«Questa sarà per noi la vita eterna: conoscere Dio come lui si conosce, amarlo come lui si ama. In cielo tutta la Trinità abita nell’anima dei beati come in un tempio di gloria in cui è conosciuta e amata». Gloria e grazia sono il fine della vita cristiana; il male, il peccato e le sue conseguenze ne sono gli ostacoli; la sorgente è Cristo e la sua opera redentrice. Sono queste le tre direttrici delle meditazioni degli esercizi spirituali predicati dal padre domenicano Garrigou-Lagrange, ora raccolte nel volume Vita spirituale (ESD 2022, pp. 240).

Se il fine dell’uomo è la comunione perfetta nell’amore divino, di cui è preludio sulla terra la vita di grazia, il peccato è follia, un «puerile capriccio e la più nera ingratitudine» che induce ad anteporre la propria volontà alla volontà di Dio, ostacolando il ‘sì’ alla chiamata del Padre che vuole attirarci a sé. Allo stesso modo il peccato veniale, anche se «non distrugge la carità, la paralizza nella sua azione e nel suo sviluppo, la raffredda, ne ostacola il volo. Non dà la morte all’anima, ma la lascia senza forze e senza energie per il bene».

Per arginare le seduzioni del peccato occorre allora «la forza dell’azione redentrice di Cristo» che, mediante la sua grazia, «lavora in noi assimilandoci a sé e insegnandoci a cooperare alla sua azione», se glielo consentiamo. D’altra parte, «l’amore di Dio per noi è eccesso e follia», scrive padre Garrigou-Lagrange, evidenziando come il Creatore «ci ha creati per puro amore di benevolenza» e ci ha ricreati nel suo Figlio attraverso la follia della croce, «riparazione della follia del peccato», paradosso di un «Dio, offeso, che muore per la creatura colpevole che lo disprezza e fugge da lui». Insomma, per dirla citando le parole di Cristo alla mistica sant’Angela da Foligno, «non è per scherzo che ti ho amato». Un amore al quale non è bastato versare il sangue, ma «ha voluto essere mangiato da noi per poterci ancor più trasformare e assimilare a sé».

A tale fiamma divorante di carità rispondono proficuamente i santi che «si son fatti ‘cibo’ di Dio» con la loro vita. Tra le fila numerose di costoro c’è spazio non solo per Domenico di Guzman e Tommaso d’Aquino, ma anche per Caterina da Siena, Giovanni della Croce, Teresa d’Avila, Margherita Maria Alacoque e Benedetto Labre, di cui il padre domenicano riprende volentieri citazioni ed episodi significativi della vita. Volendo precisare la natura della carità verso i fratelli, Garrigou-Lagrange se da un lato rileva che «l’amore naturale ci fa amare il prossimo per i benefici che ne abbiamo ricevuto o per le sue buone qualità», dall’altro evidenzia che è «la carità che ce lo fa amare per Dio, perché è figlio di Dio o chiamato a diventarlo». Con grande acume teologico, egli sottolinea ancora in proposito che «in realtà la carità ama non solo Dio nell’uomo, ma anche l’uomo in Dio e per Dio, poiché ama ciò che egli deve diventare: parte eterna del Corpo mistico di Cristo». In buona sostanza, «la carità ama l’uomo in se stesso, con lo stesso amore con cui ama Dio», per cui abbraccia ogni uomo sulla terra, in purgatorio o in paradiso; «si arresta solo dinanzi all’inferno» relativamente ai dannati.

Per alimentare il fuoco della carità è necessario mortificare nella gioia e sempre per amor di Dio soprattutto egoismo e volontà propria, ma anche l’orgoglio spirituale. Bisogna inoltre custodire l’umiltà, perché «davanti a Dio è meglio fare un errore di grammatica che mancare di obbedienza e di umiltà» (San Tommaso d’Aquino), e la povertà di spirito «per non invidiare le grazie date ad altre anime e spogliarci dei nostri meriti». È necessario poi imparare ad abbracciare la croce, «proporzionata al grado di gloria al quale Dio vuole condurci». Rispetto a tale esigenza Garrigou-Lagrange osserva che la sofferenza è un potente mezzo di salvezza che, associandoci all’opera di redenzione del Signore, «ci spoglia dei beni sui quali avevamo concentrato la nostra affezione, e misericordiosamente viene a domandarci per sé questa parte di amore che non pensavamo di dargli».

 Inoltre, affinché preghiere e opere siano perfette, è necessario che «lo Spirito Santo intervenga abitualmente» e che si sia docili alla sua voce, rivolgendosi al Padre come il pubblicano, perché i misteri più reconditi di Dio sono riservati agli umili. Per il padre domenicano, «la preghiera è il vero strumento d’azione, il più potente; essa è la prima condizione e l’anima della vita apostolica», per cui «l’apostolato della preghiera deve costantemente sostenere quello della parola e dell’azione», in special modo dei religiosi chiamati ad aver «sete delle anime fino a morirne».

Il fine della vita interiore è dunque l’unione della creatura con il suo Creatore, intesa quale «riposo dell’anima in Dio, che vi si trova e vi si fa sentire sempre presente, pur tra le fatiche e le sofferenze». I mezzi per custodirla sono la perseveranza nell’umiltà e nell’amore, la devozione a Maria e la comunione quotidiana che alimenta i doni dello Spirito, rende operosa la carità e accresce lo zelo per la salvezza delle anime a maggior gloria di Dio. Vissuta così, la vita interiore fiorisce, gode la pace del cuore e viene gustata realmente quale «principio della felicità del cielo».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

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