Con la ripresa delle attività parlamentari si riaccende in aula anche il dibattito sul Ddl sul fine vita. Una proposta – avanzata da parte del centrodestra – spesso edulcorata come una sorta di “male minore”, ma che in realtà è e rimane irricevibile come irricivibile sarà sempre qualsiasi proposta che anche solo leggermente intende consentire il suicidio assistito. A tal proposito abbiamo raccolto il parere di un’autorevole bioeticista, la dottoressa Giulia Bovassi, docente e ricercatrice associata in Bioetica Università Anáhuac, in Messico, e ricercatrice presso la Cattedra Unesco in Bioetica e Diritti Umani aRoma. La stessa è anche membro esperto in Bioetica CET della Regione Marche e speaker invitata presso le Nazioni Unite nella Commission on the Status of Women..
Dottoressa Bovassi, esiste un “diritto” a morire?
«Ciò di cui si sta discutendo in Parlamento parte eludendo proprio questa domanda di fondo: “Esiste un diritto a morire?”. Perché se esiste richiama un dovere, per cui al dovere di vivere corrisponderebbe un ‘dovere di morire’. I promotori di un simile diritto da un lato fanno leva su una visione esasperata dell’autodeterminazione quale controllo assoluto sulla propria vita; dall’altro assimilano l’eutanasia al rifiuto legittimo di trattamenti sproporzionati nella fase terminale della vita, ovvero all’accanimento terapeutico, ritenendo perciò necessaria una legge sul fine vita. Di conseguenza il presunto ‘diritto a morire’ trasforma poi un fantomatico desiderio in diritto, cosa che di per sé provoca la morte del diritto perché ne nullifica il senso. In una scala gerarchica di valori presupporre che l’autodeterminazione sia un principio primario rispetto al diritto inalienabile alla vita è una palese contraddizione, perché il presupposto dell’esercizio della libertà è che ci sia la vita stessa: una libertà che si dirige in senso distruttivo contro la vita non è una libertà in linea con la natura e il senso del diritto, chiamato invece a tutelarne l’esercizio.
Quali sono le criticità giuridiche del disegno di legge sul fine vita attualmente in discussione?
«Il Ddl Zanettin-Zullo, originariamente, era stato presentato come disposizioni esecutive della sentenza della Corte Costituzionale n.242 del 22 novembre 2019. Ora si vuole cambiare il titolo con un’enorme ipocrisia, facendo riferimento alle cure palliative e alla non punibilità di chi agevola il suicidio. Di fatto però – negando la natura stessa delle cure palliative e proceduralizzando l’evento del morire sulla base di una sentenza che definisce i criteri per depenalizzare chi aiuta il suicidio assistito in determinate condizioni – si tratta a tutti gli effetti di una legge sul suicidio assistito. Allora il suicidio è un valore? Il suicidio è un bene? Se lo si considera tale si può procedere, ma se lo si considera un male in sé in senso oggettivo, allora non è legittimo procedere in senso normativo. Ammetterlo in determinate circostanze significa automaticamente negare che il suicidio assistito sia un male. Come potrà dunque lo Stato proporre ragionevolmente la prevenzione al suicidio? Eppure il codice penale al n.580 non punisce il suicida – perché sarebbe assurdo andare a gravare ulteriormente su chi è esausto della vita e in situazioni evidentemente di profonda disperazione – ma chi invece non riconosce il dovere civico e umano di salvare una vita, cioè quello di restituire a chi è esausto il valore che non riesce più a riconoscere nella propria esistenza. Andando pertanto a legiferare in chiave contraria all’ordinamento penale vigente, lo Stato mancherebbe di integrità nei confronti di se stesso, perché attualmente si riconosce un valore etico negativo al suicidio. Un altro aspetto critico della legge è poi legato alla pressione sociale indiretta della sentenza 135 della Corte Costituzionale, la quale porterebbe a una normalizzazione e accettazione del suicidio a determinate condizioni, alimentando una ‘mentalità dello scarto’ già profondamente radicata soprattutto nei più fragili come nei loro familiari che fanno tanti sacrifici per assisterli. Verrebbero così minati sia il principio di solidarietà, sia le stesse cure palliative. D’altra parte se l’obiettivo è la cura del sofferente, sarebbe stato sufficiente agire sulla legge 38/2010. E ancora, nel ddl si parla ambiguamente di intollerabilità della sofferenza, senza tener conto dei fattori che offuscano la lucidità del paziente. Infine è doveroso ricordare che la Corte Costituzionale non obbliga il legislatore e che le Regioni non possono legiferare in materia perché è un onere che, data la rilevanza penale, spetterebbe semmai al Parlamento. Insomma nessuno dovrebbe arrogarsi l’autorità di definire criteri e condizioni per cui una vita cessa di essere degna di essere vissuta».
Alcune realtà cattoliche sostengono sia il “male minore”. È d’accordo?
«Anzitutto in materia morale non esiste ‘male minore’ e ‘male maggiore’. Nel momento in cui si riconosce un male in sé oggettivo, qualsiasi scelta sia verso il maggiore o il minore rappresenta la scelta di un male e, in quanto tale, non è mai accettabile. Rispetto ai casi eccezionali, nei suoi interventi magisteriali san Giovanni Paolo II ha ribadito la necessità di fare il possibile per arginare un male maggiore, ma sempre con mezzi in sé buoni. Per quanto riguarda l’effettività del male maggiore il ddl Bazoli si propone sempre in ordine alla sentenza 242, ovvero di ‘morte medicalmente assistita da somministrarsi in modo autonomo’, ma comunque potrebbe essere soggetto ad estensioni; così come, rispetto alla proposta del centrodestra, si stanno già avanzando tiepide aperture rispetto al ruolo del servizio sanitario nazionale».
Secondo Lei quale, invece, dovrebbe essere la posizione del laicato cattolico?
«Il tema della tutela della vita viene visto come un tema confessionale, ma in realtà il codice deontologico medico, il giuramento di Ippocrate, e il nostro codice penale – che ha un impianto personalista – tutelano la vita e la difendono anche da atti medici magari finalizzati proprio a procurare direttamente la morte. Il diritto alla vita è un diritto inalienabile universale, perché si riconosce nel valore della persona un limite invalicabile. In una società algofobica – ovvero la paura del dolore fisico – è necessario recuperare un pensiero profondo sulla vulnerabilità e sulla fragilità, che comprende non solo i nostri limiti, ma anche la malattia, il dolore, il lutto per una morte, che è una dimensione costitutiva dell’uomo. Infine dobbiamo aiutare chi soffre sulla base di un principio di solidarietà e compassione autentica, e non andare a sopprimere quelle persone che la medicina, purtroppo, per ora, non può guarire».