adolescence

«Lui è innocente. Non ci ha detto niente, non ha fatto niente», gridano tra le lacrime disarmati e sorpresi i genitori di Jamey all’ispettore Bascombe quando alle 6:30 del mattino fa irruzione coi suoi agenti in casa Miller per arrestarne il figlio. Adolescence – miniserie britannica in quattro episodi di grande successo su Netflix – si apre infatti col raid della polizia per arrestare un minorenne di appena 13 anni con la faccia da bravo ragazzo. Bullismo, cyberbullismo, ipersessualizzazione e misoginia sono i temi salienti che emergono nello sviluppo della vicenda di una serie ben sceneggiata e girata, che cattura lo spettatore sin dall’inizio anche per la tecnica di ripresa utilizzata di un piano sequenza singolo per ogni episodio.

Un’unica inquadratura per raccontare in presa diretta tutto quanto accade: il prelievo di sangue, la perquisizione, gli interrogatori registrati e i “no comment” dell’imputato alle domande scomode dell’ispettore, lo sviluppo delle indagini alla ricerca di una verità già preannunciata che viene a galla grazie a foto e telecamere che ne inchiodano il misfatto: il giovane ha pugnalato con sette coltellate la sua amica. Jamie ha una fragilità esistenziale che affonda le radici nella sua bassa autostima: «Sono brutto? Credi che sia brutto?», ripete quasi ossessivamente alla psicologa durante il colloquio con lei. Il movente che lo sospinge a un atto così efferato è sconvolgente: per il tredicenne il problema è che «l’80% delle donne sceglie soltanto il 20% degli uomini».

Questo è quanto professa la community degli incel (forma contratta di “involuntary celibates”, ossia coloro che sono celebi per scelta altrui) cui Jamie aderisce. Costoro condividono solo contenuti radicalmente antifemministi nei forum dedicati e sui social che orbitano nella manosfera (manosphere). Alla stregua dei suoi coetanei anche Jamie è incapace di chiamare per nome emozioni e sentimenti e li demanda spesso a rassicuranti emoji, come se bastassero faccine e simboli per comunicare il proprio mondo interiore in subbuglio.

Adolescence è sostanzialmente un reportage documentale che ha il pregio di sbattere in faccia allo spettatore la realtà nuda e cruda e nel contempo il limite di farlo in maniera soltanto descrittiva, senza nessuna particolare analisi dei temi e problemi che pone. Emergono infatti in special modo l’insignificanza sul piano educativo del mondo degli adulti con genitori ridotti a meri spettatori ignari dei comportamenti dei figli; una totale incapacità della scuola, e dunque dei docenti, di incidere proficuamente nella formazione dei giovani; un’iperdigitalizzazione fuori controllo, della quale gli adolescenti sono le principali vittime; l’analfabetismo emotivo e sentimentale e l’anestetizzazione della coscienza morale di ragazzini pronti a uccidere i coetanei senza farsi troppi scrupoli.

Alla banalità del male degli adolescenti fa eco il dramma e il dolore a posteriori di genitori, spesso completamente all’oscuro di quello che combinano i figli in rete nel silenzio della propria camera, per cui si muovono tra arrendevolezza e sensi di colpa, come se tutto potesse risolversi attraverso una prevenzione improntata esclusivamente al controllo della cronologia web o di quanto scrivano e postano online. Un’educazione così è fallimentare in partenza e le sue macerie sono oggi davanti agli occhi di tutti. Si tratta piuttosto di educare al vero, al bene e al bello; alla scoperta del proprio talento che nella sua unicità ciascuno è chiamato a portare agli altri nel mondo, ma anche a una gestione responsabile dei ‘no’ e della frustrazione, che è quanto più manca in una ‘società senza padri’.

Recentemente il governo inglese ha avanzato la proposta di far vedere questa serie in tutte le scuole. Di qui l’autore di Adolescence Jack Thorne, insieme a Stephen Graham che interpreta il padre del ragazzo, hanno incontrato il premier britannico Starmer e il Ministro della Cultura Nandy per invitarli a considerare «abbastanza urgentemente il divieto di smartphone a scuola e l’istituzione di un’‘età del consenso’ digitale». Che tale misura possa contribuire almeno ad arginare la dipendenza da smartphone è fuori discussione, ma da sola non basta: è necessario che genitori e docenti comprendano che l’identità dei ragazzi non può essere disincarnata e strutturarsi in larga parte solo in rete.

È altresì quanto mai opportuno che genitori e docenti tornino a essere autorevoli, non amici e magari anche complici dei loro figli, ma testimoni autentici dei valori che desiderano trasmettere ai loro figli. Essere adulti (participio passato di adolescere) vuol dire infatti essere “maturi”, ossia quasi in dirittura d’arrivo rispetto al compimento della propria unicità e missione nel mondo. Solo testimoniando tale maturità esistenziale si possono concretamente supportare gli adolescenti (participio presente di adolescere, che allude proprio alla tensione viva verso il compimento di sé, come osserva acutamente Alessandro D’Avenia) a fare altrettanto, a sperimentare nella realtà il senso del limite, imparando mediante il confronto vis-à-vis con il prossimo le proprie risorse e fragilità.

Fonte: Il Timone

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