«Pensavamo di essere padroni del nostro destino, mentre altri, in luoghi che nemmeno immaginavamo e che non necessariamente coincidevano con governi e parlamenti, decidevano per noi». È questa la tesi di fondo del saggio Il sistema in(visibile) (Guerini e Associati 2022, pp. 256) di Marcello Foa –docente di comunicazione all’Università Cattolica di Milano e all’Università di Lugano e già Presidente della Rai dal 2018 al 2021– nel quale l’autorevole giornalista illustra con chiarezza le logiche e le influenze socioculturali di un sistema visibile e nel contempo intenzionalmente invisibile dettato dalle agende delle lobby di potere.

Egli analizza in sostanza il ruolo delle élite, mostrando come sia possibile modellare le masse, cambiare i valori, orientare la politica, l’economia e i media avvalendosi anche delle tecniche di influenza psicologica. D’altra parte «il giornalismo subisce ormai la passione compulsiva del mondo digitale, che oltre a permettere una moltiplicazione delle fonti – ed è senz’altro un bene – ha però generato nuove metriche del successo, ovvero un’ossessione per il consenso per le pagine viste, per i “like” ricevuti, per il numero delle condivisioni: dunque per un approccio che diventa sempre più superficiale, al contempo omologato e omologante, privilegiando una lettura istituzionale della realtà», osserva acutamente Foa.

E in effetti, quando dopo il crollo dell’Urss comunista, gli Stati Uniti diventano di fatto l’unica superpotenza mondiale, si fa avanti l’idea di globalizzazione anche se «in teoria una governance democratica avrebbe dovuto reggersi su un Parlamento del mondo. Washington, allora, ha optato per un sistema di delega alle organizzazioni sovranazionali. Queste, tuttavia, non si basano sulla sovranità popolare e ciò pone un problema al contempo delicato e complesso, che poteva essere risolto solo in due modi: promuovendo una collaborazione internazionale volta a stabilire regole comuni minime, mirate e condivise nel rispetto delle prerogative degli Stati (ed è la multilateralità propriamente intesa), oppure favorendo un’internazionalizzazione spinta, coercitiva, tale da creare progressivamente condizionamenti ineludibili per i singoli Paesi (ed è il nuovo concetto di multilateralismo)».

L’ha spuntata purtroppo la seconda opzione, incentivando la tensione tra gli Stati attraverso la guerra finanziaria (speculazioni per gettare sul lastrico le economie di interi Paesi) ed economica, culturale e tecnologica per il dominio globale. Il mantra “lo chiede l’Europa”, anche e soprattutto in relazione al bilancio di uno Stato, conferma infatti quanto i governi nazionali debbano sottostare a logiche sovranazionali decise a Bruxelles o oltreoceano. Tali logiche sono fortemente orientate se non imposte, tra i vari enti, dalla Banca Mondiale, dal Fondo Monetario Internazionale, dall’Ocse, dalla Nato, dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, da Onu, Unicef, Unhcr, Fao, tutte (o quasi) a trazione statunitense.

Il processo è quasi sempre il medesimo: «in conses­si internazionali, quale per esempio il World Economic Forum, le élite pubbliche e private riflettono sui destini del mondo, ma al contempo individuano le possibili soluzioni. Poi passano all’azione. Preparano l’opinione pubblica con un’adeguata campagna di comunicazione (solitamente am­mantata di buone intenzioni, di cause nobili e di altruismo, ovvero facendo passare il messaggio che si agisce per il bene dell’umanità o per porre rimedio a un’incombente trage­dia). Successivamente, si attiva la governance internaziona­le, secondo Davis “tipicamente attraverso un distributore di politiche che funge da intermediario, come il Fmi o l’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) che ha il potere di indurre i governi nazionali a uniformarsi alle decisioni prese”. Quindi sulla scena appaiono i partner privati, top manager e grandi aziende dichiarano la volontà di contri­buire al successo di questa buona e onorevole causa (che in realtà essi stessi hanno contribuito a ideare) e offrono la loro collaborazione ottenendone – ovviamente – anche un ritorno economico, oltre che strategico e di sistema. I me­dia, stante l’importanza delle fonti, rilanciano questi temi, creando consapevolezza nelle masse. In sintesi: le organiz­zazioni internazionali, i governi nazionali, i grandi gruppi economici, l’opinione pubblica convergono nella stessa di­rezione. E le decisioni ricadono sui popoli, che restano in­consapevoli del processo».

Non è forse questo quanto accaduto, in relazione alla recente pandemia, ossia che quanto stabilito dall’Oms, «forma di partenariato pubblica-privata» (finanziata tra gli altri anche da Bill Gates per il 15%, con la stessa percentuale degli Stati Uniti!), è stato poi pedissequamente assecondato dai diversi Paesi? Per non parlare dello strapotere degli oligopoli in ogni ambito, nell’abbigliamento sportivo con Nike e Adidas; nei sistemi operativi con iOs e Android; nella finanza con Black Rock, Vanguard e State Street, che gestiscono l’equivalente dei 2/3 del PIL americano; nell’e-commerce con Amazon; nei social con Meta di Zuckemberg che detiene Facebook, WhatsApp e Instagram, e YouTube che è un marchio Google che ha invece il monopolio quasi incontrastato come motore di ricerca. In sostanza «il mercato è libero e per i giganti più libero di altri». Basti pensare che solo Apple e Microsoft hanno una capitalizzazione in borsa pari al PIL di almeno il 92% dei Paesi del mondo.

Il rovescio della medaglia di tale capitalismo finanziario altamente speculativo, di cui è un effetto la recente crisi del 2008, è la crescita dell’indebitamento pubblico e privato, nel silenzio complice dei media rispetto all’opinione pubblica; «la stampa infatti non anticipa, non contribuisce a prevenire, semmai asseconda. E amplifica, quando è troppo tardi».

Foa approfondisce il meccanismo della propaganda, alla luce della psicologia delle masse, per la quale si agisce su sentimenti e idee, sollecitandone emozioni, bisogni e volontà, tanto nella dimensione pubblica quanto in quella privata. Una volta erano televisione, musica e Hollywood a contribuire a rendere popolare e desiderabile lo stile di vita americano; «nell’era digitale, gli influencer sui social media, rendendo partecipi i follower della propria vita privata, stabiliscono un rapporto ancora più intimo: ognuno di essi si sente parte di quella famiglia, soprattutto su Instagram, che diviene un Truman Show all’ennesima potenza».

Riguardo ai temi portanti sposati dalle lobby, quali il matrimonio omosessuale o la maternità surrogata, la strategia dello sdoganamento prevede che ciò che è inconcepibile sia prima vietato con delle eccezioni; poi gradualmente diventi sensato, socialmente accettabile e persino legalizzato, fino a divenire addirittura un valore condiviso.

Relativamente al ruolo dei media, si punta a costruire una cornice emotiva nella quale viene poi a svilupparsi tutta la narrazione di un determinato fenomeno, all’insegna del «prima pubblico, poi semmai rettifico», basta che «il titolo o l’articolo, meglio se ottimizzato SEO, conquisti la fiducia dell’algoritmo», tanto il lettore si accontenta di infotainment, «un’informazione di intrattenimento» sulla quale è sollecitato a dire la sua senza particolari riflessioni. Di qui, come si è visto, dalla ‘mucca pazza’ al Covid, si fa leva in particolar modo sulla «paura della malattia mortale quale forma di condizionamento assoluta che può essere strumentalizzata per ragioni politiche, economiche, di controllo sociale o per far avanzare agende».

Così per i social, che ci conoscono più di noi stessi, siamo non tanto il prodotto, quanto la materia prima da cui il nuovo capitalismo digitale estrae ogni dato di cui necessita per foraggiarsi. La manipolazione ad personam diviene dunque, col supporto delle neuroscienze e dell’intelligenza artificiale, l’ultima frontiera di una ‘guerra cognitiva’ in grado di influenzare capillarmente ciascuno perché ne conosce interessi, gusti e preferenze meglio di se stesso. Si tratta allora di inventare nuovi spazi di libertà e pluralismo capaci di aggirare la censura dei motori di ricerca e la cancel culture, preservando la dimensione democratica da tale omologazione conformante delle élite.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

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