Da Ratzinger a Benedetto XVI, il racconto di una vita

«Joseph Ratzinger ha fatto la storia. Novellino al Concilio, innovatore della teologia, prefetto che al fianco di Karol Wojtyła ha guidato la Chiesa in una fase storica tumultuosa. Ed è stato inoltre il primo papa a dimettersi dall’incarico per motivi di età: mai prima d’ora è esistito un ‘papa emerito’. Mai prima d’ora, e da un giorno all’altro, un singolo uomo ha cambiato il papato in modo tanto decisivo».

Alla sua figura Peter Seewald che dal 1992 a oggi ha avuto modo di porgergli circa duemila domande dedica una poderosa biografia edita anche in italiano da Garzanti (Benedetto XVI. Una vita, 2020, pp. 1292). Il suo intervistatore non ha dubbi: Benedetto XVI è «uno dei pensatori più intelligenti dei nostri tempi», che «ha mostrato che religione e ragione non sono in contrapposizione. Che proprio la ragione è ciò che garantisce alla religione di non cadere in fantasie folli e nel fanatismo. Ratzinger ha affascinato con i suoi modi nobili, il suo spirito elevato, l’onestà delle sue analisi, la profondità e la bellezza delle sue parole. Il suo messaggio può anche essere scomodo, ma è fedele all’insegnamento del Vangelo, alle dottrine dei Padri della Chiesa e alle riforme del Concilio Vaticano II: invita ad andare oltre l’esteriorità delle cose, per concedersi la possibilità di guardare più a fondo, all’essenza stessa della vita e della fede».

A 11 anni il giovane Joseph «utilizza il tragitto verso casa “per ripetere quello che avevo imparato a scuola”, dopo il pranzo fa un breve riposino sul divano, dopo di che si dedica con cura ai suoi compiti. “Sa lavorare con grande intensità: tutto molto preciso, sempre in modo sistematico, racconta il fratello Georg secondo il motto: prima il dovere, poi il piacere”. ‘Per favore non disturbare’, recita una targhetta sulla porta della sua camera a Hufschlag. “In ogni caso era chiaro puntualizza il futuro papa che suddividevo il mio tempo, e che il tempo destinato al lavoro lo utilizzavo davvero per quello”». Seewald rileva anche l’abitudine appresa sin dall’asilo da parte di Ratzinger di preferire la matita alla penna per scrivere, così da poter aver sempre l’opportunità di cancellare. Un’abitudine che lo accompagnerà anche nella stesura dei suoi libri. «Tanto introverso poteva sembrare di natura, tanto estroverso si rivelò in seguito il Ratzinger professore quando si trattava di comunicare ad altri ciò che riteneva vero e importante. Da giovane – sottolinea Seewald – amava anche comporre poesie, ma soprattutto si sentiva chiamato a ‘trasmettere ciò che è stato conosciuto’, andando sempre più a fondo». E lo faceva coniugando mente e cuore, riflessione e dimensione affettiva «in modo emozionale riguardo alle esperienze interiori e spirituali, e in modo razionale nel momento in cui considerava il messaggio della fede anche come sfida intellettuale».

Una fede solida, quella dei Ratzinger, coltivata tra le mura domestiche sin dall’infanzia; così «più crescevano le pressioni della dittatura e la miseria generale, più si faceva intensa la devozione della famiglia. I genitori recitano insieme il rosario quotidianamente». Dopo cena tutti insieme recitano diverse volte il Padre Nostro e invocano la protezione di San Giuda Taddeo per una buona morte e quella di San Disma per essere liberati da ladri e criminali. In una famiglia modesta egli impara a «conciliare la vita con quello che è possibile e a trovare gioia nel poco che si ha: questo era in sostanza l’ora et labora della regola di san Benedetto». Di qui, quando diventa professore a Tubinga, devolve parte del suo stipendio per pagare gli studi ai suoi studenti più poveri; in seguito rifiuterà un pianoforte Steinway per il suo appartamento che la ditta gli avrebbe gentilmente offerto, come una valigia nuova da Lufthansa. Tra le sue doti si ritrovano anche tanta umiltà e riservatezza. Infatti «si percepiva che era un teologo geniale, ma non ha mai ostentato la sua peculiarità. Non ha mai nemmeno fatto pesare di essere il ‘capo’». Eppure a scuola i compagni lo chiamavano scherzosamente ‘Joseph l’onnisciente’.

Rispetto alla minaccia rappresentata dal poter di Hitler, Joseph scrive: «Nella fede dei miei genitori avevo trovato la conferma che il cattolicesimo fosse il baluardo della verità e della giustizia contro il regno dell’ateismo e della menzogna rappresentato dal nazionalsocialismo».

La sua passione per gli studi filosofici e teologici, in particolare per Sant’Agostino, del quale afferma: «Lo sento come un amico, un contemporaneo che parla a me», lo induce a condividere lo stesso anelito esistenziale del vescovo d’Ippona, ossia a divenir consapevole che «più conosci Gesù e più il suo mistero ti attrae; più lo incontri e più sei spinto a cercarlo».

Teologo illuminato e docente molto apprezzato, ritiene umilmente che il teologo non sia «colui che possiede un sapere intellettuale acquisito grazie a una serie di esami, bensì colui che realizza in sé la teologia, colui nel quale la rivelazione e il dogma […] sono divenuti forma di vita e forza di vita esistenziali-effettive». I corsi del professor Ratzinger sono seguitissimi; i suoi appunti per le lezioni «erano scritti nella stenografia che lui stesso aveva inventato e contenevano solo la traccia dei temi principali che intendeva trattare. In aula parlava a braccio, usando frasi molto chiare e ricche di immagini, con una qualità retorica senza eguali».

Ratzinger partecipa al Concilio Vaticano II in qualità di perito e ricorda la sua posizione di quegli anni in questi termini: «Certo che ero progressista. A quei tempi progressismo non significava rompere con la fede, ma imparare a comprenderla meglio e a viverla in modo più giusto, ripartendo dalle sue origini». Infatti egli nel contempo «era convinto che la sola intenzione di adeguarsi al mondo, senza trovare un giusto equilibrio con la tradizione, avrebbe condotto la Chiesa non a conquistare nuovi fedeli, ma a perdere se stessa».

Prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede e ‘braccio destro’ del Santo Padre Giovanni Paolo II, egli addita con profonda lucidità una strada precisa sulla scia del Divino Maestro per il cammino della Chiesa dinanzi alle sfide del mondo contemporaneo. Nelle dichiarazioni riportate fedelmente dal suo intervistatore il cardinal Ratzinger afferma in proposito: «Dietro la facciata umana della Chiesa sta il mistero di una realtà sovrumana sulla quale il riformatore, il sociologo, l’organizzatore non hanno alcuna autorità per intervenire. Se la Chiesa fosse solo un nostro artifizio, anche i contenuti della fede finiscono per diventare arbitrari; il Vangelo diventa il progetto-Gesù, il progetto liberazione-sociale, o altri progetti solo storici, immanenti, che possono sembrare anche religiosi in apparenza, ma sono ateistici nella sostanza. Dunque, ‘riforma’ vera non significa tanto arrabattarci per erigere nuove facciate, ma […] darci da fare per far sparire nella maggiore misura possibile ciò che è nostro, così che meglio appaia ciò che è Suo, del Cristo». Il porporato tedesco denuncia da subito una tentazione costante che la Chiesa di ogni tempo è chiamata a combattere, ossia «l’illusione di poter creare un uomo e un mondo nuovi, non col chiamare ciascuno a conversione, ma agendo solo sulle strutture sociale ed economiche».

Intelligenza acuta e limpida, capacità di amare nella verità e di render ragione e testimonianza alla Verità nella carità e con semplicità, zelo pastorale per ‘vicini’ e ‘lontani’ contraddistinguono Joseph Ratzinger anche quando diventa Benedetto XVI. D’altra parte sin da giovane sostiene che: «Essere amati e restituire amore agli altri l’ho sempre considerato fondamentale per poter vivere». Una santa e umile ingenuità confermata dalla testimonianza di una pellegrina bavarese, la quale riferì che «in lui non c’era niente di fittizio, nemmeno il suo sorriso; d’un tratto c’era solo un uomo la cui anima traspariva dai suoi occhi».

«La sua comunicazione era ancora spesso quella di un uomo da scrivania, la cui natura riservata e delicata non era progettata per adattarsi ai media». Più che una ‘comunicazione per slogan’, Papa Benedetto XVI preferisce infatti di gran lunga i contenuti, le argomentazioni per rendere ragione della speranza cristiana quale unica linfa capace di innervare la vita personale, comunitaria e sociale dei credenti. Giornali e stampa estrapolano invece di frequente alcune sue frasi per manipolare l’informazione e screditarne la figura dinanzi all’opinione pubblica. Lo testimoniano, per ricordare qualche esempio, gli attacchi ingiustificati alle sue dichiarazioni rispetto alla questione dell’uso del preservativo per debellare l’AIDS in Africa; le tesi negazioniste del vescovo Williamson sulla Shoà; il presunto poco rigore nella gestione dei casi di pedofilia nella Chiesa e il caso Vatileaks. Tutti pretesti per colpire Benedetto XVI e, con lui, infangare l’intera Chiesa.

Eppure egli, con silenzioso e paziente lavoro apostolico, continua fino alla fine nell’opera di ‘demondanizzazione’ della Chiesa, gettando le basi per una ‘nuova evangelizzazione’, alla quale contribuisce alacremente soprattutto con profonde encicliche, mirabili catechesi e la sua splendida opera Gesù di Nazareth: «Il suo obiettivo era di continuare a resistere, di rimanere scomodo, sconveniente, per dimostrare ancora una volta che la fede cristiana andava ben oltre qualsiasi cosa fosse collegata a una visione del mondo puramente mondana e materialistica, incluso il segreto della vita eterna». Perché «credere – diceva – non è altro che, nell’oscurità del mondo, toccare la mano di Dio e così, nel silenzio ascoltare la Parola, vedere l’amore».

Abbattuto ma non schiacciato, col perdono offerto al maggiordomo sorpreso a trafugare carte riservate nell’appartamento papale, «la questione per lui era chiusa anche a livello interiore», per dirla con le parole del segretario Mons. Gänswein. Completamente cieco all’occhio sinistro per la maculopatia e con un’artrosi al ginocchio destro che gli ostacola la mobilità, egli rassegna le proprie dimissioni con un’ammirevole libertà interiore, preoccupata solo di dar seguito al disegno misterioso d’amore del Padre. Così «il filosofo di Dio, il grande pensatore del soglio di Pietro, si era ritirato là dove la sola ragione non era sufficiente. Nella meditazione, nella preghiera». In questo modo «il pontefice tedesco ha infuso vita nuova nella dottrina e, così facendo, è stato un innovatore della fede che ha costruito ponti per l’arrivo del nuovo – malgrado possa sembrare che le cose siano ben diverse. Il suo successore sulla cattedra di Pietro ne è già certo: “Il suo spirito […] apparirà di generazione in generazione sempre più grande e potente”».

E, rispetto all’inedita missione di ‘papa emerito’, che ancora svolge nel nascondimento, Benedetto XVI dichiara al suo intervistatore, che essa consiste nel «servire la sede di un tempo nell’interiorità del proprio rapporto con Dio, nella partecipazione e dedizione della preghiera». Relativamente al rapporto con Papa Francesco, ammette infine che la sua amicizia con lui «è andata crescendo nel tempo».

 La biografia di Seewald, che dedica circa 900 pagine a raccontare la vita di Joseph Ratzinger prima della sua ascesa al soglio di Pietro, si legge piacevolmente come un romanzo perché dedica ampio spazio anche al contesto storico e a numerosi retroscena della Chiesa, dal dibattito teologico internazionale al resoconto del conclave, alternando sapientemente stralci dei discorsi pubblici a ‘confessioni’ private inedite dell’‘umile lavoratore nella vigna del Signore’.

Fonte: LaNuovaBussolaQuotidiana

 

‘E Dio fece il presepe’ nelle anime che lo ospitano

«Poi Dio fece una pausa e pensò dove fare il suo presepe. Decise per Betlemme. Immaginò le statuine: il bue, l’asino, le lavandaie, i pastori…E poiché non aveva fretta, diede a ciascuno di loro una stirpe: genitori, nonni, bisnonni…Centinaia di vite per creare ogni vita; centinaia di storie d’amore per ottenere il gesto, il tono di voce, la mano tesa nella posizione voluta per ognuno dei personaggi del presepe di Dio. Pensò a sua Madre: la sognò da tutta l’eternità. E con il desiderio delle sue carezze, iniziò ad abbozzare negli avi di Maria i tratti di quel fiore che a suo tempo doveva sbocciare».

Si apre così il bel racconto di padre Enrique Monasterio E Dio fece il presepe (Ares 2020, pp. 188), che custodisce la magia autentica del Natale. E in effetti, precisa l’autore, «Natale non è un anniversario, né un ricordo. Non è neanche un sentimento. È il giorno in cui Dio fa un presepe in ogni anima. A noi chiede soltanto di riservargli un angolo pulito; di lavarci le orecchie per ascoltare i canti di Natale degli angeli; di toglierci di dosso la sporcizia che si è accumulata». Si tratta di una palese allusione all’esigenza di vivere con fede il sacramento della Riconciliazione proprio per poter celebrare nella gioia il mistero della nascita del nostro Salvatore.

In un dialogo immaginario tra la creatura e il suo Creatore, è il Padre che si rivolge all’uomo con queste parole: «Ti concedo, inoltre, il dono che finora ho fatto solo agli angeli. Sarai capace di amare e di ricevere amore. Nel donare il tuo corpo donerai anche l’anima e tutto il tuo essere, come io stesso faccio. Potrai unirti alla tua sposa – come lei a te – con un amore fedele e fecondo. E quando dirai ‘per sempre’, sarà davvero così: amando sarai eterno, come lo sono io».

Protagonista del racconto è Oriente, una stella cometa, in verità nemmeno la più fulgida del firmamento, e c’è spazio per i diversi pastori del presepe, personaggi comuni e straordinari nelle loro fattezze: Maria, definita ‘il sogno di Dio’; Giuseppe, che rimane nell’ombra; gli arcangeli; la lavandaia Salomè, dietro la quale si cela il lavoro umile e nascosto di ogni casalinga; il pastore tonto Zabulone e l’albergatore Gioacchino che da un lato trova un po’ di spazio in una stalla per la Santa Famiglia, dall’altro chiede umilmente a Gesù di scacciare dalla sua anima eventuali ospiti indesiderati. Tra gli animali c’è l’asino Moreno cavalcato dall’arcangelo Raffaele, patrono dei viaggiatori, il quale gli si presenta così: «Ti conosco perché io ti ho disegnato migliaia di secoli fa, in Cielo, quando Dio ci spiegò che aveva bisogno di un trono per suo figlio e di una utilitaria per la sua famiglia della terra». Un asino docile, «di cui alcuni dicono che il Signore ha messo qui per riscaldare il Bambino con il mio fiato. Non è così: a Gesù basta il calore delle braccia di Maria. Io sono solo il trono del re e il primo giocattolo di un neonato, che ha già imparato a tirarmi le orecchie».

Nel presepe immaginato da Monasterio ci sono anche alcune statuine storte, che non si lasciano modellare dal Signore, tra cui Erode; e alcune rotte, a causa della efferata strage degli innocenti voluta da quest’ultimo, per la quale «il presepe di Dio si macchierà di sangue. Vedrai presto delle statuine in pezzi, moriranno prima di aprire gli occhi. Sono i più innocenti e Dio li ha creati per la vita». Si tratta di una realtà profetica ancora oggi purtroppo tragicamente visibile nei milioni d’aborti nel mondo.

Ogni personaggio ha qualcosa da insegnare, una storia da raccontare e testimoniare con la propria vita, una missione da compiere fino al conseguimento della pienezza di vita in paradiso. Infatti Maria custodisce in cielo sotto il suo manto ciascun personaggio del presepe fatto da Dio: «il pastorello tonto con le sue vesti accademiche; Salomè, ‘l’ancella dell’Ancella del Signore’ (come si chiama ora), incoronata come la sua Padrona; Simeone, con gli occhi pieni di lacrime e di stelle; l’asinello Moreno che aveva imparato a ragliare sinfonie e si accingeva a canticchiare la Nona di Beethoven; Gioacchino, il padrone della locanda che porta sempre il suo fanale in mano; i Magi con i loro cammelli e il rumoroso corteo degli innocenti che il povero Erode aveva mandato in Paradiso troppo presto».

 Nel suo nuovo avvento sulla terra «Dio Padre avrebbe preso dimora in mezzo a noi, non come a Betlemme, nascosto in fasce, fuggendo dai suoi nemici, ma come Re: nei soggiorni delle nostre case, nelle strade delle nuove città, nel lavoro gioioso delle botteghe, tra i libri degli intellettuali, nel clamore degli stadi».

E Oriente? Quale privilegio otterrà la cometa destinataria dei primi sorrisi del Bambino Gesù? Per scoprirlo bisogna leggere fino alla fine questo racconto significativo e poetico disponibile persino in giapponese di don Enrique Monasterio il quale, nel solco del carisma di San Josemaría Escrivà, ha compreso «davanti al presepe che si prega anche guardando, con l’immaginazione, con la fantasia, persino con i sogni».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Il Dio Bambino, tra santi e artisti devoti al piccolo Gesù

Dal Bambino Gesù di Praga a quelli di Siviglia e dell’Aracoeli a Roma, la pratica della devozione al piccolo Gesù Bambino è diffusa in tutta Europa, e non solo. D’altra parte «il rapporto del cristiano con Cristo, bambino o adulto che lo si voglia vedere, è per sua natura un rapporto di amore. Non solo, ma di un amore che tende all’identificazione, fino al traguardo segnato da san Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”».

Tale devozione ha radici molto antiche. Nel III secolo Origene scriveva: «Preghiamo Dio onnipotente e lo stesso Bambin Gesù, con il quale desideriamo conversare e tenerlo in braccio, affinché anche noi possiamo prendere il Figlio di Dio e stringerlo al cuore».

Lo evidenzia don Michele Doltz nel suo Il Dio bambino (Ares 2020, pp. 406), un’opera colta ma divulgativa, che coniuga la tradizione delle devozioni dei santi per Gesù Bambino – la quale si effonde in preghiere, meditazioni spirituali e canti liturgici celeberrimi quali Tu scendi dalle stelle di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori – con la storia iconografica del Bambinello nelle raffigurazioni di grandi artisti. In effetti, è paradossalmente proprio dalla figura di Gesù «depurata dalla superflua fantasia e addirittura dall’immoralità» dei Vangeli Apocrifi che emerge un’immagine di Lui quale «Piccolo Re che impone rispetto, che unisce all’innocenza infantile la potenza della divina regalità. È un Bambino che sa e che può tutto».

 La devozione a Gesù Bambino suscita un movimento del cuore di tenerezza e affetto che è alla base di meditazioni spirituali dense di carità e poesia, ma radicate nella concretezza di un evento che ha cambiato la storia. A tal proposito il cisterciense Nicola di Clairvaux, nei suoi sermoni di Natale, scrive: «O Betlemme, città del Dio altissimo, in te e nei tuoi dintorni si sono viste oggi cose meravigliose. Dio si aggrappa al seno, è deposto in una mangiatoia, viene avvolto in fasce, estende felice le sue mani e la braccine nella piccola culla, chiama la Vergine, sorride a Maria». Allo stesso modo San Francesco «nominando il Bambino di Betlemme oppure dicendo ‘Gesù’, si lambiva con la lingua le labbra, quasi a gustare la dolcezza di questo nome».

Gli fa eco San Bonaventura, che relativamente all’esigenza per il fedele di generare il Verbo spiritualmente così come la Vergine lo ha generato nella carne, scrive: «Dopo tale gioiosa nascita, essa comprende e gusta quanto è soave il Signore Gesù. In realtà è soave quando lo si alimenta di sante meditazioni, quando lo si lava con la fonte di devote e calde lacrime, quando lo si avvolge in vesti di casti desideri, lo si porta tra le braccia dell’amore santo, lo si bacia con frequenti sentimenti di devozione e lo si riscalda nel petto mistico del proprio spirito».

Nelle Meditazioni della vita di Cristo Cola, un altro francescano del XIII secolo, scrive parole di rara dolcezza in relazione alle premure della Vergine Madre verso il suo Bambino: «Mio Dio, di quanta premura e diligenza lo fa oggetto perché non gli manchi nulla. Con che devozione e delicatezza, con quale timorosità lo tratta, sapendo che è il suo Dio e Signore, quando inginocchiata lo prende in mano per adagiarlo nella culla. Ma con che gioia insieme e confidenza e diritto materno se lo abbraccia, se lo sbaciucchia, se lo stringe al petto con dolcezza e se lo gusta, sapendo che è figlio suo!».

Una devozione pienamente ‘incarnata’, dunque, spirituale e nel contempo estremamente concreta, che può contribuire a generare una consapevolezza profonda da parte della creatura di appartenere al suo Creatore. Di qui «salendo le scale del monastero dell’Assunzione, ad Ávila, Teresa racconta così l’incontro con un grazioso bambino che le domandò: “Come ti chiami?”. La santa rispose: “Io sono Teresa di Gesù”. E il bimbo: “Io sono Gesù di Teresa”».

«Da sua mamma, donna Assunta Cavaliere, – racconta ancora padre Doltz – il piccolo Alfonso de’ Liguori imparò l’amore a Gesù Bambino». Infatti «quando era già lontano dalla famiglia, la mamma gli regalò la sua statua del Bambino e ne fu così lieto che il 25 di ogni mese la faceva esporre nel coro attorniata da ceri, e davanti a essa i suoi discepoli meditavano sugli esempi di Betlemme e rinnovavano i loro voti». Lo stesso Sant’Alfonso predicherà ai fedeli che si preparano a vivere il Natale con queste parole: «Molti cristiani sogliono per lungo tempo avanti preparare nelle loro case il presepe per rappresentare la nascita di Gesù Cristo; ma pochi sono quelli che pensano a preparare i loro cuori, affinché possa nascere in essi e riposarsi Gesù Cristo. Tra questi pochi però vogliamo essere ancora noi, acciocché siamo fatti degni di restare accesi di questo felice fuoco, che rende le anime contente in questa terra e beate nel cielo». Il cantore di Tu scendi dalle stelle ama effondersi anche in numerose liriche accese d’amore per il Divin Figliuolo: «Io t’amo, o Dio d’amor, ch’essendo amante,/per farti amar da me nascesti Infante». Come rileva acutamente Oreste Gregorio, la meditazione alfonsiana esprime la consapevolezza che «la croce ha le sue radici nella culla; a Betlemme comincia il Calvario del Verbo fatto carne». Tra i santi più recenti merita di essere ricordata Santa Faustina Kowalska, la quale racconta il suo incontro mistico con Gesù, ripetendo frequentemente: «Vedo spesso il Bambino Gesù durante la santa Messa».

Il volume di don Michele Doltz approfondisce anche le ragioni teologiche di tale devozione e ne ripercorre le tappe fondamentali della storia iconografica attraverso un commento puntuale a immagini di statuine e dipinti d’autore, che testimoniano la bellezza di un affetto profondo da parte di artisti, santi e semplici fedeli verso Gesù Bambino.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Dio vive in Olanda, tra crisi di fede e semi di speranza

Sono trascorsi ormai dodici secoli da quando il monaco anglosassone Willibrord convertì i Frisoni, popolazione germanica che abitava l’attuale Olanda. Oggi l’arcidiocesi di Utrecht conta sulla carta solo 700mila cattolici. L’Olanda è infatti tra i Paesi più scristianizzati d’Europa e dell’Occidente, dove la Chiesa cattolica, un tempo gloriosa, fattasi alfiere dell’adeguamento al mondo, ha vissuto a partire dagli anni Sessanta una caduta impressionante.

Lo racconta Willem Jacobus Eijk – primate d’Olanda – nel recente volume-intervista a cura del giornalista Andrea Galli, Dio vive in Olanda – «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18, 8) (Ares 2020, pp. 136), che costituisce anche la prima biografia italiana dell’arcivescovo di Utrecht.

«La Chiesa in Olanda è libera dall’influenza dello Stato», proprio perché non riceve sussidi come l’8×1000 in Italia e ciò le consente sicuramente una maggiore libertà nell’esercizio del suo ministero. Senza soldi e con pochi fedeli laici diventa però difficile mantenere aperti e in buono stato gli edifici per il culto. Così «alcuni anni fa una parrocchia di una città dell’arcidiocesi ha dovuto chiudere in poco tempo 6 delle 7 chiese che aveva per evitare la bancarotta».

Rispetto alla recente pandemia, il vescovo di Utrecht ricorda che il fatto di esser «costretti a confrontarci con una malattia per cui non avevamo né una terapia né un vaccino, è stata l’occasione per prendere di nuovo coscienza del fatto che la nostra vita è nelle mani di Dio, della Divina Provvidenza».

Il cardinale Eijk racconta così la sua giornata tipo: «Mi alzo alle 5 e mezza, faccio la doccia, mi vesto e vado in cappella. Inizio il giorno con una preghiera a Dio e l’offerta di me stesso al Cuore Immacolato di Maria, per prepararmi al sacrificio della Messa, che inizio a celebrare tra le 6 e le 6 e un quarto, dopo di che mi fermo a meditare sulle letture del giorno, mezz’oretta, poi prego il breviario fino all’Ora Terza». Seguono la colazione, la lettura dei giornali, gli appuntamenti e le visite pastorali, il tempo per il Rosario pomeridiano e una breve passeggiata, la cena e una ventina di minuti per l’esame di coscienza davanti al tabernacolo prima di andare a letto entro le 23.

Figlio di madre cattolica e papà battista, Willem Jacobus viene battezzato a 6 mesi insieme alla sorella di 5 anni. Ma è la fede viva della sua maestra che gli fa conoscere Gesù. Così fa la Prima Comunione a 6 anni e da quel momento – afferma il presule – «il fuoco che lo Spirito Santo ha acceso in me mediante questa donna non si è mai più spento».

Affascinato dal suono dell’organo, ha imparato a suonarlo così come a servir Messa in qualità di chierichetto. Combattuto tra il desiderio di studiare medicina e quello di seguire Cristo sulla via del sacerdozio in seminario, diventa prima medico e, dopo alcuni giorni di esercizi spirituali, sostiene di non riuscire più a resistere «al desiderio di farmi prete».

Sacerdote, teologo morale e docente, è ordinato vescovo in un’Olanda che, com’è noto, ha fatto da apripista al suicidio assistito e all’eutanasia, all’infanticidio, ma anche alla liberalizzazione delle droghe. Tali politiche sono figlie della crescita economiche degli anni ‘60 e di «una cultura iper-individualista, che divenne secolarizzazione e accettazione di un’etica dell’autonomia, in base alla quale l’uomo ha il pieno diritto di disporre anche della propria vita».

Il declino della pratica religiosa nel Paese è invece successivo al Concilio Vaticano II. «Dal 1965 al 1975 – ribadisce il cardinale Eijk –  c’è stato un dimezzamento dei fedeli che andavano a Messa la domenica. Dopo il 1975 c’è stato un rallentamento ma non un’inversione di tendenza. Un’intera generazione di giovani ha lasciato la Chiesa nel giro di pochi anni e non ha trasmesso la fede ai figli, tranne eccezioni». Tuttavia se da una parte è innegabile che «adesso molta meno gente viene in chiesa», dall’altra occorre riconoscere che «quelli che sono rimasti sono più credenti e hanno una vita di preghiera, soprattutto se sono giovani».

Relativamente all’incontro personale con la croce, egli ricorda che «la tensione vissuta tra gli attacchi subiti (per le prese di posizione pubbliche su omosessualità e questioni bioetiche in ossequio al magistero della Chiesa, ndr) e le aspettative che sentivo su di me, non ha fatto troppo bene alla mia salute. Non voglio azzardare un rapporto di causa effetto, fatto sta che poco più di un anno dopo la mia ordinazione episcopale, mi trovavo in un monastero in Germania, mentre facevo colazione ho avuto di colpo una paralisi della parte sinistra del corpo e di una corda vocale. Si era verificata la rottura di un’arteria del cervello, con un infarto del tronco cerebrale». Ciò è stato motivo di grandi dolori e sofferenza.

Eppure, rispetto alla temperie culturale che imperversa anche nella chiesa olandese, egli denuncia apertamente che «le correnti della teologia morale che negano l’esistenza di norme assolute offrono alla gente delle soluzioni facili per le sfide che incontrano. Quello che descrive il Catechismo fa pensare al nostro tempo, anche al comportamento di coloro che sono chiamati ad annunciare la verità nella Chiesa. L’Anticristo alla fine dei tempi si manifesterà nella sua massima potenza, ma sappiamo che agisce già nel presente. Gesù ci ha messi in guardia nel Vangelo diverse volte. Il nostro compito è annunciare la fede e vivere la fede». Nella vita del cardinale Eijk tale annuncio si fa testimonianza credibile del Vangelo in un contesto culturale e sociale ostile, senza concedere spazio alla mentalità di questo mondo contraria ai gemiti dello Spirito.

Fonte: LaNuovaBussolaQuotidiana

 

Il segretario racconta il cardinale Biffi “privato”

Amabilità, schiettezza e semplicità, rapporti senza formalità, passione per la verità, zelo apostolico e soprattutto ironia e sano umorismo sono i tratti distintivi di Giacomo Biffi che emergono dal ‘ritratto familiare’ che ne fa Don Arturo Testi nel recente volume Giacomo Biffi. L’altro cardinale (ESD 2019, pp. 134). Nel suo racconto Don Arturo – primo segretario di Biffi a Bologna, quando quest’ultimo fu nominato vescovo sulla cattedra di San Petronio – ripercorre gli anni compresi tra il 1984 e il 1991. C’è ampio spazio per aneddoti e ricordi personali, ma soprattutto per lo spessore umano, teologico e pastorale del cardinale.

Dal suo carattere traspare una forma di umorismo che abbraccia ogni aspetto della vita, fino a indurlo ad ammettere con ironia che i tortellini bolognesi “sono ancora più buoni se mangiati nella prospettiva del Regno dei Cieli piuttosto che in quella di finire nel nulla”. Tuttavia l’unico vero umorista è Dio. Infatti “l’umorismo è arte rara – scrive il Cardinale –, e deve saper comporre in una sola attitudine dello spirito distacco e partecipazione, oggettivazione e coinvolgimento, trascendenza e immanenza; cosa che riesce bene solo a Dio”.

l suo senso dello humor emerge anche nelle battute di spirito quali: “Quando la visita pastorale in una parrocchia è finita e il vescovo è finalmente partito, il parroco ritrova la sua liberazione”; oppure: “Ricevo i poveri così non vengono a visitarmi per rubare”. E ancora, poiché amava leggere i gialli di Agata Christie, “quando li terminava, aveva anche un pensiero per il successivo lettore dello stesso libro: sul frontespizio, in maiuscolo, gli scriveva il nome del colpevole”. Biffi riusciva ad arginare con la sua ironia anche questioni ben più serie. Perciò così rispose a firme di illustri fiorentini che gli chiedevano di strappare dal muro della sua San Petronio la parte di affresco di Giovanni da Modena che raffigurava Maometto all’inferno, in nome della custodia del dialogo interreligioso: “Prendete tutti i codici che riproducono la Commedia ed espungete i versetti che riguardano Maometto. Poi passate agli incunaboli e quindi alle edizioni a stampa. Quando avrete terminato, non disturbatevi a scrivermi un’altra lettera. Più semplicemente telefonatemi. E allora io sicuramente farò la mia parte”.

Ubi fides, ibi libertas’, questo il motto del suo ministero episcopale. Una libertà, quella di Biffi, che scaturisce e si nutre della Parola di verità per fiorire nella pratica della carità di Cristo. In questa prospettiva si comprende meglio anche il senso profondo della ‘consulenza telefonica’ con Lucio Dalla sui poveri di Piazza Grande e la scelta di aprire per loro ogni sabato a mezzogiorno l’Arcivescovado, specialmente ai senza fissa dimora. Considerando suo maestro ideale il cardinal Charles Journet, Biffi richiamava spesso una sua espressione: “I confini della Chiesa passano dentro di noi”. La sua carità era orientata in particolare “ai preti ammalati, ai quali dedicava una visita prolungata e affettuosa”; mentre “nella Solennità dell’Epifania, dopo la celebrazione dell’Eucaristia, era solito visitare il reparto oncologico dei bimbi ricoverati all’Istituto Ortopedico Rizzoli, portando loro i regali della Befana”.

Salda era l’amicizia con don Giussani e don Lattanzio, che “erano i compagni abituali delle vacanze di don Giacomo”. Quest’ultimo racconta che nel 1969 erano tutti e tre al mare a Senigallia: “Ma mentre Giussani e Lattanzio erano in acqua a nuotare, io ero sotto l’ombrellone a scrivere. Mentre Giussani e Lattanzio erano davanti alla televisione per vedere l’allunaggio, io ero a tavolino a scrivere. Così durante il loro ozio io ho scritto Il quinto evangelo”, un testo che rivela una fede piena di benevolenza. In un’altra circostanza, mentre erano in vacanza a Caprera e stavano recandosi alla tomba di Garibaldi egli, conoscendo l’antipatia del Gius nei confronti di tale personaggio, con una battuta gli disse: “Una requiem aeternam non si nega a nessuno”. Ma Don Giussani manifestò ancora un accenno di contrarietà. Allora il Cardinale rimodulò la sua affermazione, invitandolo a pregare per tutti i defunti. Così finalmente riuscirono a pregare insieme.

Relativamente alla sua tenerezza, il suo segretario ricorda che “il suo sorriso insieme allo sguardo toglieva ogni timore, paura, stanchezza. Era sempre accompagnato dalla delicatezza nelle parole, anche quando mi indicava qualche mio sbaglio o qualche decisione che avevo preso con precipitazione e senza avere una chiara visione delle conseguenze”. Inoltre “era sempre puntualissimo nella Celebrazione eucaristica mattutina, nei pranzi e nelle cene, specialmente quando c’era il risotto alla milanese, nel leggere i quotidiani al mattino, prima della Messa, nel disbrigo della posta giornaliera”.

Don Arturo racconta ancora che Biffi “sedeva in auto sempre davanti e mai dietro. Qualcuno si sorprenderà, ma questo particolare mi ha provocato le sgridate delle guardie svizzere tutte le volte che il Cardinale doveva andare in udienza dal Papa: sia le guardie svizzere sia la gendarmeria pontificia volevano che lui si sedesse dietro, ma testardamente non ha mai accettato”.

C’è infine un’espressione, “Bologna, città sazia e disperata”, che gli viene solitamente attribuita, ma che in realtà egli non pronunciò mai. Fu coniata da un giornalista ed è divenuta poi icastica, poiché in effetti condensava in modo puntuale il suo pensiero.
Anche nella malattia egli seppe abbandonarsi alla volontà di Dio, nella certezza che stava per arrivare, per dirla con Sant’Ambrogio, il ‘Buon Padrone’.

Il Cardinale Biffi è stato dunque “un profeta – conclude don Arturo – nel senso che ha costruito la sua missione di teologo e di pastore sulla roccia, che è Cristo Signore. La persona di Gesù è stata sempre il punto di partenza e di arrivo di ogni sua missione”.

Fonte: LaNuovaBussolaQuotidiana

Chiti, il generale francescano sarà santo

Per Gianfranco Maria Chiti (1921-2004) si è conclusa a Orvieto la fase diocesana della causa di beatificazione e canonizzazione: il frate-soldato è stato proclamato ‘servo di Dio’. Un profilo biografico particolarmente documentato di questo straordinario candidato alla gloria degli altari è stato scritto dal generale dell’Aeronautica Militare Vincenzo Manca, Gianfranco Chiti. Il Generale arruolato da Dio (Edizioni Ares, pp. 256). Egli, attingendo a una mole impressionante di fonti, ricostruisce la ‘doppia vita’ di Chiti, prima ufficiale dei Granatieri di Sardegna e in tale veste combattente durante la Seconda guerra mondiale sul fronte dalmata e greco e poi in Russia; quindi la sua scelta di diventare religioso cappuccino maturata nel 1982 subito dopo il congedo dall’Esercito. Padre Rinaldo Cordovani ha invece raccolto nel volume Gianfranco Chiti. Lettera dalla prigionia (1945) (Edizioni Ares, pp. 240) le lettere inviate dal protagonista principalmente al suo cappellano militare, in cui emerge la grande umanità del generale che, nonostante la guerra e le asprezze della vita d’armi, riesce a coltivare le più autentiche virtù umane e una profondità interiore che manifesta sia in uniforme quando è chiamato a educare le nuove leve in Accademia, sia quando veste il saio e diventa padre di una moltitudine di figli spirituali nel suo nuovo ministero religioso e sacerdotale.

Ma che uomo è stato Gianfranco Chiti? Ufficiale nel Regio esercito, classe 1921, è medagliato al valor militare, a soli 21 anni, nella Campagna di Russia. Sotto la RSI salva numerosi partigiani ed ebrei, fra cui i torinesi Giulio Segre e suo padre. Con la Repubblica Italiana diventa Generale di Brigata dei Granatieri di Sardegna e riveste incarichi di primo piano nelle Scuole Militari e in Alti Comandi fra cui lo Stato Maggiore dell’Esercito a Roma. Congedatosi nel 1978, abbraccia dal 1982 un altro Ordine, divenendo religioso e sacerdote cappuccino del Convento di San Crispino a Orvieto, del cui restauro si fa personalmente carico donando ad esso tutti i suoi beni. Muore il 20 novembre 2004.

Fin dagli anni giovanili ha dato prova di una fede incrollabile in Dio e di una profonda devozione alla Madonna. Impegnato nel 1941 come sottotenente sul fronte jugoslavo dalla dura guerriglia imposta dalle forze slovene e croate, combatte con grande valore. Nonostante resti ferito agli occhi da una granata, l’anno successivo si offre volontario per la campagna di Russia partecipandovi col grado di Tenente. Un compagno d’armi testimonia il suo eroismo vissuto nel quotidiano, la sua carità: “Chiunque si recava al suo caposaldo si ritrovava inspiegabilmente in tasca qualche sigaretta, due biscotti, un pezzo di carne o un tocco di marmellata”. Ricoverato per congelamento, i medici decidono di amputargli un piede. Ma Gianfranco scappa dall’ospedale per non lasciare i suoi soldati e recupera miracolosamente l’uso dell’arto. In un altro frangente, ricevuti in consegna dai tedeschi una ventina di partigiani russi, fra cui vecchi, donne e bambini, perché siano fucilati, spinge alla fuga i prigionieri. Tra gli altri suoi gesti di grande umanità, durante una tragica ritirata, sprona e incoraggia molti dei suoi soldati che, stanchi e senza forze, vorrebbero fermarsi sul ciglio della strada ad attendere la fine; mentre se ne carica alcuni sulle proprie spalle per portarli via dal campo di battaglia. Medaglia d’Argento al Valor militare, fu declassato per aver militato nella Repubblica Sociale Italiana. Non gli viene dunque riconosciuta come valore la sua fedeltà alle gerarchie e agli ordini dei superiori, che Chiti intende onorare rimanendo al suo posto di ufficiale per continuare a servire il suo Paese nel miglior modo possibile. Così, pur avendo strappato dalla prigionia moltissimi partigiani ed ebrei, nell’immediato dopoguerra non gli è risparmiato il carcere, anche se dopo pochi mesi sarà liberato.

Le lettere inviate al suo padre spirituale Edgardo Fei dai campi d’internamento angloamericani del dopoguerra, ove fu prigioniero in quanto generale della RSI, rappresentano per Chiti un motivo umano di vicinanza e di consolazione spirituale. Così scrive al padre Fei dal Campo di Tombolo presso Pisa: “Grande consolazione la S. Messa a cui posso assistere ogni mattina e sostentamento immenso la S. Comunione”. In un’altra gli chiede: “Ricordami ogni mattina nella S. Messa e prega, prega per me e per chi come me soffre. Patisco incompreso in questa città immensa fatta di polvere, terra, filo spinato e telo”. In un’altra epistola lo rende partecipe di una riflessione sul senso delle proprie sofferenze: “Pensando a quanto deve avere sofferto il Signore che per volere troppo bene agli uomini fu crocifisso, sopporto tutto, sacrifici morali e materiali, direi quasi con gioia sicuro d’uscire da tanta prova più temprato alla vita futura”. Dal campo di internati di Laterina scrive ancora a padre Edgardo: “Ogni sera passeggio su e giù per il cortile e dico il S. Rosario. Il primo mistero lo offro alla Madonna Santissima per l’anima mia, il II° per la mia Patria, il III° per te, mio caro amico, il IV° per i nostri Caduti e il V° per i miei soldati”.

Il legame affettivo di Chiti con il suo padre spirituale è tale che gli confessa a cuore aperto: “Le tue lettere sono per me una vera scuola morale e sono lette e rilette più volte nella stessa giornata. Le tengo tutte raccolte e ogni mattina, dopo la breve meditazione che uso fare, ne leggo attentamente una. Ti prego ardentemente di non trascurare di scrivermi. Le tue parole sono per me alimento spirituale necessarissimo, e certe volte mi tendono una mano quando sto per vacillare e cadere”. Nel tempo della prova durante la prigionia, il generale rafforza la propria fiducia in Dio, nella consapevolezza che il Padre non abbandona mai i suoi figli: “Mi conforta il pensiero che Dio non manda mai le prove superiori alle nostre povere forze umane e che, dopo la tempesta, anche la più furiosa, spunta sempre il sereno”.

Nei campi d’internamento Gianfranco Chiti matura progressivamente anche una coscienza sempre più nitida della dimensione salvifica delle proprie sofferenze vissute unitamente a Cristo. Nel suo epistolario scrive: “Il dolore, il dolore che in questi momenti e in questi ultimi tempi mi ha lacerato l’anima. È Gesù che me li ha mandati per chiamarmi più accanto a Lui e per essere degno d’essere a Lui accanto nel santo Getsemani. E sento d’essere contento di soffrire e piangere, perché soffro e piango con Lui. E i miei dolori si confondono con quelli di Gesù Benedetto e la forza di Gesù diviene mia forza e sostegno”.

La sua fede incarnata si fa testimonianza feconda di frutti spirituali, come racconta al padre Fei quando gli scrive: “Insomma ho pregato, ho fatto tanto, che ieri sera ho ottenuto la grazia del Signore quando il mio amico mi disse: ‘Tenente, domani mattina mi alzo con voi, mi confesso e faccio la S. Comunione’”. L’ha testimoniata ancor di più una volta divenuto frate. Chiamato l’11 settembre 1993 a presiedere la liturgia in occasione del raduno nazionale nel cinquantesimo anniversario della Difesa di Roma e nella memoria dei Caduti di tutte le guerre, padre Gianfranco Maria Chiti si rivolge ai presenti con queste parole dal sagrato di Santa Croce in Gerusalemme a Roma: “Granatieri, cari Granatieri, questa è la consegna che dall’altare la parola di Dio ci affida. La fiamma del copricapo sia una rispondenza di una fiamma interiore di Carità (amore di Dio e del prossimo), di fede ferma in Dio nei destini della Patria e del mondo, di Speranza forte. Una fiamma che incenerisca il male, le fonti dell’odio, della violenza, del vizio, dell’errore, delle turpitudini che abbrutiscono l’uomo e avviliscono la nostra cultura cristiana. Solo così il sacrificio compiuto dai Caduti per la Patria sarà feconda semente per scongiurare altro sangue e donare ai giovani che ci guardano una vita migliore in sicura indipendenza e libertà”.

Fonte: LaNuovaBussolaQuotidiana

Peppe Diana, il sacerdote che si oppose ai Casalesi

«Occorre riscoprire quegli spazi per una ‘ministerialità’ di liberazione, di promozione umana e di servizio. Coscienti che il nostro aiuto è nel nome del Signore, riaffermiamo il valore anticipatorio della preghiera che è la fonte della nostra Speranza. Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie e in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa». Passa anche attraverso queste parole, pronunciate nel corso della sua seconda denuncia pubblica della camorra, l’impegno profetico di don Giuseppe Diana (4 luglio 1958 – 19 marzo 1994), detto Peppe, disposto a essere segno di contraddizione in un territorio avvelenato dalla malavita organizzata.

«Basta con la dittatura armata della camorra», tuona ancora in un altro suo accorato appello, dopo l’ennesima uccisione di un innocente per errore da parte del clan dei Casalesi. Il giovane sacerdote fa sentire la propria voce senza timore. «Non sapeva, forse, che questo era il suo destino. Si riconosceva solo un povero ma solerte lavoratore nella vigna del Signore. Metteva volentieri tutta la sua vita e tutta la sua cultura nella missione universale della sua Chiesa», scrive il vescovo Raffaele Nogaro: «E per la libertà del tuo popolo e per l’amore della tua terra ti hanno immolato».

Anche questa preziosa testimonianza confluisce in Don Peppe Diana e la caduta di Gomorra del giornalista Luigi Ferraiuolo, recentemente pubblicato dalla San Paolo, che racconta la vicenda, il ministero e il martirio di don Giuseppe Diana, evidenziando le ferite del contesto sociale in cui maturò il suo omicidio: «Erano le 7.30 del mattino del 19 marzo 1994, giorno del suo onomastico. La risposta arrivò subito, forte e chiara, come suo solito: “Sono io don Peppe”. Giuseppe Quadrano sparò quattro colpi di pistola al sacerdote che si stava vestendo per la Messa e andò via, tranquillamente come era entrato». Eppure, «dal sangue di don Peppe e di altre 353 vittime sono nati centri sociali, case famiglia, ostelli, realtà per aiutare persone con autismo o disabili o sole, isole ecologiche, associazioni sportive, ristoranti, negozi, agriturismi. Una ribellione collettiva e sempre più forte alla camorra, sfidata nella sua stessa terra e inizialmente con scarso supporto delle istituzioni», come ha osservato Elisabetta Soglio nella prefazione.

Don Peppe ha pagato in prima persona anche la propria decisione «di negare un funerale pubblico a un camorrista, parente del killer che poi lo avrebbe ucciso per conto dei boss», come scrive Ferraiuolo. «In poco più di tre anni, dal luglio del 1991 al marzo del 1994, egli ha saputo insegnare con coraggio e convinzione alla comunità casalese e al mondo che la camorra non aveva ragione e che i clan erano il male. Gli era chiaro che il contesto in cui si viveva nel Casalese era corrotto, amorale, violento e sanguinario». Per questo motivo «don Peppe Diana doveva morire, perché si era spinto troppo avanti. Perché aveva parlato troppo, aveva aperto troppe menti, troppi cuori, troppi occhi. Perché non si potevano impartire i sacramenti ai camorristi, agli assassini. Era diventato troppo esemplare, nel cuore della testa della camorra, perché potesse sopravvivere. Se non fosse stato ucciso quel 19 marzo, per i disegni di Nunzio De Falco e l’opposizione al funerale del parente di Quadrano, sarebbe stato ucciso poco dopo, perché la sua stessa presenza fisica avrebbe intralciato gli affari dei boss. Era una conseguenza diretta della sua predicazione pubblica cominciata anni prima, tra il 1988 e il 1989, e divenuta palese nel luglio del 1991», quando aveva tuonato contro la dittatura armata della camorra.

A 25 anni dalla sua morte, monsignor Lorenzo Chiarinelli ha voluto lanciare «un accorato appello alla popolazione, meglio ai camorristi: O terra amata che conosci il sudore, le sofferenze e le lacrime della nostra gente; o terra bagnata di sangue di non pochi tuoi figli, e ora, da ultimo – che sia veramente l’ultimo – dal sangue di un tuo figlio, ministro di Cristo e della Chiesa, spezza la spirale di follia omicida, ricrea spazi di serenità e fiducia per i tuoi giovani, rifiorisci in messe abbondante di giustizia e di pace… Nessuno in mezzo a te tradisca mai più questa speranza. Il nostro martire don Peppino ha seminato per il futuro».

Nel visitare la sua tomba per omaggiarne la figura, monsignor Angelo Spinillo, vescovo di Aversa, «ha riconosciuto in don Peppino l’impegno e la generosità di tanti, sacerdoti e fedeli laici, che in questa nostra terra vivono e donano speranza». Durante l’Angelus del 20 marzo 1994, il giorno seguente la sua uccisione, il Santo Padre Giovanni Paolo II pregava così: «Voglia il Signore far sì che il sacrificio di questo suo ministro, evangelico chicco di grano caduto nella terra e morto, produca frutti di sincera conversione, di operosa concordia, di solidarietà e di pace». Le tante realtà associative e caritative fiorite a Casal di Principe e non solo, nel solco della sua testimonianza di vita spesa per il Vangelo, testimoniano senza dubbio una condivisione del suo anelito di fede, giustizia e carità.

Fonte: LaNuovaBussolaQuotidiana

“La grazia di vivere la grazia”. La sorella racconta Chiara

“Una ragazza spontanea, dalla battuta pronta, col sorriso sulle labbra. Amava viaggiare, scherzare e stare tra la gente. Parlava della sua fede, incarnando il Vangelo in tutto quello che faceva, certa che il Signore fosse al suo fianco”. È ricordata così Chiara Corbella Petrillo, ora Serva di Dio, nelle parole dette da sua sorella Elisa nel corso di una testimonianza pubblica. “Più che parlare, Chiara riusciva ad ascoltare l’altro e a dire a chi incontrava anche soltanto una parola, essendo ella stessa in ascolto delle ispirazioni che lo Spirito Santo le suggeriva”.

La sorella Elisa lascia principalmente che sia Chiara stessa a parlare in un video esclusivo del suo ultimo viaggio a Medjugorje, quando era già divorata dal tumore alla lingua. Le parole di Chiara risuonano così tra le immagini del suo matrimonio, dell’incontro con lo sposo terreno, Enrico Petrillo, e quelle dei suoi funerali nell’incontro con lo Sposo celeste. Chiara racconta con la simpatia e l’ironia che la contraddistinguono l’incontro con Enrico, avvenuto proprio lì a Medjugorje, i litigi, la breve interruzione del suo fidanzamento, il desiderio e la decisione comune di sposarsi. Di qui alla gioia della prima figlia, Maria Grazia Letizia, anencefala, vissuta solo 30 minuti; alla grazia di avere subito un altro figlio, il piccolo Davide Giovanni, con gravi problemi agli arti inferiori e malformazioni agli organi interni, che vivrà sulla terra solo 38 minuti. Rispetto a tale doloroso epilogo, Chiara afferma con una serenità e una pace interiore disarmante: “Non ci è sembrato poco il tempo che abbiamo passato con loro, perché ogni momento passato con loro ci ha riempito e siamo usciti pieni del loro amore”.

Passano pochi mesi ed essi “rimangono incinti del terzo figlio” – come Chiara stessa afferma – cioè Francesco, perfettamente sano. Questa volta però è la sua mamma ad ammalarsi e a scegliere di posticipare le cure, in particolare il secondo intervento che le avrebbe comportato l’asportazione di una parte della lingua, a qualche giorno dalla nascita di Francesco, proprio per non comprometterne la salute. E così Chiara sopporta chemio e radioterapia e si sottopone alle cure necessarie “con la serenità che Dio avrebbe fatto della sua vita un qualcosa di più grande di quello che ella stessa avrebbe potuto immaginare”.

In quel suo ultimo pellegrinaggio terreno nel luogo delle apparizioni mariane, Chiara è lì per “chiedere la grazia di vivere la grazia” (c’era già tornata dopo essersi lasciata con Enrico per comprendere la propria chiamata all’Amore in dialogo col suo Signore), ossia per comprendere se il Signore desideri la sua guarigione o che raggiunga in cielo gli altri due figli per realizzare un bene più grande, in conformità al disegno del Padre. Chiara è anche fermamente convinta, nello stesso tempo, sia che “a ogni tribolazione corrisponde una consolazione perché Dio non ci lascia soli nel dolore”, come ricorda sua sorella Elisa, sia che “se uno si lascia amare dal Signore può fare tutto”.

Nel rievocare le ultime ore della vita terrena della sorella, Elisa ricorda infine che “Chiara, nel suo ultimo respiro, è come se avesse spiccato il volo e si può spiccare il volo così solo se si è sicuri che Qualcuno ti prenderà”. E lei lo era. Perciò al suo matrimonio, come al suo funerale, si piange e si gioisce, “suonano le campane e cantano gli angeli nel ciel”.

Fonte: LaNuovaBussolaQuotidiana

Reliquie, la scienza conferma la tradizione agiografica

“Nella tradizione cristiana le reliquie esercitano la loro potenza di rassicurazione, incoraggiamento e protezione. Il corpo è condizione reale dell’incontro con Dio perché è proprio attraverso il corpo di Gesù che si entra nel Mistero. La devozione verso le reliquie diventa un modo con cui la nostra fede riconosce nella storia, nel vissuto, nel soffrire, nel morire di alcuni fratelli i segni di un martirio che può incoraggiarci a sopportare il nostro martirio. Le reliquie ci dicono che ognuno di noi può essere santo conservando la fede attraverso una grande tribolazione”. Con queste parole Mons. Mario Delpini, Arcivescovo di Milano, ha sottolineato l’importanza del culto delle reliquie, talvolta liquidato come un retaggio del passato legato a vacue forme di superstizione.

Eppure la venerazione delle reliquie consente alla fede di non scadere nel devozionalismo e di radicarsi saldamente nella carne e nel sangue dei suoi testimoni concreti di ieri e di oggi. Nel solco di tale consapevolezza si colloca la recente ricognizione scientifica delle ossa dei santi Ambrogio, Gervaso e Protaso, che ha confermato le radici storiche e spirituali della tradizione ecclesiale milanese.

Nel corso di tre mesi intensi un team di ricercatori coordinato dalla prof.ssa Cristina Cattaneo – Ordinario di Medicina Legale dell’Università Statale di Milano e direttrice del Centro LabAnOf dello stesso Ateneo – ha avuto modo di studiare diversi materiali in archivio e le fonti storiografiche, di effettuare un accurato esame antropologico dei resti di Ambrogio, Gervaso e Protaso, valutando lo stato di conservazione sia degli scheletri che del sarcofago in porfido che li ha custoditi.

Le reliquie di Ambrogio, Protaso e Gervaso sono state riscoperte nel 1864, grazie a Mons. Francesco Maria Rossi, che nel 1871 consentì l’apertura del sarcofago di porfido rosso pesante ben 2300 chilogrammi che le custodiva. Ma la loro storia è naturalmente ben più antica: nel 386 Ambrogio rinvenne i corpi di due martiri del II secolo, Gervaso e Protaso, e volle che fossero custoditi nella cripta della basilica in un’urna che di lì a poco, nel 397, avrebbe accolto anche le proprie spoglie.  Relativamente alle cause della morte dei santi martiri di cui egli stesso promosse il culto, il vescovo di Milano racconta in maniera piuttosto verosimile che “tutte le ossa erano integre, molto il sangue” (Epistola 77), narra di “reliquie inviolate, ma di un capo staccato dal tronco”. In realtà è un’epistola anonima pseudo-ambrosiana della prima metà del V secolo a raccontare il martirio di Protaso e Gervaso, due fratelli probabilmente gemelli, figli del luogotenente Vitale. In tale lettera si legge in particolare che Gervaso fu colpito mortalmente da un flagello piombato, mentre Protaso venne decapitato. La loro fedeltà a Cristo fino alla morte rifulge gloriosa insieme a quella del loro padre nei mosaici della basilica ravennate dedicata proprio a quest’ultimo.

Esaminando con approfondimenti diagnostici poco invasivi gli scheletri di Ambrogio e dei due martiri, un’équipe di fisici, chimici, biologi e antropologi, ha raccolto una grande mole di dati che ne avvalora la tradizione agiografica. La costruzione di modelli digitali in 3D, l’uso delle tecniche di fluorescenza, l’impiego di raggi X e Tac e persino l’analisi del tartaro dentale, hanno permesso di far emergere infatti particolari inediti e preziosi. Sono state le monache benedettine di Orta San Giulio a occuparsi in prima persona della delicata fase di svestizione delle reliquie e del restauro dei paramenti sacri dei santi. Altre tecniche avanzate di restauro hanno consentito di sostituire i fili metallici che tenevano insieme tutte le ossa di ciascuno scheletro con dei fili di nylon decisamente meno invasivi, in modo da scongiurarne il deterioramento, al quale ha contribuito in parte anche la foratura praticata durante la precedente ricognizione al fine di mantenere lo scheletro in uno stato d’immobilità.

I risultati di tre mesi di studio e campionature sono davvero sorprendenti e attestano che i resti di Ambrogio sono quelli di un uomo di età compresa tra 54 e 64 anni, alto 1.68 cm, con una marcata asimmetria del volto, come testimoniato da uno dei primi mosaici che lo ritrae nella cappella di San Vittore in Ciel d’oro, e una frattura alla clavicola destra, probabilmente dovuta a una brutta caduta verificatasi quando era giovane, che doveva procurargli non pochi dolori nei movimenti.

L’esame degli scheletri dei due martiri Gervaso e Protaso ha rilevato invece difetti congeniti alle vertebre, tali da avvalorare la tesi della consanguineità tra i due. Inoltre entrambi risultano molto giovani, di età compresa tra i 23 e i 27 anni e alti oltre 1.80, un’altezza decisamente notevole per l’epoca. Protaso presenta inoltre segni di lesioni da taglio tra le vertebre cervicali, che alludono chiaramente alla sua decapitazione; e peculiari lesioni alle caviglie, forse da costrizione forzata; mentre lo scheletro di Gervaso mostra lesioni da difesa e fratture costali, oltre a segni sospetti di tubercolosi ancora in corso di studio.

Infine le indagini microbiologiche delle alterazioni cromatiche sulle ossa hanno rivelato che non vi è nessun attacco microbiologico in atto, per cui il loro stato di conservazione rimane sostanzialmente buono. Resta ancora da attendere il risultato degli esami genetici, che sicuramente forniranno ulteriori delucidazioni all’insegna dell’ormai indubbia convergenza delle indagini scientifiche con la tradizione agiografica.

Fonte: LaNuovaBussolaQuotidiana

Festa dei Popoli 2017: “farsi migranti con i migrati” per ricevere e dare

“Costruiamo ponti e non muri”. É ripreso da un’espressione ripetuta frequentemente da Papa Francesco lo slogan dell’edizione 2017 della “Festa dei Popoli”. In apertura di questa significativa occasione di incontro tra diverse comunità etniche si è tenuto un forum di riflessione presso il Pontificio Seminario Romano Maggiore sul tema: “Comunità migranti, Chiesa e Città di Roma: donne in dialogo per l’integrazione tra i popoli”. “Integrare è farsi prossimo delle ferite umane, creare una casa comune in cui nessuno è straniero”. Sono queste le parole di suor Ana Paula Ferreira, una suora missionaria consacrata nel carisma di Scalabrini, la quale ricorda che “accogliere è superare preconcetti per imparare insieme la comunione voluta da Dio”. Suor Ana Paula si sofferma poi sul contributo che, come donne, si è chiamati a dare alla Chiesa, “vivendo la dimensione dinamica e comunitaria della fede”. “La donna è educatrice e annunciatrice del Vangelo, perché nella donna vince sempre la vita, che ella ha il compito di difendere, accogliere e custodire”. Occorre allora, secondo la missionaria scalabriniana, “farsi migranti con i migranti, aiutandoli a superare le difficoltà legate soprattutto all’inserimento in un nuovo contesto”.

“Il dialogo è una forte vocazione della nostra epoca. Bisogna tener conto che nelle zone metropolitane di Roma i migranti residenti sono 12% della popolazione, per il 70% cristiani”, rileva invece una rappresentante della Fondazione Migrantes della Diocesi di Roma. Ella sottolinea come costoro siano accomunati a noi “dalla stessa paura di perdere la propria identità”, mentre hanno anche quella del rischio del fallimento del proprio progetto migratorio. In riferimento alla società italiana, ella evidenzia che noi “siamo una cultura chiusa che non investe nel proprio patrimonio culturale e non fa figli”. Per questo motivo diventa vitale “favorire lo scambio di valori e tradizioni per costruire comunità etniche in relazione e integrate nel tessuto sociale locale, custodendo ‘il dovere dell’identità, il coraggio dell’alterità e la sincerità delle intenzioni’, come ha ricordato Papa Francesco durante la sua visita pastorale in Egitto.

Elena Tonka parla invece per la comunità ucraina: “Siamo un popolo umile, laborioso, da tre anni molto ferito. Ringrazio il popolo italiano e la chiesa di Roma per averci accolto a casa vostra. Siamo in 15.000 a Roma”. Elena sostiene inoltre che bisogna lavorare insieme affinché ci sia presto un accordo bilaterale di sicurezza sociale, poiché attualmente al lavoratore ucraino non viene riconosciuta la pensione degli anni contributivi maturati in Italia, una volta ritornato nel proprio paese natale. Tra i suoi suggerimenti pratici, ella invita a “organizzare corsi di italiano a livello più avanzato e ad aprire sportelli d’ascolto di madrelingua ucraina, poiché abbiamo tanto da mostrare e altrettanto da imparare. E questo lo dobbiamo ai ragazzi ucraini che hanno perso la vita per difendere la democrazia”. Con grande ironia e simpatia Zenaida Villanos Baro racconta invece che “per gli italiani la filippina è la domestica, anche se viene dallo Sri Lanka!”. Stanca di fare questo mestiere, ella ha deciso di iscriversi a ingegneria civile, perché consapevole dell’importanza dell’istruzione. Quindi Zenaida fa un appello molto semplice alla sua comunità: “Continuate a essere onesti!”, un pregio che certamente viene riconosciuto al suo popolo dagli italiani. Patricia Bovadin, giovane laureata peruviana che rappresenta la comunità latino-americana, così si esprime: “Roma è una grande casa dentro cui c’è il mondo. Nella chiesa di Santa Maria degli Angeli condividiamo la lectio divina, ma anche le difficoltà. Chiediamo alla città maggiore attenzione alla nostra realtà, più centri di ascolto e di sostegno psicologico per quei giovani che si sentono dire a scuola di essere deboli, poveri e arretrati”. Con fermezza esorta poi in un appello i suoi connazionali: “Non siate spettatori passivi della società che ci circonda, ma portare la vitalità del Vangelo nella vostra quotidianità”.

“Il Signore c’ha dato il dono profondo di essere fratelli e vogliamo esserlo anche per i membri della comunità romana, perché siamo tutti figli di Dio sotto lo stesso tetto”, dice Cecilia Agyeman Anane, portavoce del Ghana, che ci tiene ulteriormente a precisare: “L’Africa non è quella che vedete per televisione, noi abbiamo tanto calore, perciò siamo tanto rumorosi! Ho amiche italiane che sono per me come sorelle. Noi conferiamo massimo rispetto allo straniero che viene da noi”. E se da un lato invoca un maggiore sostegno della società civile nella ricerca di case e lavoro, dall’altro riconosce che Roma è “bellissima, ma disgraziatamente burocratica”. “Nella Repubblica Democratica del Congo è in atto un cruento massacro. Per questo motivo il 30 giugno faremo una manifestazione per dire no alla morte”, annuncia invece rammaricata una rappresentante congolese. Infine nel suo intervento l’europarlamentare Silvia Costa riconosce di “aver imparato moltissimo dalla straordinaria forza delle donne migranti”. Ella ricorda altresì i nomi dei sacerdoti che si sono spesi o si spendono quotidianamente per tutti i migranti, in particolare mons. Perego, mons. Di Liegro e mons. Musaragno, “il primo a chiamare i giovani migranti ‘studenti esteri’ e non ‘stranieri’”. Ella si sofferma naturalmente sull’impegno della politica per la tutela dei diritti di queste persone, “costruendo percorsi di cittadinanza sociale e giuridica”, nella consapevolezza che “i diritti umani, principio e fondamento di ogni civiltà, vengono prima di quelli giuridici”.

Ad amplificare e fare eco a questo coro di voci femminili anche quella di Mons. Paolo Lojudice, vescovo ausiliare di Roma, durante l’omelia della Santa Messa che ha celebrato alle ore 12,30 nella Basilica di San Giovanni in Laterano. “La Chiesa è questo, siamo noi, che proveniamo da più esperienze, paesi e nazioni. La festa dei popoli è allora la festa della Chiesa, perché i popoli non sono altro che l’unico popolo di Dio, cioè la Chiesa”. E in riferimento alla pagina del vangelo di oggi, nella quale emerge la promessa di Gesù di non lasciarci orfani, egli ricorda che “nessuno sarà mai senza padre e lasciato a sé, ma ciascuno avrà sempre una comunità in dialogo, la Chiesa”. Per questo motivo bisogna “costruire ponti e non muri”. Papa Francesco ripete costantemente tale espressione, secondo il presule, “un po’ come fanno i genitori con gli adolescenti, perché si comprenda il messaggio”. Infatti “costruire i muri ci fa dimenticare che ogni uomo è mio fratello, perché Dio è padre di tutti. È sull’accoglienza dell’altro che si misura la nostra dignità umana”. Perciò, conclude mons. LoJudice, “cerchiamo di costruire i ponti, difendendo la giustizia sociale per ciascun migrante come per i membri della nostra comunità e imparando a non stare zitti quando si parla male di loro. Il paradosso della nostra società è che riusciamo ad andare su Marte e non riusciamo ad accogliere dignitosamente uno straniero. Chiediamo allora al Signore che ci aiuti a superare le paure, le fatiche, affinché ogni giorno vissuto sia un dono ricevuto e un dono offerto, perché questo è il Vangelo: ricevere e dare”.

Fonte: FarodiRoma