Senza diritto naturale non c’è giustizia, de Tejada conferma

«Sotto l’orizzonte della civiltà cristiana il singolo è irriducibile al tutto sociale in quanto dotato di un destino d’immortalità». È tale consapevolezza a illuminare il legame tra diritto naturale e giustizia al centro di Filosofia del diritto pubblico (Jovene 2022, pp. 225), una raccolta di saggi significativi del filosofo giusnaturalista spagnolo Francisco Elías de Tejada con una preziosa introduzione del professor Giovanni Turco.

Di qui, sulla scia della tradizione aristotelico-tommasiana, «dato il carattere sociale dell’uomo, la politica è arte regolatrice in vista di un adeguato sviluppo, conferma alla vita autenticamente umana», come osserva Turco relativamente all’analisi tejadiana. Il diritto si configura allora quale condizione della politica, per cui non c’è separazione tra i due ambiti, come accade invece nella tradizione moderna, che oscilla tra il primato del legale (Kelsen) e quello del politico (Schmitt), in cui è l’autorità di chi governa a dettar legge emanando norme in ossequio esclusivo alla sua volontà di potenza.

E in effetti lo ‘Stato di diritto’, «quello che sminuisce l’uomo alla pura condizione animale, eludendo la dimensione trascendente, è un attentato alla dignità dell’essere umano», scrive de Tejada. E ciò lo si constata anche oggi drammaticamente in tante leggi inique. Perciò occorre ripristinare uno ‘Stato del diritto’ quale «ordinamento giusto, nella misura in cui è il primato del bene comune a determinare il giusto legale e questo dà compimento a quello» – come sottolinea ancora Turco nel commento al contributo speculativo del giusfilosofo spagnolo – perché la politica non può esser ridotta né ad attività amministrativa, né di governo, né all’operatività dello Stato.

Il realismo del pensiero dell’Aquinate viene ripreso con grande chiarezza da Tejada: «La società è il risultato del desiderio della socialità, il potere politico è l’ordinazione naturale di quella società che la natura umana impone e la politica è l’arte regolatrice di conseguenze, con tutta la ricchissima gamma di problemi che comporta l’adeguato sviluppo di una conveniente convivenza umana».

In relazione al legame tra giustizia e sicurezza, Tejada rileva che «l’essere umano deve conseguire, praticando la giustizia, il suo destino trascendente verso Dio; l’uomo deve coesistere nella sicurezza con altri uomini per avere la possibilità di operare in modo da presentarsi come giusto davanti al suo Creatore e giudice». E ciò adempiendo anzitutto ai comandi divini.

La libertà dell’uomo è allora dunque sempre «libertà nella responsabilità del suo destino ultraterreno», per cui si tratta di riconoscere il diritto naturale quale condizione di possibilità del bene comune e «fondamento di ogni autentica civiltà», ribadendo il primato della retta ragione nel giudizio sulla realtà delle cose e su quanto accade. Al contrario, «se il diritto positivo è svincolato dal diritto naturale, elude la dimensione conforme all’ordine morale degli enti e si riduce a mero apparato di coazione», generando «tirannia animalesca».

Osservando la realtà empirica, Tejada ritiene perciò che il diritto non possa fondarsi sull’uomo che «può sbagliarsi o fare deliberatamente il male, poiché l’uomo può peccare settanta volte al giorno; la maggioranza democratica non è mai garanzia di avvedutezza, perché un cieco non è adatto a guidare un altro cieco. Occorre dunque una regola sicura, regola per non sbagliare che può derivare solo da Dio».

Pertanto «il diritto positivo, opera degli uomini, deve essere subordinato al diritto naturale, opera di Dio». In altri termini, «il diritto positivo è diritto nella misura in cui fa suo il diritto naturale» in ossequio alla legge eterna divina. Altrimenti un capo politico può anche essere un buon custode dell’ordine pubblico senza per questo mai amministrare la giustizia.

Alla luce di tali riflessioni, in buona sostanza, «senza il diritto naturale non è possibile la civiltà cattolica, né lo zelo missionario, né eroismo crociato; non è possibile la libertà teologica, e in assenza di questa non c’è libertà politica. Neppure è possibile autorità giusta, perché l’autorità viene da Dio attraverso il conformarsi alla legge naturale dettata da Dio stesso. Senza il diritto naturale cattolico non c’è altro che violenza politica, amarezza teologica, umiliazioni indegne, soggettivismi assurdi, collettivismi degradanti, rivoluzioni e tirannidi».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Gesù nel Getsemani, le meditazioni di San Tommaso Moro

«Salì al monte a pregare, per insegnarci che, quando pre­ghiamo, dobbiamo distaccarci dal tumulto delle cose terre­ne per volgere lo sguardo a quelle celesti. Ma il monte Oli­veto – coltivato a ulivi – ha in sé anche un suo arcano signi­ficato. Il ramo di ulivo era comunemente simbolo di pace: quella pace che Cristo sarebbe venuto a portare fra gli uo­mini, ricomponendo il lungo dissidio che li separava da Dio. E inoltre, l’olio, spremuto dall’oliva, simboleggia l’unzione dello Spirito che Cristo, ricongiunto col Padre, avrebbe mandato ai discepoli, perché li rendesse capaci di affrontare quelle cose che solo un istante prima di quell’un­zione non sarebbero stati in grado di reggere». Così scrive Thomas More Nell’orto degli Ulivi (Edizioni Ares 2023, pp. 184), rivelandosi anche quale fine esegeta nell’opera iniziata nel 1534, ossia mentre egli vive la prigionia nella Torre di Londra e attende la decapitazione per non avere dato il suo assenso al divorzio di Enrico VIII e, di conseguenza, allo scisma della Chiesa d’Inghilterra dalla Chiesa cattolica.

 Scritta nel 1534 e nota anche come Expositio Passionis Domini, l’opera è il testamento spirituale di uomo di Dio che vive il tempo della prova e dell’abbondono come un momento di più intima comunione con Cristo, con quel Gesù abbandonato persino dagli amici più fidati nel giardino del Getsemani.

 Marito affettuoso e padre di sei figli, amico gioviale, uomo di cultura e scrittore fecondo, brillante avvocato generoso verso i poveri, chiamato alla più alta carica del Regno d’Inghilterra, san Tommaso Moro muore martire per custodire l’integrità della sua fede. Sua moglie Jane, con la quale genera quattro figli, muore a soli ventitré anni, per cui egli si risposa con la vedova Alice. Erasmo da Rotterdam, che frequenta la sua casa, ne racconta l’amabilità coi familiari e la disponibilità all’accoglienza. Di qui, quando un incendio brucia gran parte dei granai di famiglia – come ricorda Carlo De Marchi nell’introduzione – scrive alla moglie: «Non perdere il buonumore e di portare tutti quei di casa in chiesa e di ringraziare Dio sia per quello che ci ha donato sia per quello che ci ha tolto, e per quello che ci ha lasciato che, se a lui piacerà, ci potrà accrescere». Uomo di profonda ironia, scherza anche sul proprio cognome, si definisce «un mezzo pagliaccio o poco più»; crede che il Cielo stesso sia un «eterno raccolto di risate». Consigliere irreprensibile, quale cattolico coerente non può prestare giuramento di fedeltà a Enrico VIII dopo il divorzio del sovrano e lo strappo dalla Chiesa di Roma, per cui ne paga in prima persona le conseguenze prima col carcere, poi con la condanna a morte. Perciò è stato proclamato a buon diritto patrono dei governanti e politici.

Molto toccanti le ultime parole che scrive alla figlia poche ore prima dell’esecuzione: «I tuoi modi nei miei confronti non mi sono mai piaciuti tanto come quando mi hai baciato l’ultima volta, per­ché mi piace quando l’amore filiale e la carità affettuosa non hanno tempo di curarsi della cortesia mondana. Addio, mia cara figlia, e prega per me, e io lo farò per te e per tutti i tuoi cari, perché ci possiamo incontrare allegramente in cielo. Gra­zie di tutto quanto hai fatto per me». Infine, come ricorda ancora De Marchi, il condan­nato non perse il buonumore neppure sul patibolo, tanto da chiedere aiuto a chi lo accompagnava per salire i gradini e “poi per scendere lasciate pure che mi arrangi da solo”, e da raccomandare al boia di avere cura, nel decapitarlo, di non ta­gliare la barba “che non era colpevole di tradimento”».

Nella sua esegesi egli si sofferma sul fatto che Gesù trascorre spesso la notte in preghiera. Di qui «se anche noi sapessimo qualche volta scuoterci dalla pigri­zia se volessimo richiamare alla mente quelle veglie di Cristo e, anche solo per qualche istante, reagissimo all’indolenza e volgessimo a Lui un pen­siero di riconoscenza e la preghiera di accrescere in noi la sua grazia; se volessimo abituarci a fare anche solo quel poco – prosegue More – so­no convinto che Dio farebbe in breve fruttificare nella nostra anima un buon raccolto spirituale».

Gesù prende con sé in particolare tre apostoli. E More ne esplicita così il motivo: «Pietro era il primo degli Apostoli per l’ardore della sua fede, Giovanni per la sua purezza, Giacomo sarebbe stato il primo a subire il martirio in nome di Cristo». Il Maestro li «aveva già temprati, corroborandoli nel tempo con una momentanea folgorazione dello splendore eterno», ossia la sua Trasfigurazione.

 L’angoscia che Gesù prova nel Getsemani deriva «da una mole immensa di sofferenza dalla quale egli si sentiva già sovrastato: il tradimento, la consegna agli spietati nemici, l’incarcerazione, le false accuse, le bestemmie, la flagellazione, le spine, i chiodi, la croce e i terribili supplizi prolungati per ore. L’angosciavano inoltre il pensiero dei discepoli atterriti, dei Giudei perduti, della morte disperata del suo stesso perfido traditore e l’indicibile strazio dell’amatissima Madre. Questa tempesta di dolori, che gli piombavano addosso tutti in una volta, inondava il suo tenerissimo cuore come un oceano in piena». E questo per insegnare all’uomo – prosegue il santo inglese illustrando anche il senso morale della Parola – che «Io, fedele alle mie promesse, non permetterò che tu sia tentato al di sopra delle tue forze, ma con la tentazione ti darò anche la capacità di resisterle». Il segreto consiste nell’imparare a pregare, «elevando incessantemente il proprio pensiero a Dio, qualsiasi cosa si stia facendo».

L’invito di Gesù alla preghiera è dunque triplice, per indicare che bisogna «pregare la Trinità, e pregarla per tre cose: il perdono per il passato, la grazia per il presente, la salvaguardia per il futuro». Nel sonno degli apostoli More intravede invece l’indolenza e la pigrizia nell’annuncio e testimonianza del Vangelo da parte di vescovi, che lasciano così colpevolmente che «i nemici di Cristo seminino i vizi e sradichino la fede». E in effetti «ogni volta che il Corpo mistico di Cri­sto, la Chiesa (e dunque il popolo cristiano), è nell’imminente pericolo di venir consegnato nelle mani degli empi, si avvicina di nuovo il momento in cui Cristo, il Figlio dell’uomo, sta per essere consegnato nelle mani dei peccatori». Relativamente a Giuda, al di là del tradimento, è «la sua pervicacia» nel male a impedirgli di lasciarsi afferrare dalla grazia per riconciliarsi con Gesù.

Con la cattura di Cristo l’opera purtroppo s’interrompe bruscamente perché al suo autore, nell’imminenza della condanna a morte, vengono tolti persino carta, penna e inchiostro.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Il cavaliere rammollito, aneddoti tra storia e devozione

«L’Anello era poi passato di mano in mano, ma non aveva portato fortuna a chi non ne aveva tenuto in giusta considerazione il carattere sacro». Ne Il cavaliere rammollito (Fede e Cultura 2023, pp. 160), Rino Cammilleri si sofferma anche sulle peripezie e i prodigi legati all’anello nuziale donato da San Giuseppe alla Vergine Maria e ora custodito nella cattedrale di San Lorenzo a Perugia.

C’è spazio poi per il racconto delle origini della devozione spagnola alla Nostra Signora del Buon Successo, a partire dalle apparizioni profetiche della Madonna «a madre Mariana Francisca de Jesús Torres y Berriochoa, superiora delle concezioniste (francescane consacrate specialmente all’Immacolata Concezione) a Quito in Ecuador, dal 1594 fino alla morte della veggente (che era stigmatizzata) nel 1635, in virtù delle quali a Madrid vengono celebrate messe dalle cinque del mattino alle due di pomeriggio ininterrottamente».

Egli indaga ancora le vicende del principe rumeno Constantin Brâncoveanu nato nel 1654 che, grazie alla sua abilità diplomatica, riesce a mantenere la Romania fedele al cristianesimo, sebbene lavori come funzionario dei turchi. Accusato ingiustamente di tramare contro gli stessi, viene deportato insieme ai figli a Costantinopoli: avrebbero avuta salva la vita se si fossero convertiti all’islam. Alla vista del sangue dei fratelli giustiziati il piccolo Matei lo supplica di accogliere tale proposta, ma «il padre gli risponde che non valeva la pena di tradire Cristo per vivere pochi anni ancora». Decapitato, viene canonizzato quale martire nel 1992.

Di qui il Kattolico ripercorre le tappe della conversione di Hermann Cohen, omonimo del noto filosofo neokantiano, pianista di successo, allievo di Liszt, «gagà, playboy, viveur, giocatore ed ebreo, che si scioglie in lacrime durante la celebrazione eucaristica. Tornato a Parigi si fa battezzare col nome di Augustin nella chiesa di Nostra Signora di Sion fondata dal Ratisbonne per gli ebrei convertiti. Egli idea l’adorazione eucaristica notturna nella chiesa parigina di Nostra Signora delle Vittorie». Poi diviene sacerdote – questo significa etimologicamente il suo cognome – carmelitano. Durante l’omelia della sua prima Messa «esordisce col chiedere scusa alla città per gli scandali della sua vita dissipata. Poi dice chiaro che aveva cercato la gioia nel successo, gli svaghi, le amicizie altolocate. Ma non l’aveva trovata. Solo Cristo era stato capace di procurargliela». Dopo aver contributo alla conversione di diversi familiari, riceve a Lourdes nel 1868 la grazia della guarigione da un glaucoma che lo stava rendendo ormai cieco. Trascorre gli ultimi anni della sua vita accanto ai prigionieri francesi nella guerra franco-prussiana del 1870 e muore di vaiolo l’anno successivo.

 Cammilleri svela anche interessanti retroscena. È molto probabile che Salgari, nel narrare le imprese di Sandokan, si sia ispirato alla vita avventurosa dell’apostolo del Borneo, il vescovo missionario Carlos Cuarteroni, che finanziò personalmente una missione in quelle terre dove aveva visto tanti uomini, donne e bambini cadere nelle mani dei pirati della Malesia. Egli diventa «così esperto in trattative coi pirati, che le autorità civili e anche militari ricorrevano a lui quando loro cittadini venivano catturati».

Lo stesso ricorda ancora che il Graal esiste ed è un calice custodito nella cattedrale di Valencia, dove viene portato da san Lorenzo, diacono di papa Sisto. Usato da Gesù durante l’Ultima Cena e poi da Pietro, Lino e i primi pontefici, è stato provvidenzialmente sottratto alle profanazioni della guerra civile spagnola.

 Cammilleri rileva altresì che tra i ‘famigerati inquisitori’ figurano anche Guillaume Arnaud e i suoi dieci compagni i quali, richiamati con l’inganno dai catari per un incontro pacificatore nel castello di Tolosa il giorno dell’Ascensione, dopo aver intonato il Te Deum, vengono trucidati. A Guillaume viene mozzata la lingua.

 Tra i diversi aneddoti tra le pieghe della storia il nostro apologeta si sofferma sulla straordinaria fedeltà al papa e alla Chiesa di Matilde di Canossa e sugli accordi tra Liborio Romano, ministro dell’Interno di Francesco II e massone di grado 33, e il boss della camorra Tore ‘e Criscienzo il quale, con gli altri affiliati alla criminalità organizzata, diviene tutore dell’ordine pubblico e scorta Garibaldi nel suo ingresso a Napoli. E ancora, relativamente alla storia americana, ricorda il gesto di Washington che, giurando sulla copia della Bibbia della sua Loggia, inaugura di fatto negli States la cosiddetta ‘religione civile’ quale unico collante di un Paese multireligioso e multietnico.

Infine menziona i sacrifici di monsignor Josef Tiso e di Augustin Vološin, sacerdoti e politici, presidenti rispettivamente della Cecoslovacchia e della Rutenia (Ucraina carpatica) che cercano di custodire l’indipendenza dei loro Paesi e rimangono vittime dell’orda comunista.

Insomma in questo volume l’apologeta Cammilleri torna a raccontare curiosi aneddoti di storia e devozione, additando alle giovani generazioni, che cercano il successo nei like sui social, il modello del santo cavaliere quale uomo che dà senso alla propria vita sapendo per Chi spenderla.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Il sistema in(visibile), così le élite manipolano i popoli

«Pensavamo di essere padroni del nostro destino, mentre altri, in luoghi che nemmeno immaginavamo e che non necessariamente coincidevano con governi e parlamenti, decidevano per noi». È questa la tesi di fondo del saggio Il sistema in(visibile) (Guerini e Associati 2022, pp. 256) di Marcello Foa –docente di comunicazione all’Università Cattolica di Milano e all’Università di Lugano e già Presidente della Rai dal 2018 al 2021– nel quale l’autorevole giornalista illustra con chiarezza le logiche e le influenze socioculturali di un sistema visibile e nel contempo intenzionalmente invisibile dettato dalle agende delle lobby di potere.

Egli analizza in sostanza il ruolo delle élite, mostrando come sia possibile modellare le masse, cambiare i valori, orientare la politica, l’economia e i media avvalendosi anche delle tecniche di influenza psicologica. D’altra parte «il giornalismo subisce ormai la passione compulsiva del mondo digitale, che oltre a permettere una moltiplicazione delle fonti – ed è senz’altro un bene – ha però generato nuove metriche del successo, ovvero un’ossessione per il consenso per le pagine viste, per i “like” ricevuti, per il numero delle condivisioni: dunque per un approccio che diventa sempre più superficiale, al contempo omologato e omologante, privilegiando una lettura istituzionale della realtà», osserva acutamente Foa.

E in effetti, quando dopo il crollo dell’Urss comunista, gli Stati Uniti diventano di fatto l’unica superpotenza mondiale, si fa avanti l’idea di globalizzazione anche se «in teoria una governance democratica avrebbe dovuto reggersi su un Parlamento del mondo. Washington, allora, ha optato per un sistema di delega alle organizzazioni sovranazionali. Queste, tuttavia, non si basano sulla sovranità popolare e ciò pone un problema al contempo delicato e complesso, che poteva essere risolto solo in due modi: promuovendo una collaborazione internazionale volta a stabilire regole comuni minime, mirate e condivise nel rispetto delle prerogative degli Stati (ed è la multilateralità propriamente intesa), oppure favorendo un’internazionalizzazione spinta, coercitiva, tale da creare progressivamente condizionamenti ineludibili per i singoli Paesi (ed è il nuovo concetto di multilateralismo)».

L’ha spuntata purtroppo la seconda opzione, incentivando la tensione tra gli Stati attraverso la guerra finanziaria (speculazioni per gettare sul lastrico le economie di interi Paesi) ed economica, culturale e tecnologica per il dominio globale. Il mantra “lo chiede l’Europa”, anche e soprattutto in relazione al bilancio di uno Stato, conferma infatti quanto i governi nazionali debbano sottostare a logiche sovranazionali decise a Bruxelles o oltreoceano. Tali logiche sono fortemente orientate se non imposte, tra i vari enti, dalla Banca Mondiale, dal Fondo Monetario Internazionale, dall’Ocse, dalla Nato, dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, da Onu, Unicef, Unhcr, Fao, tutte (o quasi) a trazione statunitense.

Il processo è quasi sempre il medesimo: «in conses­si internazionali, quale per esempio il World Economic Forum, le élite pubbliche e private riflettono sui destini del mondo, ma al contempo individuano le possibili soluzioni. Poi passano all’azione. Preparano l’opinione pubblica con un’adeguata campagna di comunicazione (solitamente am­mantata di buone intenzioni, di cause nobili e di altruismo, ovvero facendo passare il messaggio che si agisce per il bene dell’umanità o per porre rimedio a un’incombente trage­dia). Successivamente, si attiva la governance internaziona­le, secondo Davis “tipicamente attraverso un distributore di politiche che funge da intermediario, come il Fmi o l’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) che ha il potere di indurre i governi nazionali a uniformarsi alle decisioni prese”. Quindi sulla scena appaiono i partner privati, top manager e grandi aziende dichiarano la volontà di contri­buire al successo di questa buona e onorevole causa (che in realtà essi stessi hanno contribuito a ideare) e offrono la loro collaborazione ottenendone – ovviamente – anche un ritorno economico, oltre che strategico e di sistema. I me­dia, stante l’importanza delle fonti, rilanciano questi temi, creando consapevolezza nelle masse. In sintesi: le organiz­zazioni internazionali, i governi nazionali, i grandi gruppi economici, l’opinione pubblica convergono nella stessa di­rezione. E le decisioni ricadono sui popoli, che restano in­consapevoli del processo».

Non è forse questo quanto accaduto, in relazione alla recente pandemia, ossia che quanto stabilito dall’Oms, «forma di partenariato pubblica-privata» (finanziata tra gli altri anche da Bill Gates per il 15%, con la stessa percentuale degli Stati Uniti!), è stato poi pedissequamente assecondato dai diversi Paesi? Per non parlare dello strapotere degli oligopoli in ogni ambito, nell’abbigliamento sportivo con Nike e Adidas; nei sistemi operativi con iOs e Android; nella finanza con Black Rock, Vanguard e State Street, che gestiscono l’equivalente dei 2/3 del PIL americano; nell’e-commerce con Amazon; nei social con Meta di Zuckemberg che detiene Facebook, WhatsApp e Instagram, e YouTube che è un marchio Google che ha invece il monopolio quasi incontrastato come motore di ricerca. In sostanza «il mercato è libero e per i giganti più libero di altri». Basti pensare che solo Apple e Microsoft hanno una capitalizzazione in borsa pari al PIL di almeno il 92% dei Paesi del mondo.

Il rovescio della medaglia di tale capitalismo finanziario altamente speculativo, di cui è un effetto la recente crisi del 2008, è la crescita dell’indebitamento pubblico e privato, nel silenzio complice dei media rispetto all’opinione pubblica; «la stampa infatti non anticipa, non contribuisce a prevenire, semmai asseconda. E amplifica, quando è troppo tardi».

Foa approfondisce il meccanismo della propaganda, alla luce della psicologia delle masse, per la quale si agisce su sentimenti e idee, sollecitandone emozioni, bisogni e volontà, tanto nella dimensione pubblica quanto in quella privata. Una volta erano televisione, musica e Hollywood a contribuire a rendere popolare e desiderabile lo stile di vita americano; «nell’era digitale, gli influencer sui social media, rendendo partecipi i follower della propria vita privata, stabiliscono un rapporto ancora più intimo: ognuno di essi si sente parte di quella famiglia, soprattutto su Instagram, che diviene un Truman Show all’ennesima potenza».

Riguardo ai temi portanti sposati dalle lobby, quali il matrimonio omosessuale o la maternità surrogata, la strategia dello sdoganamento prevede che ciò che è inconcepibile sia prima vietato con delle eccezioni; poi gradualmente diventi sensato, socialmente accettabile e persino legalizzato, fino a divenire addirittura un valore condiviso.

Relativamente al ruolo dei media, si punta a costruire una cornice emotiva nella quale viene poi a svilupparsi tutta la narrazione di un determinato fenomeno, all’insegna del «prima pubblico, poi semmai rettifico», basta che «il titolo o l’articolo, meglio se ottimizzato SEO, conquisti la fiducia dell’algoritmo», tanto il lettore si accontenta di infotainment, «un’informazione di intrattenimento» sulla quale è sollecitato a dire la sua senza particolari riflessioni. Di qui, come si è visto, dalla ‘mucca pazza’ al Covid, si fa leva in particolar modo sulla «paura della malattia mortale quale forma di condizionamento assoluta che può essere strumentalizzata per ragioni politiche, economiche, di controllo sociale o per far avanzare agende».

Così per i social, che ci conoscono più di noi stessi, siamo non tanto il prodotto, quanto la materia prima da cui il nuovo capitalismo digitale estrae ogni dato di cui necessita per foraggiarsi. La manipolazione ad personam diviene dunque, col supporto delle neuroscienze e dell’intelligenza artificiale, l’ultima frontiera di una ‘guerra cognitiva’ in grado di influenzare capillarmente ciascuno perché ne conosce interessi, gusti e preferenze meglio di se stesso. Si tratta allora di inventare nuovi spazi di libertà e pluralismo capaci di aggirare la censura dei motori di ricerca e la cancel culture, preservando la dimensione democratica da tale omologazione conformante delle élite.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Fame d’aria, un romanzo sul dono della vita

«Ha l’andatura da sonnambulo e le dita della mano sinistra che non smettono mai di passare e ripassare sulla coscia, al punto che a fine giornata gli diventa del colore dei pantaloni». È Jacopo, un diciottenne con sindrome dello spettro autistico a basso funzionamento, protagonista insieme al papà Pietro Borzacchi di Fame d’aria (Mondadori 2023, pp. 180), la nuova storia raccontata dallo scrittore romano Daniele Mencarelli, reduce dal grande successo della serie Tutto chiede salvezza tratta dall’omonimo romanzo.

A far da sfondo alla vicenda c’è Sant’Anna del Sannio, un paesino molisano dove il tempo sembra essersi fermato. Pietro lavora come grafico a partita iva ed è in viaggio insieme al figlio con disabilità verso Marina di Ginosa dove l’attende sua moglie per festeggiare il loro anniversario di matrimonio, ma la vecchia Golf ha un problema alla frizione per cui si ferma in mezzo al nulla.

Jacopo non parla, emette «un suono, uno solo, valido per tutto, una richiesta informe», la cui interpretazione lascia sempre il beneficio del dubbio; è ossessionato dal particolare sin da bambino, in specie dal moto circolare della ruota del suo triciclo, ma ride divertito dinanzi ai capitomboli di Sid de L’era glaciale.

Pietro, che deve cambiargli i pannoloni anche in circostanze difficili perché il figlio non riesce purtroppo a controllare e gestire i propri bisogni fisiologici, manifesta sentimenti di sconforto e scoraggiamento. Quando la croce sulle sue spalle si fa più pesante, se la prende con la vita e inveisce contro la neuropsichiatria pubblica fortemente carente che lo costringe a spendere la metà del suo stipendio per rivolgersi a professionisti privati e star dietro a terapie che comunque non sortiscono i benefici attesi. Tuttavia, proprio nella fatica della quotidianità, incontra lungo il cammino persone che, quali raggi di luce, sono in grado di squarciare il buio del suo cuore. Tra queste Oliviero che, pur essendo in pensione, si adopera per riparare l’auto; Agata, titolare di una vecchia pensione che accoglie padre e figlio premurandosi di cucinare le patatine fritte per sorprendere Jacopo; e Gaia, la quale rammenta a Pietro: «Anche un figlio che ha dei problemi rimane un dono, troverai cose belle che solo lui sa darti, sono sicura che ce ne sono!». Proprio quest’ultima realizza la vocazione inscritta nel suo nome ridestando in un padre affranto la bellezza e la gioia di vivere.

Il chiodo fisso nella mente di Pietro e sua moglie Bianca, al quale egli si sforza invano di non pensare, rimane «a chi lo avremmo lasciato o chi lo avrebbe difeso quando non ci saremmo stati più. Arrabbiato con Dio, avrebbe voluto trovarsi faccia a faccia col Padre per chiedergli qual sia la spiegazione per la malattia del figlio non avendone trovata una». Poi però, al di là delle fantasie mentali, si sorprende nello scorgere sul corpo di Jacopo la sua stessa voglia di caffè, un segno che «Jacopo era suo. Era sangue del suo sangue. Era la vita a questo mondo oltre la sua morte».

Nonostante la fatica di supportare costantemente il figlio nella routine delle comuni attività di tutti i giorni con grande attenzione e pazienza – dal lavarsi, vestirsi e mangiare alle crisi dinanzi ai rumori troppo forti – Pietro ritrova nella carità ordinaria di persone comuni la forza per reagire e la sua ‘fame d’aria’ si rivela in fondo come la sete che accomuna ogni uomo, ossia quella sete inestinguibile di amare e di essere amati che dà senso a tutto il resto e rende più lieve anche il giogo più grave.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

L’arte della buona battaglia contro i vizi

«Ogni atto ha una sorgente, sia nel bene che nel male», ma tutto parte dai pensieri. Muove da tale consapevolezza L’arte della buona battaglia (San Paolo 2023, pp. 399), l’ultimo libro di don Fabio Rosini, nel quale il sacerdote romano affronta il tema del combattimento interiore a partire dagli otto loghismói, i pensieri maligni alla radice dell’inganno umano secondo la suddivisione operata da Evagrio Pontico, monaco del deserto del IV secolo. Contrastare tali nemici della vita spirituale, con l’ausilio della grazia divina, consente infatti di spianare la strada alla vera libertà dei figli di Dio.

È una battaglia che ha come campo il cuore dell’uomo. Il nostro io è infatti popolato da tre ordini di pensieri. Oltre ai pensieri propri, legati alla propria volontà e libertà, ci sono «i pensieri angelici che gettano luce, ad esempio, sul fine, lo scopo, la meta delle cose o degli eventi», ossia quelli che vengono dallo Spirito Santo, e i «pensieri diabolici, spesso tendenti al colore emozionale o passionale, il cui carico emotivo è normalmente ordinato al possesso e a una relazione con la realtà centrata sull’ego».

Omissioni, assolutizzazioni, superficialità, contaminazioni tra bene e male e false rappresentazioni sono gli spiragli attraverso cui il maligno si fa strada, col rischio di «un up-grade pericoloso di immagine/affezione che è proiettata sulle idee – che non per caso hanno la stessa matrice etimologica della parola idoli – per cui si diventa affezionati a delle idee che divengono degli assoluti e non si sa rinunciare alle proprie impressioni». Occorre perciò anzitutto arginare questi ostacoli attraverso la preghiera, l’analisi e l’interrogazione dei propri pensieri.

Al cuore dei loghismói, «suggestioni che hanno lo scopo di turbare l’anima», vi è la filautia, quella «centratura nel proprio ego che deriva dall’orrore del vuoto. Il terrore per se stessi diventa ansiosa e disordinata celebrazione di sé, dei possessi e dei propri bisogni». Questa radice malvagia fa essere «amico di sé contro se stesso», per dirla con san Massimo il Confessore.

Il primo dei loghismói è la gola, o meglio la gastrimarghia, quella sregolatezza del ventre che non riguarda solo l’ingordigia ma la brama di sapere, assimilare e provare tutto per sentirsi appagati. Di qui accade che «non ci si nutre per vivere, ma si vive per nutrirsi e per godere delle cose», per cui la vita «diventa la ricerca prolungata di orgasmo e ricerca di compensazione in ogni atto». Tale meccanismo della gola è dunque alla base di tutte le forme di dipendenza. Ci si aliena per il piacere di un attimo, senza considerare che «il mostro strisciante dentro ogni peccato di gola è la fuga da un dolore». Questo demone si combatte col dominio di sé, attraverso il digiuno quale «orientamento a un cibo migliore» per riscoprire il gusto delle relazioni con Dio, se stessi e gli altri.

Anche la lussuria è in sostanza «la gola che agisce nella sfera della genitalità; assolutizza alcuni millimetri di epidermide e banalizza il tesoro che c’è dentro ogni persona, per cui chi ha conquistato tanti corpi, ma non ha saputo essere fedele ad un solo cuore, non sa niente del vero piacere». Per combatterla è necessario custodire la purezza del cuore.

«L’avarizia porta a vedere ogni perdita come una tragedia. Di qui l’avaro manda l’attenzione in multi-tasking; se un figlio parla intanto si controlla il telefono, se c’è una telefonata intanto bisogna fare altro, perché un avaro non può perdere tempo o occasioni, ha l’ansia della perdita e va in caduta continua di attenzione perché tutto può distrarlo». L’avarizia è «“un calcolo di accumulazione”: cioè la mente dell’avaro sta sempre lavorando per risparmiare; dovunque va si chiede come può risparmiare. Praticamente non si gode la vita. Ha questo retro-pensiero, il calcolo». Per superarla occorre praticare distacco e donazione, non tanto diventando «così generosi da dare i propri beni, ma così saggi da prendersi quelli veri. Cuore del distacco è allora la memoria della paternità di Dio».

Poi c’è «l’ira che, per sua natura, fa perdere il paradiso, perché si oppone alla misericordia, unica porta di accesso al cielo; assolutizza una percezione, è pretestuosa». Per contrastarla è necessario favorire invece la magnanimità.

Un loghismós che non è nell’elenco dei vizi capitali occidentali è la tristezza, poiché non è un atto ma un atteggiamento che «rimesta nel male e gode del dispiacere come suo piacere; gioca su ipotesi, rimpianti e proiezioni ed è culto della frustrazione che produce ulteriore frustrazione». La tristezza «da bambini si manifesta con il beccuccio fatto con le labbra che fa tenerezza, da adolescenti è l’argomento in tasca per avere sempre ragione con l’autorità, da adulti è la scusa per i propri peccati e da vecchi è amarezza». Si combatte con la gioia, che «è una scelta che costa l’abbandono di ciò che non ci fa bene anche se apparentemente ci fa godere. Allora la gioia non capita, si sceglie, si asseconda, gli si obbedisce e poi si difende».

L’accidia non è solo l’indolenza, ma «è l’incapacità di perseverare e soprattutto non fare ciò che andrebbe fatto e l’avversione a tutto ciò che costa fatica». Un vizio simile deve essere contrastato dalla pazienza, virtù che consente di riscoprire che «il mio tempo è quello che è, Dio mi dà delle occasioni, mi apre delle porte, e io non ho altra salvezza che sfruttarle».

L’invidia è ancora la vanagloria di «chi vive di like nella pretesa di superare qualcuno e questo è vapore ed inseguire il vento». Tale vizio si combatte con la modestia e la benevolenza mentre si ricerca nel silenzio interiore la vera gloria e si vive in comunione coi propri fratelli.

Infine la superbia, «avversaria di Dio, ha il suo culmine nel rifiuto dell’aiuto di Dio e nell’esaltazione dei propri sforzi. Nel delirio del superbo i suoi pensieri equivalgono alla verità». Il vizio principe di tutti gli altri si combatte con l’umiltà, che è «un rapporto sano con la propria fragilità», il quale comporta anche una disponibilità a «lasciarci correggere dalla vita che è la sapienza di Dio e a imparare a riconoscere le proprie opere buone come un dono di Dio», nella fiducia che è la sua grazia a renderci vincitori contro ogni vizio nella misura in cui ci lasciamo raggiungere e trasformare dall’amore di Cristo. D’altra parte – conclude don Fabio Rosini – «se non ho amore, a che serve vincere i pensieri maligni?».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Un manuale di resistenza all’ideologia gender

Sono contro ogni ingiusta discriminazione. È giusto e doveroso che un ordina­mento giuridico punisca condotte violente o ingiu­stamente discriminatorie, e le leggi già in vigore nel nostro Paese puniscono ogni forma di minaccia, vio­lenza, aggressione, intimidazione, oltraggio, ingiu­ria e diffamazione a carico di chiunque, aggravando la pena se il fatto è commesso per motivi abbiet­ti quali quelli riconducibili alla discrimi­nazione per orientamento sessuale. Nella questione “omofobia”, la posta in gioco non è quella di fermare le discriminazioni. Per questo bastano già la Costituzione e il Codice penale. Qui l’obbiettivo è un altro: imporre per leg­ge un’ideologia, e imbavagliare con la minaccia della galera chiunque non la condivida». Apre così il suo Manuale di resistenza al pensiero unico (Giubilei Regnani Editore, 2022) l’ex senatore Simone Pillon, nel quale approfondisce le radici storiche e antropologiche sottese all’attuale egemonia culturale dell’ideologia gender, ne documenta gli esiti nella cronaca e propone alcune strategie operative per arginarla.

La decostruzione dell’identità maschile e femminile a vantaggio di una più fluida identità di genere auto-percepita è solo il primo passo di tale sistema ideologico; «i passaggi successivi prevedono sul piano culturale e politico giuridico il matrimonio gay, la legittimazione della omogenito­rialità ottenuta dal traffico di materiale genetico o per mezzo dell’utero in affitto e, infine, la definitiva cancellazione della famiglia naturale» come già accaduto negli altri Paesi ‘avanzati’. Il vero obiettivo dell’agenza Lgbt però consiste nel formare un’umanità «in cui non esista più nulla di dato, come il proprio sesso, il proprio nome, il proprio cognome, la propria identità e le proprie relazioni familiari, i propri genitori e i propri parenti, ma tutto diventi autoprodotto, fluido, instabile, oggetto di quotidia­no arbitrio».

Ripercorrendo l’iter dei diversi disegni di legge, da Scalfarotto a Zan, Pillon evidenzia la pretesa paradossale di «definire un reato sulla base di “omofobia e tran­sfobia”, il quale comporterebbe un’assoluta inconoscibilità della condotta, visto che la realizzazione o meno del­la fattispecie non dipenderebbe dalla condotta dell’a­gente ma dalla percezione della vittima». Riprendendo gli esperimenti sociali del Forteto e di Bibbiano, balzati all’orrore della cronaca giudiziaria, Pillon sottolinea il naufragio della demonizzazione ideologica della famiglia patriarcale di contro alla pretesa di affido a coppie omogenitoriali, la quale dimentica che il principio fondamentale alla base dell’istituto giuridico dell’adozione non è «dare figli a chi non ne ha, ma dare nuovamente mamme e papà ai bambini che, a causa di una disgrazia, ne sono rimasti privi».

Nell’enorme business delle banche del seme «il padre viene sostituito da una scatola di polistirolo, contenente liquido seminale congelato», per non parlare della violenza perpetrata sulla ‘madre surrogata’, nella quale ci si preoccupa di impiantare più embrioni, anche perché «visto che il suo patrimonio ge­netico non ha nulla in comune con quello del bam­bino che porta in grembo, i suoi anticorpi leggono l’intruso come un carcinoma e tentano di eliminarlo. Ecco perché le gestanti devono essere trattate con pesantissimi farmaci antirigetto di tipo chemiotera­pico per garantire che il bambino non sia abortito». Pillon auspica quindi «una moratoria inter­nazionale di questo moderno schiavismo, ma gli in­teressi in gioco sono ormai colossali e nessuno se la sente davvero di andar contro le potentissime fab­briche di bambini».

A partire dagli esperimen­ti del dottor Money relativi alle vicende di Bruce/Brenda/David Reimer e del fratello Brian conclusisi con due suicidi, l’autore passa in rassegna i principali teorici dell’ideologia gender formatisi nell’alveo del femminismo radicale e alla scuola del decostruzionismo, secondo i quali «i nostri corpi devono essere plasmati a piacimento, senza più obbedire agli stereotipi culturali che han­no costruito l’idea di maschile e l’idea di femminile solo per poter sottomettere le donne». Secondo la Butler il corpo dell’altro deve essere ‘distrutto’ nella misura in cui ostacola il desiderio spasmodico di libertà e autonomia di essere ciò che voglio. Agli antipodi di tale pensiero, stando alla realtà, sulla base delle sostanziali differenze biologiche tra maschi e femmine, «Giovannino Guareschi scriveva che la piena uguaglianza tra uomo e donna si raggiungerà quan­do negli ospedali oltre al reparto di “maternità” si avrà quello di “paternità”». Insomma da un lato si propaganda l’indifferentismo sessuale nel miraggio del genere neutro, dall’altro resiste un pensiero della differenza ancorato alla realtà. L’indifferentismo sessuale genera paradossi e ingiustizie; per esempio quando uomini in percorsi di transizione di genere gareggiano ‘alla pari’ in competizioni sportive femminili o quando il ‘self ID’ di uomini sedicenti donne consente loro di stare nei reparti carcerari femminili per mietere altre vittime, se si è stati magari già condannati per reati sessuali, come accaduto in California.

Rispetto alla disforia di genere nei bambini, sebbene lo stesso DSM-V rilevi come «il 98% dei maschi e l’88% delle femmine ‘gender confused’ in età adolescenziale, in epoca post-adolescenziale recupera la propria appartenenza sessuale biologi­ca», si sceglie di agire con triptorellina e ormoni del sesso opposto per favorirne la transizione. Eppure basti citare quanto accaduto alla giovane Keira Bell per smascherarne la menzogna. A 16 anni inizia il percorso di transizione di genere, poi però ci ripensa e vuole una detransizione. Le conseguenze «sono gravi: probabile infertilità, amputazione del seno, impossibilità di allattare, genitali atrofizzati, cambio della voce, peluria sul viso. Era compito dei profes­sionisti che si stavano occupando di me considera­re tutte le mie comorbilità invece di assecondarmi nella mia ingenua convinzione che per farmi sentire meglio sarebbero bastati gli ormoni e la chirurgia». È significativo in proposito anche la proposta dell’American College of Pediatricians di considerare simili trattamenti quali «abusi sui minori». Invece in Canada i genitori che contrastano la volontà dei figli di intraprendere tali percorsi rischiano la galera.

L’ideologia gender intende plagiare anche le giovani generazione attraverso un massiccio indottrinamento nelle scuole. Mette a tacere il dissenziente – sia egli dottore, scrittore, docente, avvocato, giudice, religioso o persino Ministro – con la gogna mediatica e, se occorre, secondo quanto sempre più frequentemente riporta la cronaca, con il processo e in alcuni casi addirittura l’arresto. Chi osa affermare che un figlio necessita di una mamma e di un papà o predica con le parole di san Paolo è tacciato di omofobia e incriminato, oppure si è licenziati se ci si rifiuta di indossare la maglietta arcobaleno, come accaduto a una barista di Starbucks.

Tale ideologia intende «cancellare l’identità sessuata e imporre una iden­tità fluida e indeterminata, vuol sostituire la famiglia con la solitudine, vuol cancellare la relazione coniugale e genitoriale con forme posticce e surrogate di relazione affettiva e vuole imporre tutto questo ai ra­gazzini­». Allora la strategia per «fermare le ideologie antiumane e la loro agenda distruttiva» se da un lato non agisce contro le persone, dall’altro non cede a «compromessi sui valori» e si premura di difendere con coraggio la vita umana, i diritti dei più piccoli e la libertà autentica, nella consapevolezza che la verità raccontata con umiltà «ha in sé la forza di farsi strada nei cuori delle persone che la odono», tanto più se di essa si è testimoni e «sentinelle negli ambiti della nostra vita».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

“Il fumo nel Tempio”, il realismo profetico di Eugenio Corti

«Questo libro è la risposta di un uomo di fede non rassegnato a prendere semplicemente atto delle difficoltà ecclesiali e sociali, ma deciso invece a impegnarsi fino in fondo nella buona battaglia per dare a Dio il posto che gli compete in seno all’umanità». Così il compianto Cesare Cavalleri presenta Il fumo nel Tempio (pp. 296) di Eugenio Corti, pubblicato in nuova edizione dalle edizioni Ares che meritoriamente ha curato l’Opera Omnia dello scrittore brianzolo.

Si tratta di una raccolta di puntuali interventi di analisi di fatti avvenuti principalmente negli anni compresi tra il 1970 e il 2000; è il controcanto di un uomo libero che dà voce al disagio di tanti cattolici che, sulla scia di san Paolo VI, vedono il ‘fumo di Satana’ entrare nel tempio di Dio.

«Non ci si fida più della Chiesa; ci si fida del primo profeta profano che viene a parlarci da qualche giornale o da qualche moto sociale per rincorrerlo e chiedere a lui se ha la formula della vera vita», prosegue Cavalleri nella prefazione al volume. Di qui «la persuasione dello scrittore che all’origine dei gravi problemi che si trova ad affrontare la Chiesa ci sia l’intrecciarsi di due fenomeni: l’offuscamento della linea verticale che lega l’uomo a Dio e l’abbandono di quella linea orizzontale che definisce la vita cristiana nei suoi esiti sociali, vale a dire la cultura».

Nel commentare una citazione del filosofo Maritain, Corti riflette sulla dimensione politica in senso lato della Chiesa: «La Chiesa (anche se istintivamente ci ripugna mescolare a una realtà per tanti aspetti soprannaturale, categorie come destra e sinistra) in quanto riceve la propria autorità dal­l’alto non potrà mai essere considerata una organizzazione di sinistra, ma se mai il suo contrario. Ci spieghiamo allora meglio perché una politica ‘di sinistra’ (non ci si fraintenda: ripetiamo che disturba anche noi usare per la Chiesa questo frasario pro­fano) – com’è quella appunto preconizzata con tanta autorità dallo stesso Maritain – abbia potuto portare a uno stato di se­miparalisi, e alla scelta di tanti uomini sbagliati soprattutto per i posti chiave della cultura, dei mass media, eccetera. Unico conforto per noi è sapere che la Chiesa non potrà comunque ar­rivare allo sfacelo, in quanto il Salvatore sarà sempre con lei».

Corti critica dunque aspramente anche quel «gruppo dei cattolici ‘illuminati’, i quali si atteggiano a maestri dei vescovi e del Papa, e anzi, al­l’occasione, addirittura a ‘correttori’ delle sacre scritture», così simili ai ‘cattolici adulti’ contemporanei che assumono posizioni sui temi etici in netto contrasto con il magistero della Chiesa. Di qui, sul piano politico, lo scrittore brianzolo osserva con amarezza che «i politici cri­stiani parlano ormai quasi soltanto il linguaggio degli altri», per cui quanto valeva un tempo per la Democrazia Cristiana vale ancora oggi per tanti politici che relegano la propria fede alla sola sfera privata, impedendone le ricadute in ambito sociale.

Rispetto alla strumentalizzazione mediatica del Concilio Vaticano II, Corti osserva con preoccupazione, «come al­lora tutti senza eccezione applaudissero la Chiesa: tutti gareg­giavano nell’osannarla, non si sentiva più un solo crucifige. Anche chi fino a poco tempo prima aveva insultato e calun­niato, si convertì all’applauso».

 Attento e profondo conoscitore dell’ideologia comunista, di cui ha sperimentato la follia anche sulla propria pelle, si chiede provocatoriamente, alla luce dei milioni di vittime da essa mietute: «Si vorrebbe portare i cristiani a collaborare con questa gente, con questi ‘movimenti storici’?».

 Nel decostruire il comunismo Corti sottolinea l’impossibilità di prescindere dal capitalismo, dal momento che lo stesso Lenin in Cinque anni di rivoluzione russa ammetteva: «“Il capita­lismo di Stato non è un elemento socialista… Ma se noi non ci fossimo dimostrati in grado di eseguire questa ritirata (sul capi­talismo di Stato) saremmo stati minacciati dalla rovina”». Certo con tale regime il sistema capitalista da privato diventa ‘di Stato’, ma continua comunque a esistere. Insomma, di contro a un «liberismo a oltranza», si tratta di recuperare un po’ di sano «realismo cristiano, e non in base a uto­pie, tanto meno laiciste».

 D’altra parte, «Marx può ben essere stato mosso da un grande impulso di generosità umanitaria, e così Lenin, che ha tentato di attuare l’utopia di Marx nella dolentis­sima realtà russa, e così dopo di loro i rivoluzionari cinesi: ma da quella generosità di partenza sono derivati solo morti, e do­lori, e miseria. Che una simile distruzione dell’uomo – letteral­mente mai vista prima nella storia – possa non essere tenuta in alcun conto dai visionari di matrice laicista, tuttora abbagliati dal gigantesco tentativo di Marx di avviare una redenzione non cristiana dell’umanità, lo si può anche capire, se pure a fatica. Ma com’è possibile che degli studiosi, tanto più cristiani, non se ne rendano conto?», si domanda lo scrittore brianzolo riflettendo sulle ricadute di tale sistema ideologico. A tal proposito egli osserva acutamente che «nel mondo intero il comunismo ha fatto più presa, al di là dei paesi in cui s’è imposto con la violenza, in quelli cristiani, e più propriamente cat­tolici: in Italia, Francia, Spagna, America latina. Nei paesi pro­testanti invece, dove la gente non va quasi più in chiesa e crede sempre meno nella trascendenza, la presa è molto minore. Que­sto perché nei cattolici c’è l’attesa della redenzione, ed è rima­sta anche in quelli che credono sempre meno. Il comunismo si presenta appunto come una redenzione portata dall’uomo all’uomo: soprattutto come tale è sentito a livello po­polare». Eppure le «idee non cristiane, sono sfociate in aberrazioni tra­giche, tra cui enormi stermini, perfino superiori a quelli del tempo pagano (anzitutto in Vandea, poi nel corso delle guerre nazionalistiche, poi nelle lotte razziali, e più ancora in quelle di classe)».

Quale testimone autorevole delle ricadute tragiche del comunismo Corti addita proprio Giovanni Paolo II, «un pastore con la forma mentis del pastore e non dell’intellettuale (pur con tutto il ri­spetto che a questa è dovuto), che ha inoltre sperimentato di persona la realtà sommamente tragica di quel comunismo che tanti intellettuali cattolici, da Maritain in poi, si illudevano d’in­quadrare nella ‘nuova cristianità’».

Nel commentare invece la strumentalizzazione del ‘caso Seveso’ da parte degli abortisti, egli afferma, dati alla mano, che «a distanza di oltre un anno e mezzo dalla fuga del gas tossico a Seveso, possiamo affermare in tutta obiettività che le uniche vittime umane della diossina sono stati i bambini uccisi nel grembo materno dalla campagna forsennata degli abortisti». E aggiunge un accorato appello estremamente attuale soprattutto per quei cattolici attualmente impegnati in politica: «Per il futuro bisogna che noi cattolici ci svegliamo: non dob­biamo più permettere che siano gli anticristiani a decidere della vita e della morte dei nostri figli».

Profeta del suo tempo, Corti è anche un romanziere di opere monumentali, tra le quali il capolavoro Il cavallo rosso, di cui Cornelio Fabro scrive: «È certamente anche il romanzo del trionfo cristiano del bene sul male, ma non qui in terra come ne I promessi sposi, bensì nella luce eterna di Dio, che non conosce tramonto». Eppure, rispetto alla crisi della Chiesa, auspica l’avvento di una «società cristiana nuova. Che sarà pur sempre uno sviluppo della nostra: una nuova ‘città sul monte’, non meno luminosa».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Dal conflitto alla collaborazione, l’evoluzione da ripensare

«Lamarck non aveva tutti i torti!». Ne spiegano le ragioni Carlo Bellieni e Lourdes Velázquez  nel saggio Il vero segreto dell’evoluzione (Cantagalli 2022, pp. 128), in cui gli esiti del neodarwinismo sono discussi criticamente alla luce dei risultati delle scoperte scientifiche più recenti, le quali riabilitano le ipotesi teoriche di Lamarck. Ai primi dell’Ottocento il naturalista francese, nei confronti del quale lo stesso Darwin si riconosce debitore ed erede sul piano scientifico, «avanzò la tesi secondo cui gli organismi viventi compiono spontaneamente ogni sforzo per adattarsi all’ambiente, trasformando la propria costituzione e funzionalità, che vengono trasmesse ereditariamente alla discendenza».

Tuttavia «la questione dell’ereditabilità dei caratteri acquisiti, che aveva bloccato il lamarckismo si può riformulare sia considerando in senso lato la trasmissibilità di caratteristiche entrate nell’individuo dall’ambiente, sia gli aspetti di collaborazione, convergenza, simbiosi e solidarietà che, al puro e semplice livello biologico, limitano il ruolo della semplice selezione naturale», come osservano acutamente gli autori del saggio.

 «Darwin diceva che le specie si trasformano per poter sopravvivere: arriva un terremoto, un’inondazione e solo chi sa correre rapidamente o chi sa nuotare vive». Questo è vero, ma si verificano anche dei cambiamenti non legati necessariamente a migliori possibilità di sopravvivere o di riprodursi quali, per esempio, la riduzione nel tempo dei denti molari o delle dita dei piedi dell’uomo. Certo la capacità di adattamento all’ambiente è un segnale importante di integrazione che non va trascurato, ma non evidentemente l’unico fattore sufficiente a spiegare l’evoluzione delle specie.

D’altra parte il valore assunto dalle recenti scoperte legate all’epigenetica, ossia alla «capacità dell’ambiente di determinare un silenziamento o un’attivazione di uno o più geni», e al concetto di eredità genetica transgenerazionale implicano un ripensamento della teoria dell’evoluzione. Nel 2021 è stato infatti documentato per la prima volta un trasferimento genico orizzontale (TGO) avvenuto tra una pianta e un animale: una mosca bianca ha acquisito da una pianta di cui si nutre un gene che le consente di proteggersi dalle tossine delle piante cui portava alimento. Per quanto rara, esiste infatti la possibilità di trasferimento genico anche tra cellule conviventi, e non soltanto tra cellula-madre e cellula-figlia, la quale si verifica anche nei celebri batteri farmaco-resistenti, allorquando un germe aiuta un suo simile a sopravvivere «‘regalandogli’ un pezzetto di DNA», ossia di geni della resistenza. Allo stesso modo nei rotiferi i ricercatori di Harvard hanno individuato almeno 22 geni provenienti da trasferimenti orizzontali. Le ricadute di queste scoperte sono significative, in quanto determinano che «i confini tra una specie e l’altra non sono così chiari e impermeabili. L’individuo vivente, incluso l’individuo umano, è una cosa unica e irripetibile, certo, ma allo stesso tempo un mosaico di forme di vita e geni di varia origine», rileva ancora Bellieni.

Un altro elemento degno di considerazione è offerto dall’endosimbiosi, ossia la scoperta di creature a cellula singola che avrebbero conseguito una «compatibilità duratura, per caso e interessi sovrapposti», con altre creature simili. Gli stessi «mitocondri si originarono da antiche endosimbiosi di batteri. Prova ne è il fatto che i mitocondri possiedono un DNA diverso da quello del nucleo cellulare e simile a quello dei bacteria».

Di qui deriva la constatazione che «all’alba della vita sulla terra, a quanto pare, le prime vie evolutive non furono solo dovute alla scomparsa dei meno adatti dopo mutazioni casuali del DNA, ma anche all’ingresso di DNA nelle cellule dall’esterno, sotto forma di archea o di batteri che venivano inglobati e questo inglobamento veniva reso stabile ed ereditabile. Dunque si apre lo scenario che l’evoluzione della vita non sia stata dovuta solo a competizione, ma anche a collaborazione tra le specie».

Il modello evolutivo diviene così assimilabile più a una rete che a un albero, in quanto si basa sul principio del mutualismo che comporta il «fare un’azione in vantaggio di un altro, ma per salvare se stesso», per cui «un batterio si evolve per salvare il verme dove vive». Pertanto se nella «simbiosi una delle due specie soltanto ci guadagna dalla convivenza, nel mutualismo nessuna delle due specie conviventi potrebbe sopravvivere senza l’altra». Di qui, per esempio, il pesce pagliaccio e gli anemoni si proteggono reciprocamente dai rispettivi predatori, oppure «l’ape senza fiore morirebbe di fame; così come certi fiori senza ape non potrebbero riprodursi». Allo stesso modo, se non vi fosse tale mutualismo nell’occhio umano tra retina, cornea e cristallino non vi sarebbe alcuna possibilità di visione solo con l’uno senza l’altro. Inoltre uno studio recente sulla pianta Arabidopsis thaliana (arabetta comune) ha rilevato sorprendentemente che i «geni essenziali alla sopravvivenza sono i più protetti dalle mutazioni», il che conferma ulteriormente il fatto che non tutto avviene secondo selezione naturale e in maniera casuale.

La bioeticista messicana Velázquez ripercorre le tappe più significative della storia dell’evoluzionismo, evidenziando in particolare le ricadute in ambito culturale, economico e politico del darwinismo sociale, dalle leggi razziali all’eugenismo e all’ideologia gender contemporanei, i quali in nome di pseudo ‘diritti civili’ non fanno altro che perpetrare tale logica del più forte, sconfiggibile anche sul piano biologico da forme di mutualismo, collaborazione e solidarietà tra le diverse forme di vita.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

L’Uomovivo secondo Chesterton

«Abbozzai la storia di un tale d’animo buono, che andava in giro con una pistola e la puntava a bruciapelo contro il pessimista, se mai diceva che la vita non valeva la pena di essere vissuta». Così Chesterton presenta nella sua Autobiografia il romanzo Uomovivo (pp. 217, 2022), pubblicato recentemente in una nuova veste editoriale insieme a otto articoli inediti dalla Società Chestertoniana Italiana, la casa Editrice Leardini e il Centro Missionario Francescano.

Pubblicato nel 1912, Manalive è un romanzo per certi versi autobiografico, in quanto il protagonista Innocent Smith ama girare con la pistola proprio come il suo autore, il quale «andò a sposarsi davvero con una pistola in tasca perché diceva che non esistono matrimoni prudenti», come ricorda nella prefazione al volume Marco Sermarini, presidente della Società Chestertoniana Italiana.

In effetti «Innocent si prende la briga di saltare il muro di Casa Beacon e vi porta lo scompiglio dell’ortodossia, calca in testa allo scientista dottor Warner il suo cappello perché è depresso e questo è sbagliato perché ogni uomo è un re e il suo cappello è la sua corona e quindi l’uomo comune vale come il re; punta la pistola in faccia al rettore Eames perché rinsavisca e così possa rinsavire lui stesso!».

Costruito sul ciglio del paradosso, l’obiettivo di Manalive consiste proprio nel decostruire con armi quali «l’amore per l’ortodossia e il senso comune l’eresia che guasta l’uomo e il suo cervello e così questo mondo per cui combattere da patrioti cosmici», come sottolinea Sermarini. Ecco perché la pistola di Innocent è puntata fuor di metafora contro l’uomo moderno e la sua visione ideologica del reale: «Tutto ciò non è solo una questione personale di Innocent. Chesterton ci indica quale sia la nostra vera patria, che è di là ma che costruiamo già da qua. Dice infatti Innocent: “Alla fine del mondo, alle spalle dell’aurora, troverò la sposa che veramente sposai e la casa che è veramente casa mia”, e più avanti: “Dio mi ha ordinato d’amare e di servire un determinato luogo, e mi ha fatto fare, in onore di esso, una quantità di cose anche bizzarre, affinché questo luogo potesse servirmi a testimoniare, contro tutti gl’infiniti e tutti i sofismi, che il Paradiso è in un qualche posto e non dappertutto: è qualche cosa di preciso e non già qualsiasi cosa”. Inoltre questa regola Innocent la applica su di sé per il bene dei suoi occasionali amici, per il cui cambiamento fa il tifo», evidenzia acutamente ancora il presidente della Società Chestertoniana Italiana.

 L’umorismo chestertoniano è il filo rosso non solo di Uomovivo, ma anche degli articoli inediti pubblicati in appendice a tale romanzo. Di qui la cifra di un matrimonio riuscito è proprio, secondo l’ideatore di padre Brown, l’incompatibilità tra i coniugi. Infatti, scrive Chesterton, «finché un matrimonio è basato su una ben salda incompatibilità di carattere, quel matrimonio ha una buona probabilità di continuare a essere un matrimonio felice, perfino romantico. Qualcuno ha detto: “Finché gli innamorati riescono a litigare sono ancora innamorati”».

Relativamente alla poesia della vita quotidiana, con la saggia ironia che contraddistingue la sua penna, afferma in un altro articolo: «Le scarpe che porto, non dirò che siano belle sui monti ma sono almeno profondamente simboliche in strada, perché sono le scarpe di uno che reca la buona novella. La sedia su cui mi siedo è veramente romantica, anzi, eroica, visto che è costantemente in pericolo. I lampioni sono poetici, per cause non solo accidentali ma essenziali. Non si tratta semplicemente di commoventi associazioni sentimentali connesse ai lampioni, la bellezza del fatto che ad essi venissero appiccati gli aristocratici o che vecchi signori sbronzi se li abbraccino: il lampione porta davvero con sé l’intera poesia dell’uomo, perché nessun’altra creatura può innalzare una fiamma così in alto e custodirla così bene».

Rispetto al bolscevismo, constata che si sviluppò paradossalmente in Russia e non in America, ossia in «un paese che non era particolarmente industrializzato e neanche strettamente capitalista. I bolscevichi furono vittoriosi e furono sconcertati dalla loro vittoria. Il loro trionfo politico fu la loro sconfitta filosofica». E in effetti, secondo la concezione marxista della storia, il capitalismo del mondo industrializzato avrebbe dovuto precedere il collettivismo, cosa che però in Russia non avvenne.

Convintamente realista, condivide profondamente la filosofia di san Tommaso d’Aquino e ne illustra in un articolo il cuore teoretico con stile divulgativo, rilevando come il Dottore Angelico «chiese solo di ragionare a partire dalla propria esperienza. La fede è superiore alla ragione; ma la ragione è superiore a qualsiasi altra cosa e ha diritti supremi nel proprio ambito. È qui che anticipa e risponde al grido antirazionale di Lutero e degli altri; come mi disse un poeta molto pagano: “La Riforma è avvenuta perché la gente non aveva il cervello per capire l’Aquinate”. San Tommaso ha esaltato Dio senza abbassare l’uomo; ha esaltato l’uomo senza abbassare la natura. Perciò ha creato un cosmo di buon senso, una terra viventium, una terra dei vivi. La sua filosofia, come la sua teologia, è quella del senso comune. Non tortura il cervello con tentativi disperati di spiegare l’esistenza, spiegandola. I primi passi della sua mente sono i primi passi di qualsiasi mente onesta; così come le prime virtù del suo credo potrebbero essere quelle di qualsiasi onesto contadino. Perché lui, che combinava tante cose, combinava anche la sottigliezza intellettuale e la semplicità spirituale; e il sacerdote che assistette al letto di morte di questo titano di energia intellettuale, il cui cervello aveva strappato le radici del mondo e trafitto ogni stella e spaccato ogni paglia in tutto l’universo del pensiero e persino dello scetticismo, disse che nell’ascoltare la confessione del moribondo, gli parve improvvisamente di ascoltare la prima confessione di un bambino di cinque anni».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana