro verità». Medita così il mistero di Dio che si fa carne Efrem il Siro (306-373), diacono e asceta vissuto nell’antica Mesopotamia nel IV secolo e morto a Edessa dopo aver contratto la peste mentre curava gli ammalati. Arguto polemista, Efrem è un poeta teologo, appellato a buon diritto ‘cetra dello Spirito Santo’ proprio per la sua produzione innodica, che testimonia un’intensa attività di ‘catechesi’ svolta anche attraverso la recita e il canto di tali componimenti sacri durante la liturgia.

Il mistero dell’Incarnazione del Verbo, insieme al mistero della Passione, morte e risurrezione del Signore è il cuore della fede cristiana, e perciò al centro della teologia poetica di Efrem il Siro condensata negli Inni sulla Natività e sull’Epifania (Paoline, pp. 560) pubblicati con un’accurata introduzione e traduzione a cura di Ignazio De Francesco. Nello specifico, si tratta di una raccolta di ventotto inni sulla Natività, di cui sedici di sicura autenticità e tredici sull’Epifania.

La creazione tutta beneficia degli effetti salvifici della redenzione operata da Cristo: «Limpida fu la notte nella quale si levò il Limpido venuto a renderci limpidi». Di qui l’invito per i fedeli a custodire la purezza e la pace del cuore, e soprattutto a operare con fervente carità: «In questo giorno, nel quale si è fatto povero per noi il Ricco, anche il ricco renda partecipe il povero della sua tavola. In questo giorno è venuto fuori per noi il dono, anche se non l’avevamo domandato. Noi allora diamo elemosine a coloro che ce le domandano a piena voce». Perciò Efrem esorta a riconciliarsi con i propri fratelli, deponendo ogni inimicizia: «Questo è il giorno che ha aperto per noi la porta dell’alto alle nostre preghiere. Anche noi apriamo le porte a quelli che chiedono, che hanno sbagliato e poi hanno supplicato».

Tra le grazie che il Dio Bambino viene a donare agli uomini, il poeta teologo ricorda che «poiché è re ha dato a tutti la regalità; poiché è sacerdote ha dato a tutti il perdono; poiché è l’agnello distribuisce a tutti il cibo». D’altra parte la nascita e la morte di Cristo sono i due poli in cui trova senso e compimento l’intera storia della salvezza. A tal proposito Efrem scrive: «Tra la sua nascita e la morte ha messo il mondo in mezzo: mediante la nascita e la morte lo ha salvato». Pertanto «Tu ti sei rivestito del nostro corpo visibile, noi ci siamo rivestiti della tua potenza invisibile».

Il mistero del Verbo che si fa carne è così contemplato dal teologo di Nisibe: «Oggi si è impressa la divinità nell’umanità, affinché anche l’umanità fosse intagliata nel sigillo della divinità. Gloria alla tua venuta che ha riportato alla vita gli uomini. Gloria al Bello che ci ha modellati a sua somiglianza. Gloria al Limpido che non ha guardato alle nostre macchie. Dalla terra assetata è sgorgata la fonte che basta a saziare la sete dei popoli. Dal grembo vergine, come da una roccia, è germogliato il seme dal quale sono venuti i raccolti. La sola vera Spiga diede pane, pane celeste illimitato. Quell’unico pane che spezzò ha vinto la creazione: quanto più viene diviso si moltiplica! Era l’Altissimo e succhiava il latte di Maria, mentre tutte le creature succhiano le sue benedizioni. Aveva dato a Maria il latte come Dio; per converso ne succhiò da lei come uomo. Ha gattonato tra i bambini, il figlio del Signore dell’universo. Le sue fasce hanno dato un vestito di gloria agli uomini. Gioisca Adamo poiché Tu sei la chiave del paradiso».

Il poeta teologo siriaco illumina anche il legame tra la Vergine Maria e il Figlio: «Meraviglia di tua madre! Egli è entrato in lei Signore ed è divenuto servo. È entrato pastore dell’universo ed è diventato in lei agnello, uscendo belando. L’utero di tua madre ha invertito gli ordini delle cose. È entrato colui che nutre l’universo e ha assunto la fame. È entrato colui che abbevera tutti e ha assunto la sete. Nudo e spoglio è uscito da lì colui che veste tutti». In questo modo «la verità discese nell’utero, uscì e fece rotolare via l’errore». Di qui il responsorio invita a ripetere: «Benedetto colui che si è fatto piccolo senza misura per farci diventare grandi senza misura».

«Rendo grazie alla tua prima nascita (nel seno del Padre, ndr), invisibile e occulta a ogni creatura. E rendo grazie alla tua seconda nascita (nella carne dal grembo di Maria, ndr), visibile e più giovane di tutte le creature fatte dalle tue mani», canta Efrem evidenziando i motivi per glorificare il Padre per la vita del Figlio.

Relativamente al mistero dell’epifania del Signore alle genti, Efrem il Siro sottolinea ancora che di fatto «i Magi gli offrirono da ciò che è suo: la mirra e gli aromi che lui aveva portato ad esistenza e creato». Questa prima epifania è, sul piano liturgico, strettamente congiunta alla manifestazione divina nel Battesimo di Cristo, assimilato a «un pozzo di vita che il Figlio di Dio ha aperto con la propria vita e che ha generato flutti dal suo fianco. Venite, voi tutti assetati, venite e deliziatevi! Benedetto l’onniclemente!». Per tale mistero «l’anima ritrova la sua bellezza originaria», dal momento che «la croce, sole luminoso, ha fatto dimorare la propria luce nelle acque e ha chiamato i popoli-tenebre. Essi scesero, si rivestirono, si ornarono di essa e risplendettero dell’epifania della sua luce».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Dalla Bibbia ai miracoli, le risposte di padre Maurizio Botta

«“Un giorno la scienza spiegherà tutto”. qwQuest’affermazione apodittica è in effetti un atto di fede irrazionale che pretende di sostituire la fede nei miracoli». Lo osserva acutamente padre Maurizio Botta – brillante sacerdote oratoriano della Parrocchia di Santa Maria in Vallicella a Roma – nel primo dei sei ‘Passi al Mistero’ raccolti nel recente volume Le domande piccole dei grandi (Edizioni Studio Domenicano 2022, pp. 208). Nel libro trovano risposta alcune «domande che partono da pregiudizi e luoghi comuni tanto diffusi nella mentalità comune, comodi e facili da abbracciare per sfuggire alle domande vere, ma dietro i quali spesso si cela la nostra pigrizia, superbia e incredulità o la presunzione di essere ‘grandi’», come rileva nella prefazione padre Roberto Maria Viglino.

«Perché dovrei interessarmi a qualche cosa che sicuramente prima o poi verrà spiegato da qualcuno? Che sicuramente poi la scienza arriverà a spiegare? Questo è il dogma dello scientismo. È irrazionale perché parte dal presupposto che la natura sia il tutto e che quindi solo all’interno della natura si debba cercare la spiegazione», argomenta padre Botta. E in effetti la natura da sola non riesce a spiegare se stessa, per cui «per spiegare la natura occorre necessariamente andare al di là della natura». Ciò vale anche per il nostro essere limitato; vorremmo spostarci da un posto all’altro, aver la larghezza che vogliamo, non morire, ma è evidente che non possiamo. Dunque le leggi cui è soggetta natura implicano un legislatore esterno a essa. In proposito Einstein scrive: «“Voglio capire come Dio ha creato il mondo. Non mi interessa questo o quel fenomeno in particolare. Voglio penetrare a fondo il suo pensiero. Il resto sono solo minuzie. L’esperienza più bella che possiamo provare è il senso del mistero”».

Un miracolo manifesta allora che «chi dall’esterno ha fissato una regola interna alla realtà, ha anche il potere, eccezionalmente, di andare oltre questa legge interna». Pertanto, paradossalmente, «il vero libero pensatore è il credente, non il credulone. L’ideologo non può arrendersi alla realtà, mentre io, da credente, posso arrendermi tranquillamente al fatto che alcuni miracoli non siano veri miracoli. Che me frega! Se mi dimostri che un miracolo non è un vero miracolo, non c’è nessun problema. Io sono aperto a questa possibilità, mentre l’ideologo deve dimostrare necessariamente che tutti i miracoli sono falsi, oppure, quando non ce la fa, deve rifugiarsi in quella frase irrazionale con cui si dice che un giorno qualcosa che è dentro la natura spiegherà quello che è fuori dalla natura. Il che è irragionevole». Insomma, attraverso i miracoli, il Creatore «ci vuole dimostrare amore. È uno dei modi di dimostrare amore. A Dio interessa anche il corpo. Non è un assoluto, ma è importante. Mi interessa anche il tuo corpo. Un interesse di Dio per l’uomo tutto intero».

«Un fan entusiasta della mia vocazione», così si autodefinisce padre Maurizio Botta introducendo il passo relativo al valore del sacerdozio. Egli sostiene che «la vocazione è comprensibile se dietro c’è una cosa incomprensibile: una bruciante passione per Gesù, per le sue parole, per il Vangelo, se uno è affamato della parola del suo Vangelo, se uno è arso dalla passione della preghiera». D’altra parte, «i nostri contemporanei, quando incontrano noi, vogliono vedere quello che non vedono da nessun’altra parte, cioè la gioia e la speranza che nascono dal fatto di stare con il Signore risorto». ‘Stare con il Signore’ equivale a porre la liturgia al primo posto. Su questo il poverello di Assisi San Francesco puntualizza che calici e paramenti sacri debbano essere preziosi. Di qui «l’amore verso gli altri viene dopo il rapporto personale con Cristo», perché «per amare da Dio, ci vuole la grazia da Dio».

«Gesù vede il peccato peggio di una paralisi fisica». Bisogna partire da tale considerazione del Maestro per comprendere invece il senso della confessione. Fermo restando che «chi si autogiustifica diventa norma a se stesso» e non riconosce dunque il proprio peccato, dinanzi all’obiezione consueta rappresentata dalla pretesa di confessarsi direttamente con Dio, il sacerdote oratoriano replica che in questo modo «non hai mai la certezza dentro di te di essere perdonato. Invece, quando segui il metodo che ha scelto Gesù, sei dentro l’oggettività di Gesù che ti dice: “Io ti assolvo”, cioè io ti sciolgo, io ti libero, ti libero da qualcosa che non ti puoi togliere da solo».

In questa prospettiva, il santo è colui che vive secondo la grazia ricevuta e «l’unione con Cristo, profonda, e realizzata dallo Spirito Santo. È lo Spirito di Cristo che trasforma questo uomo e gli dona i pensieri, le priorità, il modo di valutare, di decidere che è quello di Gesù Cristo». Vive dunque «plasmato, forgiato dallo Spirito di Cristo, in un rapporto libero di continua corrispondenza» per amare come ama Dio. Pertanto «il santo è un povero che invoca incessantemente. È lo Spirito Santo che ti rende santo. Non sono le tue capacità che ti rendono santo. Pascal diceva una bellissima frase: “Per fare di un uomo un santo ci vuole proprio la grazia e chi ne dubita non sa che cosa sia né un santo né un uomo”». Infine «il santo è anche un guarito, uno che è grato di essere guarito. Il santo lo definirei una persona grata, grata, grata! Capace di dire grazie della vita».

Relativamente al ‘passo’ dedicato al tema della Sacra Scrittura, il sacerdote oratoriano precisa che «va letta nella prospettiva della salvezza, del salvarsi, della felicità, della risposta di senso. Le pagine della Bibbia sono realmente la verità della nostra vita. In questo senso, in esse non c’è alcun errore nelle risposte che danno per la nostra salvezza, per la nostra felicità, su chi è Dio e su chi è l’uomo».

«Perché devo andare a Messa? Perché Gesù lo desidera». È questa, secondo padre Maurizio Botta, la «risposta evangelica» che ciascuno è chiamato a dare, credente o non credente che sia. Una risposta, dunque, a un invito ardente di Gesù. D’altra parte «ciò che mangi e bevi lo assimili, ti entra dentro, non è una semplice adesione intellettuale a un messaggio, a dei valori, a un maestro di morale, le parole di Gesù non sono solo esemplari. Gesù vuole intimamente un’unione carnale, nella carne, nel corpo, con i suoi fedeli», perciò inventa l’Eucarestia. Tuttavia, alla comunione sacramentale deve accompagnarsi una comunione spirituale, una «comunione di intenti e di volontà», prima e dopo la Messa, con quello che vuole Cristo per amare come ama Lui. Solo così infatti si diventa pienamente, come affermano i Padri della Chiesa, il suo Corpo di cui ci si è nutriti e si viene assimilati sempre di più a Lui.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Riccardo Pampuri, medico del corpo e dell’anima

 «Egli ha riconosciuto il volto del Mistero che fa ogni cosa, presente qui e ora. Questo amore a Cristo si distese in lui in una serie infinita di gesti d’amore agli uomini e alle donne che incontrava nei loro bisogni elementari, curando e sanando fino alla fine dei suoi giorni. In lui si realizza la santità come ideale di umanità vera». Così don Luigi Giussani introduceva la figura del medico santo Riccardo Pampuri, tratteggiata con dovizia di particolari nell’ultimo lavoro del nostro Rino Cammilleri, Riccardo Pampuri (Ares 2022, pp. 283). Si tratta infatti di una biografia molto documentata, ricca di aneddoti della vita del santo ‘medico del corpo e dello spirito’, ma anche di episodi significativi del contesto storico e culturale in cui egli visse.

Decimo di undici figli, Erminio Filippo Pampuri nasce a Trivolzio nella Bassa milanese il 2 agosto 1897. Orfano di madre a tre anni e di padre dopo un incidente stradale, egli è stato studente, soldato, medico e religioso nei Fatebenefratelli. Giovane studente, una volta terminati i compiti, «se ne va in cappella e resta inginocchiato un bel po’ davanti al Santissimo». S’iscrive alla facoltà di medicina a Pavia per servire Cristo nel prossimo sofferente. «Una volta, durante un’‘azione’, ci scappò il morto, uno studente. Gli spararono dalle finestre e tutti scapparono. L’unico che ebbe il coraggio di avvicinarsi a quel poveraccio fu Pampuri. Si chinò sul corpo esanime, ma non c’era più nulla da fare. Recitò una preghiera e se ne andò senza che nessuno osasse dirgli niente». Con la sua testimonianza di vita cristiana riusciva a portare a Cristo tanti giovani, attraverso opere concrete di apostolato col circolo “Severino Boezio” e le “Conferenze di San Vincenzo”.

Sospinto da tale zelo si fa terziario francescano e, quando l’Italia decide di entrare in guerra, egli non si sottrae e va al fronte portando con sé il Vangelo, le Lettere di San Paolo, l’Imitazione di Cristo e in tasca il rosario. Quando le truppe batterono in ritirata dopo la sconfitta di Caporetto Pampuri, completamente solo, sfidando la pioggia battente, il fango e il fuoco nemico, aggioga una mucca e pone su un carretto apparecchiature, bende, medicine e ferri che sarebbero ancora stati utili per tanti feriti di guerra. Questo gesto gli costa però una brutta pleurite.

Nell’immediato dopoguerra, divenuto medico condotto a Morimondo, partecipa quotidianamente alla «messa e fa la comunione, poi cominciava il giro. Di più: spesso non si faceva neanche pagare (virtù somma, agli occhi dei malati poveri); anzi, non era raro il caso che fosse lui a lasciare del denaro sul tavolo». Dopo il giusto discernimento vocazionale, condizionato anche dalle sue precarie condizioni di salute, sceglie l’ordine dei frati che si dedicano proprio all’assistenza degli infermi fondato da San Giovanni di Dio. Il fatebenefratello che l’accoglie pronuncia delle parole che risuonano profetiche: «Dovesse rimanere anche un solo giorno membro effettivo dell’Ordine nostro, sia il benvenuto. Dopo esserci stato in terra di edificazione, ci sarà poi in Cielo angelo di protezione».

A Pampuri «viene chiesto anche di tenere lezioni di infermieristica generale ai confratelli». Frate Riccardo non disdegna le mansioni più umili, «caricandosi le incombenze più sgradevoli» legate in specie alla cura di malati di sifilide o tubercolosi, di corpi «imbrattati da vomito, feci, urina, bava, sudore, pus, quando certi odori prendono il naso e la gola». Nel contempo, in virtù della sua profonda scienza medica, viene chiamato spesso per un consulto. Per un breve periodo gli viene affidata anche la direzione di un ambulatorio dentistico in ospedale.

Riguardo agli ospedali, Cammilleri evidenzia come lo stesso Lutero abbia elogiato «gli ospedali dei ‘papisti’», ricordando che per l’Ospedale degli Innocenti a Firenze sono stati chiamati artisti del calibro di Brunelleschi e Andrea della Robbia. «Il limite stava nel personale; persino gente che doveva scontare una pena veniva adibita ai ‘lavori forzati’ negli ospedali, dove finivano i poveracci che non potevano pagarsi il medico e le medicine, dal momento che i ricchi potevano pagarsi i medici a domicilio».

Nel 1929 a frate Riccardo viene un’emottisi più violenta del solito. È trasferito d’urgenza a Milano, ma la febbre resta alta. Muore alle dieci e mezza circa del primo giorno di maggio. Eppure non si lamenta, sorride sempre («Quale torto faremmo a Nostro Signore se dovessimo servirlo con una spanna di broncio», scrive) e riesce a «fare apostolato anche dal letto. I malati del reparto, il personale, i sacerdoti e i confratelli che venivano a trovarlo restavano edificati dalla sua forza d’animo. Molti, usciti da lì, si accostarono ai sacramenti dopo anni. E anche dopo morto portò anime a Dio: un protestante, lì ricoverato, sentendo dire che era morto una specie di santo, aveva voluto farsi accompagnare a vederlo. Era rimasto così colpito dalla serenità di quel viso da commuoversi fino alle lacrime. Pochi giorni dopo volle farsi cattolico».

Tra i miracoli compiuti grazie alla sua intercessione si ricorda che Don Raineri, compagno alla scuola elementare di Pampuri, si rivolge all’amico a seguito di una perforazione duodenale e viene guarito. Stesso esito felice per una tredicenne che attendeva l’amputazione della gamba per osteomielite, alla quale il padre pone un’immaginetta di frate Riccardo sotto il cuscino. Nel 1982 è un ragazzino di dieci anni che, ponendo una reliquia del saio del frate sotto la benda sull’occhio che avrebbe perso a causa di un brutto taglio, si risveglia guarito. Queste sono solo alcune delle innumerevoli guarigioni fisiche di moribondi dati per spacciati operate grazie all’intercessione del medico lombardo.

Insomma «a trentatré anni Pampuri aveva ben svolto il suo compito, fatto tutto quello che doveva fare, si era realizzato secondo il progetto di Dio». Così nel 1989 viene elevato agli onori degli altari da Giovanni Paolo II. A quanti chiedono la sua potente intercessione Riccardo Pampuri mostra ancora oggi con generosità il volto misericordioso di Cristo che si china sulle ferite del corpo e dell’anima.

Fonte: La Nuova Bussola Quodianana

 

San Giuseppe Moscati, uomo di scienza e di carità

«Medico, scienziato e benefattore dell’umanità, primario dell’Ospedale degli Incurabili di Napoli. Giuseppe Moscati fu sempre orientato a Dio e al bene supremo dell’essere umano. Sin dall’inizio della sua carriera fu considerato un medico controcorrente nell’ambiente sanitario del suo tempo, così pervaso di positivismo scientifico e di idealismo filosofico. Ogni mattina, prima di recarsi in ospedale, si alzava presto per visitare gratuitamente a domicilio la povera gente. Nel suo studio privato, come onorario, vi era un cestino con la scritta: “Chi può, metta qualcosa. Chi ha bisogno, prenda”. Medico eccellente e caritatevole, insigne ricercatore e docente, uomo di grande dirittura morale e di fede profonda, giunse alla santità incarnando nell’ordinaria concretezza dell’esistenza quotidiana l’ideale del laico cristiano».

Così lo scrittore e medico Paolo Gulisano introduce la figura del santo medico nel suo volume Giuseppe Moscati (2022, pp. 167), che inaugura la nuova meritoria collana Un santo per amico delle Edizioni Ares.

Nato a Benevento nel 1880 da una famiglia molto devota, settimo di nove figli, Moscati è uno studente brillante, si laurea col massimo dei voti. Gli viene affidato l’incarico di libero docente di chimica fisiologica, ma egli preferisce le corsie dell’ospedale e la prossimità ai pazienti alla carriera accademica, facendo della «professione una palestra dell’apostolato». La morte della madre a causa del diabete lo spinge a cercarne una cura con ogni sforzo intellettuale, per cui è il primo medico a sperimentare con successo l’insulina.

Moscati non è uno ‘scapolo’, ma prende «la fermissima decisione di custodire la sua purezza», per cui «vive il suo celibato come una scelta di dedizione totale alla missione di medico». «Moscati ha un metodo, una via: l’ospedale è a misura d’uomo quando chi vi lavora rende visibile e credibile la motivazione profonda che guida i suoi gesti, secondo una scienza animata dal desiderio di aiuto, in autentico spirito di servizio, senza trascurare il fatto che il primo essenziale soccorso umano è quello che aiuta il malato a vivere con dignità la propria malattia e la propria cura».

Con l’eruzione del Vesuvio del 1906 si preoccupa in prima persona delle operazioni di evacuazione e d’assistenza degli ammalati nella succursale dell’ospedale a Torre del Greco, il cui tetto sarebbe crollato a breve. Quando scoppia l’epidemia di colera nel 1911 anche a Napoli, Moscati non ha timore «di entrare nelle case dei malati ad alleviare specialmente le sofferenze dei poveri, che gli stanno tanto a cuore quali immagini vive e toccanti di Cristo sofferente».

Durante le visite più delicate lo si sente invocare: «Cuore di Gesù, soccorrete i medici». Quando prega l’Ave Maria, invece, pensa per ogni espressione che la compone a un’immagine diversa della Vergine, da quella di Pompei quando ripete ‘Dominus tecum’ a quella di Lourdes per l’‘Ora pro nobis peccatoribus’. Nutre anche una devozione profonda per san Giuseppe, san Ciro, san Francesco d’Assisi, san Michele Arcangelo e il suo Angelo Custode.

Scienziato umile e acuto, ha il merito di aver intuito l’importanza del metabolismo dei polisaccaridi per la terapia diabetica. Significativi sono poi i suoi studi sulla biochimica della placenta, il cui contributo viene riconosciuto anche oltreoceano. Quando c’è da prender posizione, relativamente al dibattito sull’eugenetica, scrive con fermezza: «Il movimento moderno sull’eugenetica, partito da una concezione altissima, quella di proteggere la razza umana dalla decadenza, propone per conseguire questo fine, mezzi di cui alcuni appaiono lesivi della libertà umana, o dell’etica della vita, o antifisiologici. Non è senza molto scetticismo che si apprendono tali proposte, per eliminare i deboli. Sono mezzi antiumani. I cosiddetti cromosomi sanno aggrupparsi meglio di quanto non ingiungano loro gli eugenisti».

 Nel campo della diagnostica non c’è nessuno che lo eguagli: «Sembra che in questa sua spiccatissima facoltà di individuare con esattezza la presenza e l’evoluzione di una malattia, ci sia qualcosa di soprannaturale. Con un semplice sguardo, con una leggera palpazione effettuata tenendo l’occhio rivolto al cielo come per esserne ispirato, con una auscultazione, egli entra in possesso degli elementi necessari per formulare le diagnosi più difficili». Il decorso della malattia gli dà in effetti sempre ragione. Egli ha anche il carisma di leggere interiormente gli spiriti; accanto alle medicine per la terapia invita alla preghiera e ai sacramenti, in particolare quanti sono lontani da una partecipazione assidua, poiché lo ritiene indispensabile tanto per la fortezza nella prova quanto per chiedere e ottenere la guarigione.

Moscati ha trentacinque anni quando scoppia la Grande Guerra. Primario all’Ospedale degli Incurabili, è pronto con la sua carità operosa a lenire le ferite del corpo e dell’anima di tanti giovani che arrivano dalla trincea nel reparto militare di cui assume la direzione. Egli è pronto a fronteggiare anche l’epidemia di spagnola che comincia a dilagare.

Io posso tutto in Colui che mi conforta’, replica parafrasando San Paolo a quanti constatano il suo eccessivo affaticarsi. Il beato Bartolo Longo, promotore della costruzione del Santuario di Pompei per la sua devozione al Rosario, è un suo paziente e Moscati gli è accanto nel giorno della morte.

Moscati sa consolare, difatti «le famiglie che richiedono le sue prestazioni mediche sanno che con esse arriva anche il bene del conforto cristiano». Il 12 aprile 1927 Moscati, mentre è nel suo studio, alle tre del pomeriggio si sente male, si accascia sulla poltrona e muore. I poveri in studio, appresa la notizia, esclamano: “O Gesù! E ora, come faremo?”. Nel rendere omaggio alla sua salma, l’arcivescovo di Napoli, il cardinale Asclesi esclama: «Il professore non apparteneva a voi, ma alla Chiesa. Non quelli di cui ha sanato i corpi, ma quelli che ha salvato nell’anima, gli sono andati incontro quando è salito lassù». Canonizzato nel 1987, ha vissuto una ‘beatitudine’ di cui egli stesso ha scritto: «Beati noi medici tanto spesso incapaci ad allontanare una malattia, beati noi se ci ricordiamo che oltre i corpi abbiamo di fronte delle anime immortali, per le quali urge il precetto evangelico di amarle come noi stesse».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Alle radici di una storia, Cristo spiegato da don Gius

«Il Verbo si è fatto carne. La mia vita fin da giovanissimo è stata letteralmente investita da questo: sia come memoria che persistentemente percuoteva il mio pensiero, sia come stimolo a una rivalutazione della banalità quotidiana. Tutto ciò che era bello, attraente, affascinante, fin come possibilità, trovava in quel messaggio la sua ragion d’essere, come certezza di presenza e come speranza mobilitatrice che tutto faceva abbracciare».

 Scrive così ai giovani don Luigi Giussani in uno dei suoi scritti fondamentali ora raccolti in Alle radici di una storia (Rizzoli 2022, pp. 320) che ripercorre il percorso umano e spirituale del santo sacerdote di Desio nel centenario della nascita. Una fede ‘incarnata’ quale accadimento ed esperienza del Mistero per una conoscenza più profonda della realtà, di se stessi e degli altri; la cultura dell’incontro e, in special modo, l’educazione dei giovani, sono solo alcuni dei temi pregnanti di questa ricca antologia di pagine scelte.

«Iniziamo a giudicare: è l’inizio della liberazione», osserva ancora il ‘Gius’, additando un metodo preciso per indagare la realtà mediante una ragione aperta al Mistero che non pretenda di esserne invece la misura e il criterio ultimo. Una ragione che non esclude il sentimento, appassionata e umile «coscienza del senso e corrispondenza con la realtà», riconosce infatti che «questa è la grandezza dell’uomo: la parola ‘felicità’ può essere pronunciata, sentita, vissuta solo dall’io». Tale esigenza di felicità è la vera mancanza, il grido autentico del cuore di ogni uomo inteso come inesauribile tensione alla quale soltanto Cristo può rispondere pienamente. «Il cristianesimo è un ‘fatto’», l’avvenimento di «un uomo che ha detto: “Io sono la salvezza della tua vita. Io sono il significato della tua vita”».

D’altra parte se «la coscienza di sé fino in fondo percepisce al fondo di sé un Altro» è evidentemente Cristo tale Presenza con la passione per l’uomo. Allora la creatura, consapevole che non si dà l’essere da se stessa, si riscopre quale “Io-sono-Tu che mi fai”. Poi Gesù si lascia incontrare «dentro la compagnia di coloro che lo hanno udito e gli hanno detto ‘sì’, lo riconoscono e sono insieme perché c’è Lui». E in effetti, come sottolinea il sacerdote di Desio, «l’annuncio cristiano è: un uomo che, mangiando, camminando, consumando normalmente la sua esistenza di uomo ha detto: “Io sono il vostro destino”, “Io sono Colui di cui tutto il cosmo è fatto”».

 La cifra dell’amore di Cristo è la sua misericordia, definita da don Giussani «quale abbraccio ultimo del Mistero, contro cui l’uomo – anche il più lontano e il più perverso – non può opporre niente: può disertarlo, ma disertando se stesso e il proprio bene».

 Certo «non è compito di Gesù risolvere i vari problemi, ma richiamare alla posizione in cui l’uomo più correttamente può cercare di risolverli», ribadisce Giussani. Lo si può fare dunque in pratica amando la verità più di se stessi, più delle proprie idee e pregiudizi. Questa è la morale, secondo il fondatore di ‘Comunione e Liberazione’, una posizione netta e precisa di fronte al valore, ossia a ciò per cui vale la pena impegnarsi nella vita, che scaturisce però dal ‘sì’ alla Presenza, come il triplice di Pietro nell’incontro con il Risorto dopo il rinnegamento. Infatti «solo l’uomo che vive questa speranza in Cristo continua tutta la sua vita nell’ascesi, nello sforzo per il bene».

Don Luigi Giussani è stato anche un sapiente educatore di tante generazioni di giovani, consapevole che «educare significa aiutare l’animo dell’uomo a entrare nella totalità della realtà» e che «esser giovani vuol dire dire aver fiducia in uno scopo». Si tratta dunque di educare alla libertà, intesa quale «livello in cui la natura diventa capace di rapporto con l’infinito», «desiderio di felicità e di soddisfazione totale» per rimanere fedeli al proprio cuore. Perché, come sottolinea Papini, «l’uomo è libero solo di diventare ciò che nella sua originaria essenza era già: sete di felicità».

«La vita che non è vita, è dura!». Risponde così il Gius a Gisella Corsico che gli chiedeva come si sentisse durante il tempo della sofferenza e della prova. Egli custodisce sempre il suo cuore grato a Dio, nella lucida e fiduciosa consapevolezza maturata sin dagli anni del seminario che «ogni istante che trascorro in questa forzata inattività può essere un immenso atto d’amore che serva alla felicità dei miei fratelli uomini ed alla gloria del mio Amico Divino, più di quanto l’avrebbe potuto il mio esteriore ardore». Anche di tali semi, affacciandosi oggi dai granai del Cielo, Luigi Giussani può scorgere lieto e col cuore finalmente pieno copiosi frutti di vita eterna.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Nella Bibbia la mappa del tesoro della nostra vita

«La Bibbia è davvero la mappa del tesoro, una guida alla realtà, ma solo se la prendi sul serio, cioè se la metti alla prova. Perché il miracolo che succede quando la leggi, la rileggi e la impasti con la vita è che non sei più tu a leggere lei, ma è lei a leggere te». Così scrive Costanza Miriano nella sua ultima fatica Il libro che ci legge (Sonzogno 2022, pp. 160) dedicata alle grandi storie della Sacra Scrittura messe a fuoco nella loro perenne novità quali chiavi di lettura per vivere ogni circostanza della propria vita con lo sguardo di Dio.

«L’ostacolo principale a tale prospettiva è rappresentato dalla presunzione che io so bene come deve andare la mia vita, e vorrei che Dio mi assecondasse, seguendo le mie indicazioni. Per cercarlo e trovarlo, dunque, serve una decisione libera. E serve la disponibilità a fare piazza pulita di tutte le nostre idee di Dio (quello con cui fare i baratti, quello che giudica, quello che premia i buoni e mena i cattivi eccetera». Il presupposto di un dialogo autentico con la Parola viva è sicuramente la disponibilità a mettersi in discussione e ad ascoltare.

Perciò «“ascolta, Israele”. Sta’ contento che ho scelto di parlare proprio a te: ti sto offrendo di essere il mio popolo. La prima cosa da fare, dunque, è togliere il comando a sogni, fantasie, emozioni e sentimenti; combattere innanzitutto per usare la ragione, e poi per lasciare che sulla ragione trionfi la fede, che le è superiore e mai in contrasto».  Il cristiano infatti è colui che fa spazio a Dio e così diventa più fedele a se stesso.

Di qui si può riscoprire che «la storia dell’Esodo potrebbe avere qualcosa a che fare anche con il tuo, il nostro soffrire; magari ha qualcosa da dire su una quotidianità fatta di fatica, di incomprensioni: parla della moglie che rompe sempre, dei genitori o dei fi­gli che non ci capiscono, del lavoro che è (o sembra) arido e senza prospettiva; parla di quando abbiamo pochi soldi o ci sentiamo poco amati, di quando non proviamo neppure più a cambiare – oppure ci proviamo ma, nonostante tutta la buona volontà, non ci riusciamo – e nulla muta in noi o nella nostra situazione.  Circostanze ripetitive e invariabili, esattamente come quelle degli ebrei che, anno dopo anno, impastavano il fango per il faraone per una paga da fame».

Il cammino di liberazione che Dio propone mediante Mosè al suo popolo è anche paradigma di una storia di conversione di coppia. Qui il suggerimento che la Miriano offre all’uomo in crisi matrimoniale è che «se stai così male, devi cambiare tu. Cambiare il tuo cervello. Attraversare il deserto. Partire come il popolo di Israele e lasciare il faraone – che è la tua voce interiore che parla contro il tuo matrimonio, a favore del tuo egoismo». E ancora, l’autrice fa notare con acutezza che «la storia, fatta di un viaggio rischioso, notturno, scomodo, ignoto, non c’entra niente con le nostre rassicuranti pratiche religiose, che spesso vanno solo a confortare le nostre nevrosi e ci confermano, inducendoci a rimanere esattamente dove siamo. C’entra invece con lo scomodarsi, con il mettere in discussione i sentimenti, le decisioni, le emozioni, le abitudini. Ci dice che Dio lo incontri se ti metti in cammino».

C’è poi Giuditta che «ci insegna come affrontare il nemico», senza dialogare, o peggio, scendere a compromessi col male, ma tagliandogli subito la testa, procedendo nel modo seguente: «Non ascoltare le tue fanta­sie. Il nemico cinge l’assedio: chiudi le porte e preparati a resistere. Così fanno gli abitanti di una piccola città, Betulia: co­minciano a prepararsi alla guerra, costruiscono fortificazio­ni, bloccano i valichi (a proposito, lo sai che l’iPhone ha la funzione «blocca contatto»?)». Di qui l’invito della Miriano a ripercorrere la propria personale storia di salvezza con cuore grato a Dio: «Ognuno sa cosa significhi, per la propria vita, dare il co­mando a Dio. Le simpatie e le antipatie, i desideri: tutto viene vagliato e consegnato a Dio nella preghiera, perché ci faccia il miracolo di riuscire ad amare».

La vicenda di Rut propone un interessante rimedio al delirio d’onnipotenza che spesso ci contraddistingue, ossia la consapevolezza che «della tua storia decidi pochissimo, però puoi decidere la cosa più importante di tutte: come stare nel posto che ti è dato, a partire dai dati di realtà, senza concederti di pensa­re come sarebbe stato bello e diverso se». Anche perché la fede autentica è quella per cui «se tu ti fidi di Dio, sco­pri che quello che ti viene dato è il meglio per te». Così «Rut finalmente avrà figli. E non figli qualsiasi: genererà Obed, padre di Iesse e nonno del re Davide, an­tenato di Gesù. Da questa obbedienza alla realtà è venuto tanto, tantissimo bene. Il bene massimo, che però è anche la felicità delle persone singole: nella storia di Dio c’è sempre e solo bene, nonostante a volte sia parec­chio travestito». Vedova di Chilion (‘sfinito’), avrà come marito Booz (‘potente’). E in effetti «il nostro amore, ogni amore, ha bisogno di essere gua­rito di continuo, senza posa, progressivamente. Quando tu guarirai il tuo modo di amare, tuo ma­rito guarirà il suo: siamo noi donne che generiamo l’uomo, sempre, ogni giorno».

La storia di Salomone insegna ad imparare cosa chiedere a Dio e a lasciarsi fare da Lui, proprio come «i santi, che sono quelli che cambiano, mentre noi di solito ci difendiamo dal cambiamento, proviamo a rimanere come siamo: abbiamo paura di perdere qualcosa, se allentiamo il controllo sulla nostra vita». Dalla vicenda di Giuseppe venduto dai fratelli si impara a chiedere la grazia di riuscire a perdonare gli altri e fare pace con la propria storia; da Tobia e Sara a diventare coppia secondo il cuore di Dio; da Rebecca a trovare un fidanzato riconoscendo la ‘situazione pozzo’ per entrare in una relazione senza difese.

Insomma il volume di Costanza Miriano ridesta il desiderio di prendere in mano la Sacra Scrittura per lasciarsi leggere dalla Parola, «criterio di verità su di noi, mettendo una croce sul cuore», nella consapevolezza che «Dio ha saputo creare una storia stre­pitosa, la storia della salvezza, da persone che sembravano perdute – tanto per ricordarci chi è che fa le cose». E Dio «esagera col bene: se noi ci attacchiamo come cozze alla sua Parola, ci ricopre di regali».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

L’umorismo di Gesù spiegato da Berger

«L’umorismo di Gesù è il padre di tutta la sua sapienza; un mezzo eccellente per ritrovare la realtà nella sua verità». Così scrive Klaus Berger – uno dei maggiori esegeti di lingua tedesca del Nuovo Testamento morto nel 2020 e la cui poderosa opera Gesù  è stata anche raccomandata dallo stesso Benedetto XVI – nel volume Un cammello per la cruna di un ago? pubblicato recentemente da Queriniana (2022, pp. 223).

Gesù ha uno spiccato senso dello humour. Assurdità, provocazioni, contrasti, esagerazioni, contraddizioni, sproporzioni, scherno divengono strumento di critica profetica: se Gesù sbeffeggia, è perché si possa riconoscere la verità; se distorce le cose, è perché si impari a vedere bene; se inverte il grande col piccolo, è per indicare le giuste priorità. I vangeli apocrifi ci mostrano un Gesù che ride, ma soprattutto che induce il riso affinché i suoi interlocutori – siano essi scribi, farisei o gli stessi apostoli –  si liberino di tante sovrastrutture mentali vuote di senso.

«Il suo umorismo fa parte delle cose con cui egli evita la banalità e allo stesso tempo esige il massimo. Perché egli non aggiunge mai se sta esagerando o se si esprime in termini radicali, se vuole davvero intimorire o intende se stesso come un soccorritore». Di qui il piccolo diventa grande, in specie nelle ricadute dell’episodio dell’obolo della vedova o nella considerazione sullo sguardo lussurioso dell’uomo sulla donna.

«Molte parole piene di humour di Gesù presentano un modo di agire al quale ogni persona ragionevole risponderebbe con un ‘no’ o ‘nessuno’. Nessuno farebbe festa per un centesimo smarrito e poi ritrovato. Nessuno può semplicemente rinunciare a sorvegliare 99 pecore. Nessun cieco guida altri ciechi; nessun morto può seppellire altri morti; nessun cammello può passare per la cruna di un ago. Tale umorismo porta a essere consapevoli dei limiti delle forze e degli spazi di azione umani», sottolinea ancora l’esegeta tedesco.

Nel Vangelo c’è spazio per l’irrisione caustica di Gesù rispetto al modo di pregare dei pagani che credono di esser ascoltati a forza di parole e per la sproporzione relativamente al bicchier d’acqua dato sufficiente per raggiungere il cielo. Ci sono poi le provocazioni, tra le quali la prostituta lodata perché ha molto amato; la macina al collo e la lode dall’amministratore disonesto che non viene esortato a cambiare, per cui Gesù «manifesta la propria simpatia per il criminale». In queste occasioni il Maestro «induce i lettori/uditori a saltare insieme a lui al di là dei muri della morale, perché al di fuori delle rappresentazioni morali usuali si trovino soluzioni inconsuete ma non ‘criminali’».

Allo stesso modo la scena grottesca del passaggio del cammello per la cruna dell’ago allude in modo umoristico allo sforzo richiesto per passare attraverso la porta stretta del Regno. Come per la pagliuzza e la trave, la medesima logica grottesca è sottesa anche alla critica ai farisei di filtrare i moscerini e inghiottire cammelli, volta a evidenziare con la forza dell’immagine metaforica il loro atteggiamento di «perfezionismo nella ricerca degli errori e cecità di fronte ai grandi problemi».

 Relativamente al troncare un membro del proprio corpo in via preventiva, le affermazioni di Gesù paiono crudeli e irrealistiche, sebbene inoppugnabili sul piano logico, dal momento che è evidente che sia preferibile «un castigo nel tempo a un castigo eterno». In realtà si tratta di una logica che intende provocare la reazione degli interlocutori come quando, additato di essere un mangione e beone, Gesù assume nel proprio discorso il giudizio che altri hanno espresso su di lui.

La moltiplicazione dei pani e dei pesci e il miracolo alle nozze di Cana evidenziano che «l’umorismo di Gesù è anche in sintonia col modo di donare proprio di Dio». La sovrabbondanza al di là del bisogno libera infatti l’uomo dalla preoccupazione per il futuro ed è segno mirabile della paternità divina. Allo stesso modo, durante la pesca miracolosa, Gesù contraddice le regole stesse del mestiere, invitando a gettare le reti in mare in pieno giorno.

Nell’episodio del tale che si reca a mezzanotte dall’amico per chiedergli del pane, «l’umorismo di Dio consiste nel rimanere un amico fedele malgrado le richieste impertinenti che subisce». Muovendo dalla constatazione che «ad ambiti diversi della vita appartengono perle (ornamento e bellezza) e porci (stalla e impurità pagana)», l’accostamento delle perle ai porci esorta a dare a ciascuno ciò che gli si addice e che può tollerare.

L’umorismo di Gesù è funzionale al capovolgimento delle logiche di potere e della ragione umana – come osserva acutamente Berger – e dunque «una diretta emanazione della libertà di Gesù che riguarda la proprietà, la preoccupazione per il futuro, la famiglia e la morte». «Rispecchia l’esperienza della liberazione dalle cianfrusaglie insensate e dalle false rappresentazioni che sono loro collegate»; perciò è «strumento di critica profetica» e soprattutto «è connesso con la gioia, elemento religioso centrale, per cui si tratta di non impedire o ostacolare la gioia degli altri».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Quando non sai a che santo votarti

‘Qualunque mestiere facciate, qualsiasi problema abbiate, esiste il Santo a cui rivolgervi’. È questo il sottotitolo dell’ultimo lavoro del nostro Rino Cammilleri, Il Grande libro dei santi protettori (Ares 2022, pp. 687), un’opera poderosa sapientemente suddivisa secondo la tipologia dei santi patrocini: dalle malattie a matrimonio e maternità; dalle professioni, arti, mestieri e vocazioni a ‘guai vari’.

«I santi sono persone che hanno preso sul serio le parole di Cristo. I Santi, grazie al Cielo, sono tantissimi, e il buon senso popolare li ha ‘specializzati’, ciascuno in grazie particolari. Vuoi trovare una cosa smarrita? Rivolgiti a sant’Antonio da Padova. Sì, qualunque Santo può fare lo stesso, ma con lui fai prima. Ti si è ammalato il maiale? C’è l’altro Antonio, l’abate». E in effetti, come testimonia l’insistenza quasi impertinente della donna siro-cananea con Gesù rispetto alle briciole date in pasto ai cagnolini, «anche la sfacciataggine e la sfrontatezza diventano ‘sante’ se rivolte, per uno scopo buono, a chi di dovere».

Tra le fila dei ‘santi protettori della salute’ vi sono anche due grandi luminari della scienza medica del secolo scorso, Riccardo Pampuri e Giuseppe Moscati, cui è bene chiedere l’intercessione per la guarigione fisica propria o altrui e la protezione da ogni malattia. Cosma e Damiano, che esercitarono la professione medica senza compenso, intercedono per la guarigione dei calcoli renali: a Costantinopoli, nella basilica loro dedicata, i malati si addormentavano e venivano da loro guariti durante il sonno secondo il fenomeno dell’‘incubazione’. Lucia è considerata la giovane martire siracusana protettrice della vista, anche se in realtà il motivo della sua intercessione può essere ascritto a diversi fattori parimenti plausibili: il nome «evocante la luce»; il fatto che forse fu anche accecata prima di subire il martirio o perché «fu lei stessa a strapparsi gli occhi, bellissimi, perché il suo ex fidanzato cessasse di perseguitarla».

San Bartolomeo, ossia l’apostolo di Gesù che si chiamava Natanaele e secondo la tradizione fu scuoiato vivo, «è invocato da tutti coloro che lavorano le pelli; e anche contro le convulsioni, le crisi spasmodiche e le malattie nervose». Per la trasverberazione, ossia il fenomeno per cui «un angelo le trafiggeva il cuore con un dardo di fuoco, nello stesso punto in cui Cristo fu colpito dalla lancia», Santa Teresa d’Avila protegge dai malanni del cuore.

Invocato per la protezione da numerose malattie, dati gli innumerevoli prodigi che compì ancora in vita, compresa la rianimazione di un catecumeno morto e di uno schiavo impiccato, san Martino di Tours è celebre non solo per il ritorno di un po’ di tepore nell’estate novembrina che porta il suo nome, ma anche perché «nel suo giorno si beveva il vino nuovo (‘vino di san Martino’), cominciava l’anno giudiziario, dei Parlamenti e delle scuole, si svolgevano le elezioni municipali, si rinnovavano i contratti e si pagavano le locazioni. L’olio delle lampade della sua tomba era portato via dai pellegrini perché guariva i malati. È invocato per moltissime intercessioni. La sua famosa cappa fu custodita in un luogo che prese appunto il nome di ‘cappella’; il primo ad averne l’onore fu Ugo, detto perciò ‘Capeto’, fondatore della monarchia francese».

Oltre San Giuseppe e l’arcangelo Michele, anche san Benedetto è patrono della ‘buona morte’, in quanto «si fece reggere le braccia dai discepoli per l’ultima preghiera, poi spirò in estasi». Lo stesso dicasi per Sant’Anna, la quale è onorata da «madri di famiglia, donne desiderose di prole, ricamatrici, lavandaie, ma anche orefici, ebanisti, falegnami, minatori. Pure i palafrenieri pontifici l’avevano a patrona. La cosiddetta ‘acqua di sant’Anna’ curava le febbri e gli ossessi. È sempre rappresentata con un manto verde, colore della speranza che germoglia».

San Pietro d’Alcantara, padre spirituale di Teresa d’Avila, «con pioggia o sole, non si copriva mai la testa col cappuccio del rozzo saio che indossava sul corpo nudo. Mangiava solo ogni tre giorni e parlava solo se interrogato…per questo è intercessore contro le febbri maligne». Il franco san Leonardo di Nobiliacum è invece patrono degli obesi soltanto per l’aspetto assunto in alcune delle sue icone in cui viene rappresentato «piuttosto paffuto».

Per la salute dei polmoni e contro il contagio in tempo di pandemia si può invocare, oltre san Rocco, il patrono dei giovani san Luigi Gonzaga il quale, oltre a soffrire di polmonite, morì proprio per la carità operosa verso gli appestati. Contro il mal di testa c’è Santa Bibiana, martire sotto Giuliano l’Apostata, poiché «l’erba del giardino della chiesa sorta sulla sua tomba veniva essiccata e utilizzata come infuso contro le malattie, specialmente i mal di testa».

Le donne desiderose di aver figli possono invocare i santi Francesco di Paola e Rita; quelle desiderose di averne molti santa Felicita, martire romana madre di sette figli. Quando nella coppia si fa strada una gelosia pericolosa, allora si può invocare santa Marciana di Albi, in quanto «un suo miracolo fece riconoscere la fedeltà di alcune gentildonne di Albi ingiustamente sospettate di adulterio dai mariti».

 Tra le fila dei santi protettori di arti, mestieri e professioni si ritrovano Giovanni il Battista, Marta, sorella di Lazzaro, e Zaccheo – capo dei pubblicani che si impegna a restituire quattro volte il maltolto dopo l’incontro con Gesù – quali patroni di albergatori e addetti alle mense. Matteo protegge guardie di finanza, ragionieri e statistici; Gabriele Arcangelo ambasciatori, corrieri, postini e addetti alle telecomunicazioni; Giuseppe d’Arimatea le onoranze funebri; Girolamo bibliotecari, librai e bibliofili; Carlo Borromeo e Roberto Bellarmino i catechisti. Tommaso apostolo è patrono dei periti; Lorenzo dei vigili del fuoco e dei rosticcieri e il buon ladrone – il primo santo ‘canonizzato’ da Cristo stesso – dei condannati a morte. Mattia apostolo e Benedetto di Hermillon intercedono invece per gli ingegneri. Quest’ultimo era un umile pastorello che, per assecondare il contenuto di una visione, si reca ad Avignone e riesce a convincere non il vescovo ma il podestà della bontà del progetto di costruire un ponte sul Rodano.

 Attraverso il volume di Cammilleri si riscopre la preziosità della comunione dei santi, di avere così tanti amici in Paradiso pronti a intercedere presso il Padre per ogni esigenza in vista del bene spirituale e fisico di ciascun fedele.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana