«Provo a pregare, ma non cambia niente. Non si può pretendere di vedere risultati come se si trattasse di un diritto che mi sono comprato attraverso una quantità sufficiente di orazioni e parole. Qual è allora il frutto che chiedo iniziando la mia preghiera? Il frutto è il mio rapporto con Dio, perché la preghiera non è un commercio ma una relazione, fatta di dono e di accoglienza del dono. Pregare significa coltivare la mia relazione con Dio, dedicargli tempo e dedicargli cuore».

Va dritto al cuore del tema della preghiera don Carlo De Marchi nel suo Fammi innamorare della mia vita (Ares 2022, pp. 160), un volume che raccoglie una serie di meditazioni rivedute e adattate a partire dai podcast «Meditazioni in tangenziale – per chi vuole pregare un po’ a partire dal Vangelo quando rimane imbottigliato sulla tangenziale». Come spiega il sacerdote milanese, l’atteggiamento adeguato della creatura che prega è quello della gratitudine verso il suo Creatore. C’è poi anche «una preghiera dolorosa che consiste nello stare accanto alla propria croce, amando la volontà di Dio; vuol dire saper dire sì alle persone e alle situazioni che il Signore ci pone accanto».

Nel solco del carisma di san Josemaría Escrivá de Balaguer, l’autore ricorda che la santità si raggiunge attraverso la realtà, il lavoro e la famiglia per portare «luce e affetto lì dove mi trovo già». Una santità che si dispiega nelle pieghe dell’ordinario, laddove «spesso tendiamo a pensare che la coerenza cristiana dipenda dalla decisione ben determinata di cambiare vita. Invece la mia fede, la mia relazione con Dio dipende dal lasciar fare a Lui, rispettando i suoi tempi, dall’accettare che Dio non cambia il mondo, non lo rimette in ordine con un colpo di bacchetta magica, ma è lì povero, un bambino che dipende dai suoi genitori, e anche la sua famiglia sembra appesa a un filo come spesso ci sentiamo e siamo anche noi».

Relativamente al tema del riposo, don De Marchi sottolinea che «siamo abituati a misurare il tempo in termini di efficienza, scadenze, ritardi e recuperi magari in extremis. Gesù invece amava riposarsi con i suoi amici e il Vangelo ci racconta che lo faceva abitualmente, per esempio a Betania, a casa di Marta, Maria e Lazzaro, e nell’Orto degli Ulivi, che prima di essere il teatro dell’agonia estrema del Signore è stato il luogo di tranquille serate trascorse in amicizia». Benedetto XVI lo ha detto chiaramente che «non perdiamo il nostro tempo libero se lo offriamo a Dio. Se Dio entra nel nostro tempo, tutto il tempo diventa più grande, più ampio, più ricco». Il tempo libero è in effetti proprio quello «in cui mi sento liber, cioè figlio che sa di trovarsi sotto lo sguardo affettuoso di suo Padre, e che quindi si sente a casa». Inoltre, «per aiutarci a trovare ristoro, cioè per alleggerire le nostre pesantezze, Gesù ci incoraggia a guardare nella nostra intimità», a non anestetizzare il cuore. Corriamo in effetti «il rischio di subire la nostra vita, che allora diventa un peso insopportabile, laddove possiamo prenderla, accoglierla con amore, come un dono, mettendo in gioco la nostra libertà».

Nell’affrontare il tema della morte, don De Marchi parte dal considerare come attualmente «di fronte alla morte due imperativi sembrano governare la nostra sensibilità: “Evitare di spaventare gli altri” e “Non essere invadenti”, violando la privacy dell’amico, della collega, del vicino di casa che sta vivendo un lutto», laddove al contrario «un balsamo necessario nel lutto è proprio la condivisione degli amici, che aiuta ad affrontare la tentazione di rinchiudersi e restare ammutoliti nel proprio dolore», oltre alla consapevolezza profonda che la dipartita di una persona cara non spezza la nostra comunione in Cristo.

Meditando sulla parabola del Padre misericordioso, lo stesso sacerdote si sofferma sulla sindrome del fratello maggiore, che «ricorda quell’hashtag ricorrente che ripete in modo deluso e disincantato #mainagioia: non funziona mai nulla, non me ne va bene una, e adesso ci mancava solo questa». Eppure il padre che esce a ‘supplicare’, «cioè mette tutto l’impegno necessario per far rientrare il figlio maggiore», rivela che «il Signore mi viene incontro, da vicino o da lontano, e cerca di farmi ‘entrare’, cioè mi aiuta a capire la realtà, ossia la verità su noi stessi». Insomma «riconciliarmi con Dio Padre mi riconcilia con me stesso e mi rende capace di riconciliazione sempre nuova con gli altri. C’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire nella nostra vita, nel nostro cuore».

Nella meditazione su san Giuseppe, don De Marchi sottolinea come il padre putativo di Gesù sia «patrono di chi cerca di scoprire la volontà del Signore nella propria vita quotidiana, di chi vuole vedere la vita intera come vocazione, senza aspettare decisioni straordinarie che portano a lasciare tutto e, per esempio, andare a fare i missionari in terre lontane; di chi resta lì dov’è e cerca di fare tutto quello che è chiamato a fare con una luce vocazionale negli occhi». È in effetti in tale prospettiva che ci si può innamorare davvero della vita quale tempo per amare ed essere amati, per dirla con Papa Francesco, imparando a «vedere la vita ordinaria, quella in cui mi sto muovendo, con una luce nuova, col sorriso di chi scopre una cosa bella».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

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