The carnage – I cannibali: dal film di Polański al Teatro dell’Angelo

Una tragicommedia sulla crisi dei rapporti umani

Basato sull’opera teatrale “Il dio del massacro” della scrittrice francese Reza Yasmina, cui si è ispirato Roman Polański con l’omonimo film del 2011, “The Carnage – I Cannibali” è in scena al Teatro dell’Angelo fino a domenica 21 maggio in un’inedita trasposizione drammaturgica. Sul palco un cast d’eccezione, composto da Max Caprara e Stefano Ambrogi, protagonisti rispettivamente della fiction “Rocco Schiavone” e del film “Lo chiamavano Jeeg Robot”; da Antonella Alessandro, che presta la voce a Samantha di Sex and City, e Alessandra Muccioli, attrice nelle serie “Boris 3” e “La squadra”.

The carnage è una divertente tragicommedia in cui “la verità delle cose minaccia la loro consolante vuota autorappresentazione e i loro valori costruiti sul nulla”. Un invito a cena cela in realtà una “serata sfigata in cui la cena non c’è”, per cui se il cibo manca, saranno i commensali a trasformarsi da subito in feroci e cinici divoratori l’uno all’altro. Due coppie di vicini di casa provano a dialogare, ma non riescono proprio a farlo senza scontrarsi. Parlano infatti usando frasi stereotipate o raccontano cose senza senso, prive di qualsiasi mordente sulla realtà, del tipo: “All’estero è meglio, qui è un disastro”, perché comprendono in fondo che, paradossalmente, “se chiami le cose col loro nome la gente non ti capisce”. Perciò i quattro protagonisti preferiscono nascondere le proprie vite dietro discorsi oziosi, puntualmente interrotti, o domande lasciate cadere senza risposta. Essi sono tuttavia consapevoli che, dietro la futilità di determinate affermazioni, si celi un temibile horror vacui, quello dell’assenza di senso del proprio esistere, che emerge in tutta la sua dirompente forza, allorquando non ci sono più buone maniere e apparenze da salvaguardare. “Non siamo in grado di affrontare il più piccolo inciampo”, “Quello che più mi affligge è il senso di vuoto”, “Ci siamo divorati a vicenda. I nostri figli sono il nostro pasto quotidiano” sono allora sporadici barlumi di una presa di coscienza che si costruisce progressivamente fino alla consapevolezza di essere una “massa informe che costruisce sul nulla e fluttua sul vuoto”. Una volta estromesso Dio dalla propria esistenza, l’esasperazione di una simile consapevolezza raggiunge il culmine nell’assurda ‘divinizzazione’ di un criceto.

I cannibali è uno spettacolo godibilissimo nel quale si riesce a ridere di gusto anche sulla vacuità amara di certe relazioni umane, grazie soprattutto all’ottima prova interpretativa dei quattro protagonisti, i quali si destreggiano in un non facile cambio di toni, che oscilla amabilmente tra il serio e il faceto, in cui però l’anelito a una reale e autentica conoscenza del vicino, ossia dell’altro, del ‘prossimo’, rimane drammaticamente disatteso. Il sipario può allora chiudersi con un bel brindisi “al vuoto, al nulla e al niente”.

Fonte: FarodiRoma

I baroni contro la vita: la Jessen non entra in ateneo

La dittatura del ‘politicamente corretto’ colpisce ancora. All’Università di Roma Tre non si può parlare d’aborto. È stato infatti censurato l’incontro pubblico di Gianna Jessen con gli studenti universitari, in programma questo pomeriggio alle 15 presso l’aula 17 del Dipartimento di Studi Umanistici in via Ostiense. La Jessen avrebbe dovuto semplicemente parlare di sé e raccontare la sua storia. Eppure questo diritto le è stato negato. Perché? Semplicemente perché la Jessen è “nata per un aborto salino”. Si legge questo sul certificato di nascita di Gianna, la quale è incredibilmente sopravvissuta a tale cruenta pratica abortiva diffusa negli Stati Uniti e riservata a feti di ormai 6 mesi. Anche a Gianna è stata iniettata una soluzione salina che avrebbe dovuto corroderla perché fosse partorita morta il giorno seguente. Ma, con grande sorpresa di tutti, Gianna ha potuto venire alla luce, grazie soprattutto al soccorso di un’infermiera che la fece trasferire repentinamente in ambulanza dalla clinica a un ospedale. “Il medico che avrebbe dovuto abortirmi non ha vinto  ̶  afferma la Jessen in una testimonianza pubblica tenuta al parlamento di Victoria in Australia, il cui video sottotitolato in italiano è reperibile su YouTube,  ̶  anzi ha dovuto firmare il mio certificato di nascita. Io sono la bambina di Dio!”.

Organizzato in collaborazione con CitizenGo, Notizie ProVita e La Quercia Millenaria onlus, l’evento è stato promosso dagli Universitari per la Vita, un’associazione studentesca “apartitica e aconfessionale, che s’impegna a diffondere la ‘cultura per la vita’ negli atenei italiani a partire da quelli della capitale, promuovendo campagne di sensibilizzazione, attività di formazione ed eventi e coinvolgendo studenti di diverse nazionalità anche attraverso degli aperitivi in università, allo scopo di tutelare e custodire il diritto alla vita di ogni essere umano dal concepimento alla morte naturale”.

Secondo ‘voci di corridoio’ già il titolo dell’evento, “Sopravvissuta all’aborto”, avrebbe infastidito alcuni professori, avvalorando il loro pregiudizio che in università si sarebbe svolto “un incontro contro l’aborto”. Di qui, probabilmente dopo aver guardato le altre testimonianze della Jessen in rete, tali docenti avrebbero giudicato il personaggio ‘scomodo’, anche perché “colpevole, sul piano politico, di sostenere in America la destra repubblicana”. Insomma, senza ascoltarla dal vivo, costoro hanno deciso preventivamente che il suo stile sarebbe stato poco dialogante e dunque non idoneo a un’aula universitaria. Così, a meno di ventiquattro ore dall’evento, gli Universitari per la Vita si sono visti negare la concessione dell’aula precedentemente accordata, in quanto la richiesta della stessa sarebbe stata improvvisamente valutata invalida sul piano formale. Il Consiglio della Facoltà di Lettere ha infatti contestato al gruppo di non aver indirizzato correttamente tale richiesta, deliberando che l’incontro con la Jessen fosse confinato in uno spazio ritenuto più congruo all’iniziativa, ossia quello della Cappellania di Roma Tre nei pressi della Basilica di San Paolo fuori le mura. Se il motivo fosse stato soltanto di natura burocratica, un’aula libera si sarebbe magari comunque potuta trovare anche all’ultimo momento. I fatti lasciano invece presagire che la motivazione è di ben altra natura. “Siamo esterrefatti da questa scelta liberticida – ha commentato Filippo Saverese di CitizenGo Italia. Si dimostra che esiste un regime di pensiero che impedisce ad alcune persone di esprimere liberamente e democraticamente il loro pensiero, violando la Costituzione”.

Adottando un simile ostruzionismo, l’università che da un lato invoca il dialogo, dall’altro lo nega di fatto a priori e, privando i suoi studenti dell’opportunità di un sereno e fecondo confronto sul tema dell’aborto, di fatto ne squalifica la riflessione sul piano razionale, relegandolo alla sfera confessionale. Eppure, contrariamente a quanto si potrebbe presumere, il motivo per cui in Italia i ginecologi obiettori sono 7 su 10 è di carattere scientifico, non certamente religioso: i loro occhi vedono la realtà del concepito e, in larga parte, agiscono di conseguenza, tutelandone il diritto alla vita. Essi son ben consapevoli che alla terza settimana dal concepimento, a soli 21 giorni, il cuore di ogni figlio comincia a battere prima ancora che sua madre s’accorga di essere incinta. Nella sua singolarità, questo dato scientifico è sufficiente a testimoniare che l’ideologia può soltanto mistificare ed edulcorare la realtà, ma la natura umana dell’embrione non può che essere riconosciuta da uno sguardo libero da pregiudizi.

Fonte: LaNuovaBussolaQuotidiana

“L’origine del mondo” al Teatro India

Un ‘quadretto familiare’ psicopatologico

L’origine del mondo, ossia il Ritratto di un interno scritto e diretto da Lucia Calamaro, è “una storia di donne, una storia di legami familiari”. In scena al Teatro India fino al 18 maggio questo dramma, che ha già vinto tre prestigiosi premi Ubu, catapulta lo spettatore “in un mondo fatto di elucubrazioni e quotidiano”, alle prese con “una famiglia che ha l’abitudine di scandagliare il reale mentre mangia, chiacchiera, si veste”. Lo spettacolo offre “squarci di forte intensità, capaci di toccare le corte profonde e più intime senza sottrarsi a momenti di disperata allegria e irrefrenabile ironia”.

La scena si apre su Daria, una madre sorpresa dalla figlia durante la notte a frugare nel frigo di casa in caccia di qualcosa di buono, di qualcosa che possa almeno illuderla di essere in grado di risollevarsi dal proprio stato di depressione cronica. Daria vive infatti in “un lutto permanente”, convinta della veridicità di quanto le diceva la zia Brunilde: “Più hai guai, più sai”. Cinica come tutti i suoi simili, si è ormai convita che “la gente ama solo la tua parte vitale, del tuo dolore non gliene frega niente”. La madre della madre, più esaurita della figlia, invece di tirarla su, continua a ripeterle con insistenza: “Tu non ne hai azzeccata una in vita tua” e la definisce, non troppo bonariamente, “una sfollata della vita”. In tale contesto familiare non c’è scampo naturalmente nemmeno per la figlia di Daria, che respira la stessa aria viziata della madre e della nonna. A nulla serve la figura della psicoanalista, “idraulica dell’anima” assolutamente impotente dinanzi alle paturnie mentali e alle attuazioni di meccanismi ‘copionali’ ereditati di madre in figlia. Così, dalle parole della donna che ha alle spalle il vissuto più lungo, emerge il leit motiv delle loro grame esistenze e il mistero sotteso alla stessa ‘origine del mondo’: “Stare nella noia senza affogarsi è il vivere”. “In fondo – riflette infatti l’autrice del dramma – da cosa è composta la vita di un essere umano: un corpo e i suoi andazzi, una mente e i suoi rovelli, le cose e la necessità di gestirle, e poi gli altri, sotto forma di affetti, rivali, problemi, salvezza, ristoro, passione, legami, vantaggi, limiti”. Colto limitatamente ai suoi aspetti negativi, un legame familiare così degradato si rileva purtroppo alla fine incapace di incidere positivamente e di rendere conseguentemente meno triste la vita delle tre protagoniste, complice probabilmente anche l’assenza di figure maschili.

Per questo motivo soprattutto Daria rimane “agita dal suo inconscio” e del tutto priva di relazioni autentiche che la liberino della sua tristezza irrimediabilmente radicata nella sua vita psichica e sociale. Rimangono solo i legami rapporti nevrotici e sclerotizzati con “le cose, che allontanano da un pensiero che ti divora”. Tali legami sono gli unici capaci di incidere. Lo attesta una divertente ‘apologia dello straccio’. In tal senso “qualsiasi esperienza del reale può salvarti”.

Sebbene il testo sia costantemente infarcito di filosofemi certamente non facili da ricordare, è stata davvero intesa la performance interpretativa delle attrici protagoniste Daria Deflorian, Federica Santoro, Daniela Piperno, nei panni di tre donne che danno libero sfogo al proprio ‘flusso di coscienza’ perennemente in bilico sul crinale di una ‘crisi di nervi’.

Fonte: FarodiRoma

Le visite dell’Angelo del Portogallo ai tre pastorelli di Fatima

“Un giovane di quattordici o quindici anni, più bianco della neve, che il sole faceva diventare trasparente come se fosse di cristallo e di una grande bellezza”. Con queste parole suor Lucia descrive le sembianze corporee dell’angelo che le si manifesta a Fatima, mentre era insieme ai suoi cugini Francesco e Giacinta, presentandosi come l’angelo della pace, l’angelo custode del Portogallo. Egli dapprima “insegna ai tre fanciulli un’orazione di adorazione alla Santissima Trinità”, poi li “sollecita a realizzare una missione che consiste nell’offrire sacrifici in riparazione per i peccati dell’umanità, in onore e per amore dei Cuori santissimi di Gesù e di Maria”.

Pochi sanno che i tre pastorelli furono preparati a ricevere le apparizioni mariane proprio dalle visite di un angelo. Così nella primavera del 1916 essi apprendono la celebre Preghiera dell’angelo, che egli stesso insegna loro a recitare come una giaculatoria: “Mio Dio, io credo, adoro, spero e vi amo. Vi chiedo perdono per quelli che non credono, non adorano, non sperano e non vi amano”. L’estate successiva l’Angelo del Portogallo li invita nuovamente alla preghiera, ma anche a offrire penitenze e sacrifici di espiazione per la conversione dei peccatori. Orazione, adorazione e riparazione sono dunque il leit motiv delle tre visite dell’angelo, una “preparazione celeste” alle apparizioni della Vergine in Cova d’Iria. Suor Lucia ricorda con gioia il senso di grande pace che le rimase nell’animo anche dopo tali visioni. Perciò scrive: “La forza della presenza di Dio era così intesa, che ci avvolgeva totalmente e quasi ci annientava. Le nostre anime erano completamente sommerse in Dio”. Durante la terza apparizione l’angelo dona la Santa Eucarestia sotto le specie del pane a Lucia e del calice a Francesco e Giacinta, sacramento di comunione e segno visibile del loro ardente desiderio di compartecipare, mediante l’offerta delle proprie sofferenze, all’agonia di Cristo nelle membra del suo Corpo mistico, cioè la Chiesa, per espiare le colpe dei peccatori. Riconosciuta la preziosità di tale dono della Santa Comunione e consapevole che sarebbe morto in età prematura, il piccolo Francesco, nonostante la sua tenera età, se ne stava di ritorno da scuola tutto il giorno in ginocchio per adorare “Gesù nascosto” nel tabernacolo.

Così gli angeli sono i protagonisti anche di una visione tanto bella quanto vera e confortante che interviene a controbilanciare quella tremenda precedente dell’inferno e delle persecuzioni la Chiesa: “Sotto i due bracci della Croce c’erano due angeli ognuno con un innaffiatoio di cristallo nella mano, nei quali raccoglievano il sangue dei Martiri e con esso irrigavano le anime che si avvicinavo a Dio”. Queste parole scritte da suor Lucia sono state mirabilmente approfondite sul piano teologico da papa Benedetto XVI che ne ha rivelato la natura profetica: “La visione della terza parte del segreto, così angosciosa all’inizio, si conclude con un’immagine di speranza, nessuna sofferenza è inutile, ma una Chiesa sofferente, una Chiesa di martiri si converte per la ricerca di Dio da parte dell’uomo. Inoltre dalla sofferenza dei testimoni deriva una forza di purificazione e di rinnovamento perché si attualizza la stessa sofferenza di Cristo e trasmette nel presente la sua efficacia salvifica”.

Il legame della nazione portoghese con il ‘proprio’ angelo è confermata non solo da tali apparizioni a Lucia, Francesco e Giacinta ma anche da autorevoli testimonianze storiche. Il sovrano Manuel I il Fortunato stabilì già nel 1514 che in Portogallo vi fosse una processione solenne ogni terza domenica di luglio per “ricordare l’angelo custode che ha cura di proteggerci e di difenderci, affinché continui a concederci la sua tutela e la sua protezione”.

Quella degli angeli custodi della nazioni infatti non è dunque semplicemente una pia tradizione, ma una profonda verità teologica, come osserva don Marcello Stanzione, uno dei massimi esperti di angelologia e parroco dell’Abbazia di S. Maria La Nova a Campagna (SA) nel suo recente volume: Gli Angeli Custodi delle Nazioni. Cent’anni fa a Fatima l’Angelo del Portogallo parlava ai tre pastorelli (pp. 171, Sugarco Edizioni 2017, € 16). Tale verità affonda le proprie radici nella Sacra Scrittura, in particolare nel libro del Deuteronomio secondo la versione dei Settanta: “Egli fissò i confini dei popoli secondo il numero dei figli di Dio” (Dt 32, 8) e in quello del profeta Daniele dove si parla dell’arcangelo Michele, custode del popolo eletto, e dei ‘principi’ di Persia e di Grecia (cf. Dn 10, 12-21). L’esistenza di angeli tutelari della nazioni è confermata anche dalla riflessione dei Padri della Chiesa. Clemente Alessandrino sostiene che “vi sono degli angeli preposti alle nazioni e alle città”. S. Agostino, nel suo commento al Salmo 88 scrive che: “Quando Dio fece del popolo d’Israele il suo popolo, non chiuse con ciò la fonte della sua bontà alle nazioni straniere, che egli aveva posto sotto il governo degli angeli”. San Tommaso d’Aquino afferma ancora in proposito: “Il compito di vigilare sulle moltitudini umane compete alla gerarchia dei principati o, forse, a quella degli arcangeli”.

Pertanto la missione affidata agli angeli custodi delle nazioni è quella di guidare i popoli, rivelando i disegni di Dio e partecipando al loro giudizio nel giorno della mietitura. Nel caso di Fatima, il fine delle visite dell’Angelo del Portogallo e delle seguenti apparizioni mariane è racchiuso nel significato autentico dell’unico segreto suddivisibile in tre parti e non ancora pienamente compiuto. Sulla scia di quanto rivelato da suor Lucia, il messaggio di Fatima che risuona per l’intera umanità è, per dirla con Benedetto XVI, “l’esortazione alla preghiera come via per la salvezza delle anime e nello stesso tempo il richiamo alla penitenza e alla conversione; con la certezza che il male non ha l’ultima parola”.

Fonte: FarodiRoma

“La vita ferma: sguardi sul dolore del ricordo” al Teatro India

Un ‘dramma mentale’ sulla dolorosa elaborazione del lutto

“Il ricordo rimane indietro e non la smette mai di ripetere quello stesso identico spettacolo che metteva in scena al momento in cui l’avevamo lasciato, quando non era ancora un ricordo”. Queste parole dello scrittore e drammaturgo austriaco Thomas Bernhard esprimono il leit motiv de La Vita ferma, “un dramma di pensiero in tre atti che accoglie, sviluppa e inquadra il problema della complessa, sporadica e sempre piuttosto colpevolizzante, gestione interiore dei defunti”.

Scritto e diretto da Lucia Calamaro, drammaturgo, regista e attrice che ha costruito il suo percorso artistico tra Italia, Francia e Uruguay, La vita ferma è in scena al Teatro India fino a domenica 14 maggio. Il dramma scandaglia la psiche umana con uno sguardo efficace e leggero, nel contempo attento e penetrante da un lato e divertito e tragicomico dall’altro anche dinanzi al ‘grande abisso’ della morte e al dolore lancinante per la perdita di un proprio caro.

Il sipario si apre pertanto su “uno squarcio di vita di tre vivi qualunque – padre, madre, figlia – attraverso l’incidente e la perdita”, su “uno spazio mentale” che, mediante un costante ricorso al flusso di coscienza, è alle prese con la dolorosa elaborazione del lutto. I dialoghi serrati ora densi di filosofemi, ora schietti e familiari, tra un padre e una figlia costretti a convivere con una presenza schiacciante e ingombrante, quella dello ‘spettro’ di Simona, rispettivamente moglie di Riccardo e madre di Alice, sono resi magistralmente dagli attori Riccardo Goretti, Simona Senzacqua e Alice Redini.

Una famiglia sui generis, in cui il dramma prima della malattia e poi della morte di uno dei suoi componenti è vissuto nella spasmodica ricerca di un senso, la quale non può che rimanere disattesa e senza una risposta adeguata in un orizzonte chiuso alla prospettiva della fede cristiana. Per Riccardo, storico comunista che confessa d’aver dimenticato persino come si fa il segno della croce, alla morte non c’è altro rimedio che il ricordo perché i morti sono morti. Punto. Nella prospettiva cristiana invece la malattia e la sofferenza non costituiscono un muro contro cui si può soltanto sbattere invano la testa, ma sono preziose occasioni di grazia per la salvezza propria e altrui, se offerte in unione al sacrificio di Cristo. Inoltre “ai fedeli la vita non è tolta, ma trasformata”, perciò i morti in grazia di Dio sono più vivi degli stessi vivi perché godono di una vita piena nel Signore che li ha redenti.

Non essendo illuminato da tale ottica, il dramma della Calamaro si concentra dunque essenzialmente sulla costante tensione esistente tra la memoria e l’oblio di tale ricordo, in quanto da una parte il defunto ‘vuole’ essere ricordato, anzi pretende che la memoria di lei rimanga viva nella mente e nel cuore dei propri cari; mentre dall’altra la cristallizzazione del ricordo pare condannare inesorabilmente chi rimane ancora su questa terra a una ‘vita ferma’, per cui l’oblio diventa uno strumento altrettanto necessario affinché la vita riprenda il suo consueto flusso. Per questo motivo il ricordo che Riccardo ha di sua moglie deve sbiadire progressivamente fino all’inverosimile, che accade allorquando egli manifesta apertamente a sua figlia, ormai cresciuta e in attesa di un figlio, di non ricordare nemmeno più dove si trovi la tomba di Simona, poiché la vita gli impone ormai di “pensare a lei senza tristezza”. Perché in fondo, secondo l’autrice romana, ogni ricordo doloroso è così, non lascia scampo e pone dinanzi a un bivio: “O ci pensi e ti sfaceli o non ci pensi”.

Fonte: FarodiRoma

Politica come vocazione laicale. La ‘lezione inattuale’ di Giuseppe Lazzati

Mi raccomando costruite l’uomo sono tra le ultime parole sussurrate, in attesa della morte, dal prof. Giuseppe Lazzati. Tali parole sono il manifesto programmatico della sua intensa e tribolata esistenza di laico cristiano impegnato nel mondo e nella Chiesa”. Con queste parole Marcello Stanzione, noto angelologo e parroco dell’Abbazia di S. Maria La Nova a Campagna (SA) introduce la sua biografia del professore e politico milanese: Giuseppe Lazzati. Vita e pensiero di un laico cattolico ‘serio’ (pp. 104, Edizioni Segno, €9).

Nato a Milano nel 1901, il giovane Lazzati si laureò in letteratura cristiana con una tesi su Teofilo d’Alessandria. La pubblicazione del suo studio segnò l’inizio di una brillante carriera accademica. Docente di letteratura cristiana antica all’Università Cattolica divenne infatti prima preside della Facoltà di Lettere e Filosofia, poi Rettore della medesima università negli anni difficili delle contestazioni studentesche. “Deputato nella Democrazia Cristiana, apparteneva alla corrente programmatica e riformista che faceva capo all’on. Dossetti e che molto influenzò la stesura della carta costituzionale”, visse anche dal 1943 al 1945 un periodo di prigionia nei lager nazisti per aver rifiutato di aderire alla ‘proposta fascista’.

La sua fede viva traspare in tutta la sua forza in quest’ultima drammatica esperienza ed è stata fonte di sicura speranza e di luce per sé e gli altri internati. Infatti Lazzati “si premurò per assicurare in quelle condizioni di pericolo la santa messa, organizzò il rosario meditato, il Gruppo del Vangelo, tanto che in pochissimi giorni la figura del biondo professore era nota in tutto il vasto campo e il suo nome in bocca a tutti e le sue parole a sera attesissime”.

A soli diciannove anni, durante un corso di esercizi spirituali, affermò: “Voglio diventare santo. Cercherò anzitutto di possedere le verità della fede con tutta l’anima, di farle succo del mio sangue, perché ad esse ogni mio attimo si conformi. Che cosa è in fondo il cristianesimo? È Cristo in noi”. Approfondendo tale anelito del cuore, egli intraprese presto la strada della consacrazione laicale tra i “Missionari della Regalità di Cristo” di padre Agostino Gemelli.

Lazzati non fu semplicemente un politico, ma è stato soprattutto “un filosofo e un ideologo della politica” , ossia “un mediatore lineare tra fede e storia, attraverso la ricerca della giusta dosatura del loro rapporto e della loro reciproca autonomia”. Egli aveva chiara la propria vocazione di cattolico impegnato in politica per edificare la città dell’uomo in conformità alla città di Dio: “Chi ispira il suo impegno all’amore, vincendo l’avidità e l’egoismo, opera nella linea della crescita vera dell’uomo; chi invece s’ispira alla ricerca del potere per il potere e dell’affermazione egoistica del proprio io, lavora a costruire una città dell’uomo contro l’uomo stesso”. Tuttavia egli riconosceva altresì che “talvolta i cristiani sono stati accusati di attendere alle cose del cielo e di non impegnarsi nelle cose delle terra; se è vero, tutto ciò è assai grave perché li colpisce in un punto nel quale dovrebbero essere modelli perché loro compito primario è di esercitare la loro intelligenza, volontà e abilità per ridurre a servizio dell’uomo tutte le realtà che sono nel mondo; se il cristiano non fa ciò non realizza neanche in misura piena la sua umanità”.

Per favorire la crescita di una società civile retta occorre infatti ribadire il primato della dimensione morale e “operare, da cristiani, la costruzione della città dell’uomo, a misura d’uomo”, nella consapevolezza che “il laico cristiano si santifica santificando la realtà del mondo”. È questa in sintesi la lezione di Giuseppe Lazzati, purtroppo ignorata e disattesa anche da tanti politici che pure si professano cattolici.

Fonte: FarodiRoma

Viganò racconta la comunicazione del “Papa della prossimità”

“La gente veniva a Roma per vedere Karol Wojtyla; veniva per ascoltare Benedetto XVI e viene ora per incontrare Papa Francesco”. Vedere, ascoltare e incontrare sono dunque tre verbi che condensano l’atteggiamento sostanziale dei fedeli nei confronti degli ultimi tre pontefici. Parafrasa l’espressione del cardinal Tauran monsignor Dario Edoardo Viganò, nell’iniziare il suo racconto della comunicazione di Papa Francesco, colui che definisce subito come “l’uomo della prossimità”. Quand’era direttore del Centro Televisivo Vaticano, mons. Viganò aveva raccontato l’ultimo saluto di Benedetto XVI mentre sorvolava su Roma verso Castel Gandolfo. Lo aveva fatto con discrezione, sfruttando tutta la potenza delle immagini e rievocando l’apertura de ‘La dolce vita’ del celebre film di Fellini. Ora egli è prefetto della Segreteria della comunicazione della Santa Sede, e dunque a capo di un progetto di riforma dei media vaticani.

In un’intervista pubblica con Pierluigi Sassi, presidente di Earth Day Italia, mons. Viganò ha focalizzato principalmente la sua attenzione sui diversi aspetti della comunicazione del pontefice argentino: “Questa la differenza e lo specifico di Papa Francesco, che è l’uomo della prossimità. È certamente una prossimità fisica, ma anche legata a situazioni concrete. Nessuno si percepisce come opponente a ciò che lui racconta, cioè il Vangelo di felicità per l’umano. Per questo motivo affascina credenti e non credenti”. Rispetto alle nuove sfide comunicative che attendono la chiesa di Francesco, egli ha sottolineato innanzitutto il contesto postmediale in cui viviamo, ove “i media hanno perso il loro connotato identitario” e la connessione digitale subentra prepotentemente all’incontro reale con una persona. Pur considerando che attualmente “il contagio della fede non avviene più come una volta, imparando una preghiera sulle ginocchia della propria madre” e che “la parrocchia non è più semplicemente un territorio, ma è anche la rete dei legami on-line e off-line, il problema di comunicazione della Chiesa non è un problema di tecnologia”. Non si tratta quindi di trasferire i medesimi contenuti dei bollettini parrocchiali dalla carta stampata al portale, bensì di operare una “convergenza digitale”, ossia di “elaborare contenuti multimediali, immagini, videonews e podcast, sfruttando tutto il potenziale della rete per collegare popoli e culture”. Consapevole che “il Vangelo ha a che fare con la vita concreta delle persone”, Viganò ha precisato scherzando, ma con un giudizio netto: “Non credo si possa arrivare alla cyberparrocchia, un concetto tanto enfatizzato quanto evanescente”.

Nel merito dei contenuti della comunicazione, lo spin doctor del Papa ha evidenziato che quella di “Francesco non è una teologia del vittimismo. Egli insiste sull’uomo peccatore, perché nel peccato scorgo la forza di Dio che si fa carne della mia carne per salvarla. Non che, banalmente, la Chiesa sia oggi di manica larga”. Per sgombrare il campo da fraintendimenti più o meno intenzionali, Viganò ha affermato infatti, senza mezzi termini, che Francesco è ben lontano dal cedere a condizionamenti esterni, anzi “decide molto lui, sulla base di criteri che sono i suoi e non di altri; ha anche molto fiuto e, dove non arriva, domanda”. Per cui, anche allorquando si concede ai selfie, Bergoglio non lo fa in maniera narcisistica, ma perché comprende l’importanza della condivisione, presentandosi “come corpo che si consegna, come carne di Cristo”. Confrontando le immagini del primo affaccio dopo l’elezione da parte del pontefice regnante e di quello emerito, Viganò ha invitato inoltre a notare come, al contrario di quanto ci si aspetterebbe, pare che i due si scambino le personalità, nel senso che “Benedetto XVI gesticola e assume un modo di muoversi da sudamericano, mentre Bergoglio si mostra con le braccia distese lungo i fianchi, come corpo che si consegna”.

Anche se “ha una radio, ma non la televisione”, Papa Francesco si mantiene al passo coi tempi, per essere “compagno della cultura digitale”. Lo ha manifestato, con un linguaggio chiaro e diretto, soprattutto nel suo videomessaggio ai giovani allorquando, mostrando un iPhone, ha sottolineato che senza Gesù non c’è campo. Infine il prefetto della Segreteria della comunicazione della Santa Sede ha rivelato che la stessa scelta del pontefice di visitare le parrocchie periferiche “è strategica, perché dove si muove lui, porta l’attenzione su di esse”, affinché tali realtà non siano considerate come dei dormitori, ma siano riscoperte quali “luoghi di socialità da cui è possibile vedere meglio il centro”. Allo stesso modo Viganò ha ricordato l’autoironia del pontefice argentino, che avrebbe guardato con simpatia ai murales di Borgo Pio che lo ritraevano come un supereroe, per cui chi li ha poi coperti ha reso un cattivo servigio alla genialità del popolo romano.  Insomma, “in un sistema digitale dove tutto è riconducibile a 0 e 1 e in cui la verità sta più nelle sfumature che non nelle polarizzazioni”, è necessario che giornalisti e operatori dei mass media mettano “un paio di occhiali spirituali per raccontare la Chiesa” e la comunicazione di Papa Francesco in maniera adeguata ed efficace all’uomo del nostro tempo.

Fonte: FarodiRoma

“In lotta contro il maligno”. Il nuovo libro di don Marcello Stanzione

 “Bruciante d’amore e di fervore, egli riverbera la luce divina, proiettandola sugli altri angeli, rivelando loro, con la sua intelligenza sublime, la più alta che Dio ha creata, i segreti divini che, solo, egli è atto comprendere quasi nella loro pienezza”. Muove la propria indagine dalla descrizione di Lucifero e dal ‘gran rifiuto’ di adorare il suo Creatore il recente libro di don Marcello Stanzione, uno dei massimi esperti di angelologia e parroco dell’Abbazia di S. Maria La Nova a Campagna (SA) dal titolo: In lotta contro il maligno. Gli spiriti tenebrosi e noi (pp. 185, Edizioni Segno 2017, € 15).

L’angelo più bello e più intelligente di tutti i Serafini, non appena vide Cristo e la Vergine, si rifiutò di prostrarsi in adorazione dinanzi a due persone, il Signore e Maria, che riteneva inferiori a sé per la loro commistione con la materia, sostituendo così di fatto la propria volontà alla perfezione del disegno divino. Allora fu l’inizio della fine per sé e per gli altri angeli ribelli, divenuti demoni allorquando “pretesero fare a meno della beatitudine soprannaturale che Dio offriva loro per cercare in se stessi e con le loro proprie forze una beatitudine naturale”, disprezzando la grazia divina, come ha acutamente osservato San Tommaso d’Aquino. Di qui, come ha sottolineato l’altro grande Dottore della Chiesa Sant’Agostino, “i Santi Angeli, volgendosi verso il Verbo, divennero luce; i cattivi, dimorando in se stessi, divennero tenebre”. Tra gli angeli santi si distinguono anche gli angeli tutelari dei popoli, i quali “hanno la missione di Raffaele, di guidare i popoli. La missione di portare loro il vangelo della redenzione come Gabriele. La missione di eseguire nei loro riguardi le sentenze divine come Michele”, in quanto parteciperanno al giudizio dei popoli. Come infatti hanno rilevato i Padri della Chiesa il numero dei popoli sarebbe fissato proprio in base al numero di tali ‘angeli di Dio’ (Dt 32, 8). Se Michele è l’angelo del popolo eletto, esistono anche dei ‘principi di Persia e della Grecia, come si legge nel libro del profeta Daniele (Dn 10, 13). In tempi recenti l’esistenza dell’angelo del Portogallo è confermata dalle testimonianze dei tre pastorelli di Fatima, mentre per quanto concerne la protezione angelica delle città, “tra il 1392 e il 1395, Valencia è, sembra, la prima città a instaurare un culto civico all’angelo custode municipale”. Come esistono gli angeli dei popoli, esistono tuttavia anche degli spiriti territoriali maligni, come evidenziato in particolar modo dalla teologia pentecostale, il cui compito è quello di ostacolare l’evangelizzazione della Chiesa in determinati luoghi.

Nel volume l’autore affronta anche un argomento piuttosto controverso sul piano teologico, quale quello relativo al destino ultimo delle ‘anime vaganti’, cioè di quelle anime che non hanno avuto modo di conoscere e amare Dio; di quelle persone morte improvvisamente a causa di un incidente stradale o che hanno scelto il suicidio ma senza piena avvertenza, le quali “errano alla ricerca del loro eterno riposo e il cui giudizio finale è ancora sospeso”. Il libro di don Marcello Stanzione presenta infine anche una corposa appendice con tante preghiere e invocazioni di liberazione dagli spiriti maligni e di richiesta di protezione angelica mediante l’intercessione potente di Cristo, della Beata Vergine e di tanti santi.

Fonte: FarodiRoma

Antimafia andina

La risposta al narcotraffico in Colombia

La Colombia è universalmente nota come ‘il paese della cocaina’ nel quale si combatte uno dei conflitti armati interni tra guerriglie e paramilitari/esercito più lunghi della storia dell’America Latina, con effetti devastanti sulla popolazione civile. Quattro milioni di sfollati interni, sei milioni di ettari di terra usurpati, 15mila persone torturate, 60mila scomparse, 80mila esecuzioni extragiudiziarie, 11mila bambini soldato”. Questi i numeri tragici riportati da Cristiano Morsolin nel suo libro Antimafia andina. Il contributo dell’antimafia sociale e della nonviolenza alla Pace in Colombia (pp. 153, Edizioni Antropos, € 14). L’autore, esperto di diritti umani in America Latina dove vive dal 2001, ha lavorato in progetti di cooperazione internazionale ed è stato anche insignito di una menzione dall’ONU proprio per il suo operato in Colombia.

Nel suo saggio Morsolin racconta le ferite profonde di un territorio noto non solo per i suoi conflitti, ma anche per le sue bellezze e i suoi profumi. La Colombia infatti “vanta il caffè migliore del mondo”, è celebre per la purezza dei suoi smeraldi e “detiene il primato per biodiversità per metro quadro”. Purtroppo però questo Paese nel lontano 1987 decise di siglare un accordo di cooperazione internazionale con le mafie, in particolare con Cosa Nostra, per il business della droga. Da allora “c’è un ponte tra Calabria e Colombia lastricato di cocaina e denaro” che fu scoperto per la prima volta proprio dal magistrato Giovanni Falcone. Un losco giro d’affari, in cui rientra anche il nome leggendario di Pablo Escobar, che spesso con la complicità di istituzioni politiche corrotte, miete le sue vittime soprattutto tra i più giovani, per i quali “essere arruolati come sicari dai narcotrafficanti è una promozione sociale”. E così “sono 10.652 i minori di 18 anni assassinati dal 2006”. In una società che vive una costante tensione tra le forze armate rivoluzionarie (Farc) e quelle filogovernative, entrambe parimenti colpevoli di ‘crimini di lesa umanità’ rispetto alla dignità della persona, “la repressione non risolve il problema. Occorre dare una speranza di vita migliore ai campesinos delle zone depresse del Paese che non vedono alternative alle coltivazioni illecite e alla dipendenza dai gruppi armati illegali, promuovendo lo sviluppo integrale e cambiando la mentalità della gente”.

Nonostante il contesto sociale continui a essere difficile ‒ basti pensare che rimane “il terzo paese più diseguale del mondo, dove lo 0,4% dei proprietari possiede il 64% della terra” ‒ non sono mancati negli ultimi tempi alcuni coraggiosi segni di speranza. Nel 2016 il presidente Santos è stato insignito del Nobel per la Pace per l’apertura democratica che avrebbe favorito; padre Franzoi ha lanciato un’iniziativa condensata nello slogan: “No alla coca, sì al cacao”; ma è soprattutto l’impegno costante dell’antimafia sociale, il contributo dell’associazione Libera e di tanti difensori dei diritti umani, frequentemente martiri per la giustizia sociale, a dimostrare tuttora che un’altra Colombia è possibile.

Fonte: FarodiRoma

L’Italia e i Santi. Una storia della ‘dimensione politica’ della santità

“Italia, popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori e trasmigratori”, recita l’iscrizione che campeggia sul Palazzo della Civiltà italiana all’Eur voluto da Mussolini. La santità è dunque  una “manifestazione tra le più significative della religione cristiana, nella costruzione di un’identità italiana”. Lo dimostra chiaramente il recente e pregevole volume L’Italia e i Santi, edito dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani. Si tratta di un progetto editoriale a cura di Tommaso Caliò, Daniele Menozzi e Antonio Menniti Ippolito che intende mostrare come “il tema della santità si intrecci fortemente con la storia d’Italia a partire dalla produzione agiografica erudita diffusa tra il XV e il XVIII secolo con le raccolte territoriali delle vite dei santi”.

Attualmente, secondo le consuete tappe del processo di canonizzazione, bisogna esser proclamati ‘beati’ prima di diventare santi. Eppure “la parola ‘beatificazione’, destinata ad avere una larga fortuna sino ai giorni nostri, fu utilizzata per la prima volta in una lettera che il re di Spagna Filippo II scrisse il 7 ottobre 1585 al conte d’Olivares Enrico de Guzmán a proposito del domenicano Luigi Bertrán, di cui il sovrano auspicava il riconoscimento del culto locale”. La necessità di essere proclamati prima ‘beati’ è stata una novità introdotta a seguito dell’istituzione della Congregazione dei Riti voluta da Papa Sisto V nel 1588. Pertanto “Carlo Borromeo – scrive lo storico Miguel Gotor nel suo saggio – fu l’ultimo santo nella storia della Chiesa a ottenere direttamente l’aureola senza essere stato prima beatificato. Questa, infatti, fu la principale innovazione determinata dalla fondazione della Congregazione dei riti che riguardò lo sterminato campo del riconoscimento dei culti particolari, quelli che sbocciavano a livello diocesano come tanti fiori nelle periferie della cattolicità. Una potente pressione devozionale dal basso che aveva bisogno di essere prima controllata e poi disciplinata mediante la definizione di un nuovo istituto giuridico, quello della beatificazione, che iniziò da questo momento in poi ad affiancare in via preventiva la concessione dell’onore degli altari”. Il primo a esser beatificato, nel 1601, fu invece l’agostiniano Giovanni di San Facondo, morto nel 1479. Di lì a breve seguiranno i nomi celebri di Teresa d’Avila nel 1614 e di Filippo Neri nel 1615. Tale modifica nell’iter di canonizzazione era sostanzialmente finalizzata a “provare a controllare la vera e propria esplosione devozionale che di solito caratterizzava la morte in odore di santità di un defunto carismatico”. Con Urbano VIII la Congregazione del Sant’Uffizio avocava definitivamente a sé la prerogativa di “controllo dei nuovi culti di santità, allo scopo di disciplinare ogni proposta devozionale quando ancora si trovava nella sua fase aurorale”.

L’evoluzione storica del processo di canonizzazione è solo uno dei temi sviluppati in questo volume, che consta di 783 pagine, raccoglie numerosi contributi scientifici di autorevoli studiosi ed è impreziosito da pregevoli tavole illustrative che mostrano attraverso la bellezza del linguaggio artistico tutto lo splendore del Paese dei santi. Tra gli altri temi affrontati nei diversi saggi c’è l’analisi delle devozioni popolari, le feste e i culti nel Settecento. Lo storico Mario Rosa considera il contributo di Ludovico Antonio Muratori a una ‘regolata devozione’ e la ‘pietà illuminata’ del vescovo giansenista Scipione de’ Ricci che osò contrastare il culto del Sacro Cuore. Tuttavia se da un lato si assiste a un’eccessiva razionalizzazione del culto, dall’altro parallelamente incalza la domanda di ‘santificazione dal basso’, come nel caso di San Giuseppe Benedetto Labre, pellegrino francese morto nel rione Monti in odore di santità.  Allo stesso modo vengono poi esaminati diversi modelli di santità antiunitaria nella Roma di Pio IX, come le radici alla scaturigine della proliferazione di forme devozionali mariane e a S. Giuseppe. Non mancano però, a partire dall’età risorgimentale sino a quella dei totalitarismi del secolo scorso, alcune esplicite politicizzazioni della santità. Ne sono palesi espressioni la costruzione di un’agiografia di Garibaldi, il prototipo del ‘martire fascista’, il modello del ‘santo partigiano’ o quello dell’‘eroe-martire civile’, alla stregua di Falcone e Borsellino rappresentati in aura di santità “oltre la lotta alla mafia per rappresentare il tessuto etico della nazione”. Tale uso politico delle figure dei santi traspare attualmente ancora nelle strumentalizzazioni della pietà popolare operate dalle mafie e persino in alcune trasposizioni cinematografiche delle vite dei santi, per cui “l’agiografia, oltre al tradizionale canale del libro, si frammenta sulle pagine dei rotocalchi, segue gli schemi più o meno prevedibili delle fiction televisive, acquisisce i colori del fumetto, si espande sul web”.

L’Italia e i Santi indaga in maniera accurata le molteplici sfaccettature della dimensione politica del concetto di santità, intesa come instrumentum regni, a detrimento però della matrice spirituale e teologica profonda che costituisce una lente privilegiata per inquadrare adeguatamente anche sotto il profilo storico tale epifenomeno, poiché, per dirla con Benedetto XVI, “la santità, la pienezza della vita cristiana non consiste nel compiere imprese straordinarie, ma nell’unirsi a Cristo, nel vivere i suoi misteri, nel fare nostri i suoi atteggiamenti, i suoi pensieri, i suoi comportamenti. La misura della santità è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con la forza dello Spirito Santo, modelliamo tutta la nostra vita sulla sua”.

Fonte: FarodiRoma