Salimbene da Parma è un francescano vissuto nel Duecento. È un uomo con il suo temperamento e le sue idiosincrasie. Non sa a memoria solo la Bibbia, ha una biblioteca nella testa. Per lui la Bibbia è un gigantesco manuale di istruzioni per l’uso del mondo». Con queste parole Alessandro Barbero introduce in Donne, madonne, mercanti e cavalieri, recentemente ripubblicato da Laterza, la prima di sei storie paradigmatiche di un’intera epoca, quella medievale, facendone emergere – da una prospettiva di non credente – alcuni aspetti oggi misconosciuti. Salimbene da Parma, Dino Compagni e Jean de Joinville sono rispettivamente un frate, un mercante e un cavaliere; Caterina da Siena, Cristina da Pizzano e Giovanna d’Arco sono tre donne che per carattere e consapevolezza del proprio ruolo e compito hanno segnato il corso dei secoli medievali.

Figlio di un cavaliere, Salimbene viene ostacolato dal padre che non voleva assolutamente che diventasse frate, in quanto già l’altro suo figlio aveva intrapreso tale strada per cui nessuno dei due avrebbe potuto ereditare lignaggio e patrimonio. Di qui il padre scrive addirittura all’imperatore Federico II perché lo aiuti a riportare suo figlio a casa, poi si reca personalmente al convento per riprenderselo, intimandogli di non credere a questi «piscia-in tonaca che ti hanno incantato» e lo maledice. Ma quella stessa notte Dio premia Salimbene con un sogno in cui la Vergine con il Bambino in braccio «gli fan capire di aver agito bene». Salimbene giudica i ricchi dalla capacità che manifestano di saper condividere i propri beni materiali, vino compreso. Nella sua cronaca del tempo racconta tanti aneddoti legati ai suoi viaggi, prestando attenzione alle differenze culturali; in particolare si sofferma sull’incontro con Luigi IX di Francia quando, in abito di pellegrino, il sovrano ha sostato presso il suo convento, mentre era in viaggio per la crociata.

Dino Compagni è invece un mercante «di import-export di panni» nella Firenze delle lotte intestine tra guelfi e ghibellini; un uomo d’affari che ritiene la politica una «gara di uffici». Jean de Joinville è un cavaliere al seguito di Luigi IX e autore di una celebre biografia sul re santo. La giornata del sovrano, come quella di un cristiano nel Medioevo, o «di un gran signore che non deve lavorare, cominciava sempre con la Messa. Luigi è uno che dimostra continuamente la sua santità, e la gente è sbalordita. Accade che fuori dall’accampamento dei crociati siano rimasti i cadaveri dei morti dell’ultima battaglia. Si sono dimenticati di seppellirli. Un bel pomeriggio il re esce dalla tenda, si rimbocca le maniche e va a seppellirli». Questa è soltanto una delle tante opere di carità legate alla fama di santità che lo contraddistinse già in vita. La sua umiltà è tale che un Giovedì Santo si china personalmente a lavare i piedi ai poveri che incontra.

«Pochissime, invece, le donne che nel Medioevo hanno scritto di sé, o parlato di sé con altri che trascrivevano le loro parole». Santa Caterina è una di queste, «una donna autorevole che sapeva farsi ascoltare» da re, cardinali e pontefici. In un’epoca considerata pregiudizievolmente maschilista, «Caterina è una delle persone più ascoltate» e il suo ruolo politico è decisivo per il ritorno del papato a Roma dopo lo scandaloso periodo di cattività avignonese. Ella scrive parole di fuoco contro la corruzione dei prelati che pensano solo ai propri interessi, «assimilandoli a una donna che partorisce i figliuoli morti». La santa si offre in prima persona come vittima d’espiazione per i peccati non solo dei suoi familiari. In un’esperienza mistica, emblematica della sua missione, mentre i demoni la percuotono, «il suo cuore strappato dal corpo sale in cielo e Dio prende il suo cuore e lo stampa sulla Chiesa perché tutta la Chiesa senta la sua voce attraverso il cuore di Caterina». Santa Caterina, per dirla ancora con lo storico torinese, è insomma «una donna che si muove a 360 gradi nel mondo del potere, invasata dell’amore di Dio, e che sa quando è il caso di intervenire anche in cose molto concrete».

 «Cristina da Pizzano è la prima donna che ha concepito se stessa come scrittrice di professione, che si è guadagnata da vivere ed è diventata famosa scrivendo libri». Figlia del medico e astrologo personale di Carlo V il Saggio si trasferisce alla corte francese. Assolda copisti e miniaturisti; nelle illustrazioni si fa ritrarre coi suoi manoscritti. Scrive di politica, che le tasse bisogna pagarle, e intervista i cavalieri, redigendo un manuale sull’arte militare. Scrive anche La città delle donne, un romanzo sul ruolo delle donne «nella storia e per la vita dell’umanità», in cui decostruisce tanti luoghi comuni, mostrando come all’origine di tante invenzioni ci sia proprio la donna come, per esempio, il mito di Aracne dietro l’invenzione della filatura. Nel 1429, nel silenzio dell’abbazia dove si è rifugiata ad aspettare in preghiera la morte mentre i Borgognoni prendono Parigi, scrive Il poema di Giovanna d’Arco in cui celebra la grandezza di una donna alla testa di un esercito per liberare la Francia dagli Inglesi.

 La Pulzella d’Orleans è la più celebre donna del Quattrocento. Di lei abbiamo i testi di entrambi i processi, il primo imbastito dagli Inglesi per condannarla a tutti i costi; il secondo autorizzato da papa Callisto III, per nullificare il primo, ascoltare i testimoni e ‘santificarla’. Jeanne Romée, più che d’Arc, in quanto nel suo villaggio le donne prendono il cognome della madre, è la figlia analfabeta di un contadino ricco; «va sempre a messa, non solo la domenica, e si confessa il più possibile». Giovanna scappa di casa per comunicare al re che Dio le ha detto di voler salvare il regno di Francia ponendola a capo dell’esercito. Alla commissione che non le crede, anzi le obietta che non si è mai sentito di una donna in armi, Giovanna replica che «il Signore ha un libro che nessun chierico ha mai letto, per quanto sia istruito». La Pulzella combatte in prima linea, viene ferita quattro volte e in tre mesi contribuisce in maniera decisiva alla vittoria nella Guerra dei Cent’Anni.

 Caduta infine nelle mani degli Inglesi, viene processata come eretica anche per aver osato vestirsi da uomo. Barbero si sofferma sul dibattimento processuale dell’Inquisizione o meglio, presunta tale, evidenziandone le numerose irregolarità e incongruenze: si trattava infatti di un processo nullo, perché tutto era sotto il controllo degli Inglesi, che tra l’altro negarono a Giovanna l’appello al Papa e la tennero prigioniera in un castello da loro controllato, impedendo che fosse custodita in carceri ecclesiastiche, come sarebbe avvenuto in un processo regolare. Barbero rileva come la santa sia stata irreprensibile in ogni sua risposta, sebbene i giudici abbiano cercato in tutti i modi di coglierla in fallo. Nel processo-farsa a santa Giovanna d’Arco, in effetti, il rogo si giustifica quale pena per una relapsa (“ricaduta” nella colpa) che ha osato indossare ancora abiti maschili (per proteggere meglio la sua verginità, come spiegò la santa), testimoniando fino al martirio l’origine divina della sua missione.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

 

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