Fame d’aria, un romanzo sul dono della vita

«Ha l’andatura da sonnambulo e le dita della mano sinistra che non smettono mai di passare e ripassare sulla coscia, al punto che a fine giornata gli diventa del colore dei pantaloni». È Jacopo, un diciottenne con sindrome dello spettro autistico a basso funzionamento, protagonista insieme al papà Pietro Borzacchi di Fame d’aria (Mondadori 2023, pp. 180), la nuova storia raccontata dallo scrittore romano Daniele Mencarelli, reduce dal grande successo della serie Tutto chiede salvezza tratta dall’omonimo romanzo.

A far da sfondo alla vicenda c’è Sant’Anna del Sannio, un paesino molisano dove il tempo sembra essersi fermato. Pietro lavora come grafico a partita iva ed è in viaggio insieme al figlio con disabilità verso Marina di Ginosa dove l’attende sua moglie per festeggiare il loro anniversario di matrimonio, ma la vecchia Golf ha un problema alla frizione per cui si ferma in mezzo al nulla.

Jacopo non parla, emette «un suono, uno solo, valido per tutto, una richiesta informe», la cui interpretazione lascia sempre il beneficio del dubbio; è ossessionato dal particolare sin da bambino, in specie dal moto circolare della ruota del suo triciclo, ma ride divertito dinanzi ai capitomboli di Sid de L’era glaciale.

Pietro, che deve cambiargli i pannoloni anche in circostanze difficili perché il figlio non riesce purtroppo a controllare e gestire i propri bisogni fisiologici, manifesta sentimenti di sconforto e scoraggiamento. Quando la croce sulle sue spalle si fa più pesante, se la prende con la vita e inveisce contro la neuropsichiatria pubblica fortemente carente che lo costringe a spendere la metà del suo stipendio per rivolgersi a professionisti privati e star dietro a terapie che comunque non sortiscono i benefici attesi. Tuttavia, proprio nella fatica della quotidianità, incontra lungo il cammino persone che, quali raggi di luce, sono in grado di squarciare il buio del suo cuore. Tra queste Oliviero che, pur essendo in pensione, si adopera per riparare l’auto; Agata, titolare di una vecchia pensione che accoglie padre e figlio premurandosi di cucinare le patatine fritte per sorprendere Jacopo; e Gaia, la quale rammenta a Pietro: «Anche un figlio che ha dei problemi rimane un dono, troverai cose belle che solo lui sa darti, sono sicura che ce ne sono!». Proprio quest’ultima realizza la vocazione inscritta nel suo nome ridestando in un padre affranto la bellezza e la gioia di vivere.

Il chiodo fisso nella mente di Pietro e sua moglie Bianca, al quale egli si sforza invano di non pensare, rimane «a chi lo avremmo lasciato o chi lo avrebbe difeso quando non ci saremmo stati più. Arrabbiato con Dio, avrebbe voluto trovarsi faccia a faccia col Padre per chiedergli qual sia la spiegazione per la malattia del figlio non avendone trovata una». Poi però, al di là delle fantasie mentali, si sorprende nello scorgere sul corpo di Jacopo la sua stessa voglia di caffè, un segno che «Jacopo era suo. Era sangue del suo sangue. Era la vita a questo mondo oltre la sua morte».

Nonostante la fatica di supportare costantemente il figlio nella routine delle comuni attività di tutti i giorni con grande attenzione e pazienza – dal lavarsi, vestirsi e mangiare alle crisi dinanzi ai rumori troppo forti – Pietro ritrova nella carità ordinaria di persone comuni la forza per reagire e la sua ‘fame d’aria’ si rivela in fondo come la sete che accomuna ogni uomo, ossia quella sete inestinguibile di amare e di essere amati che dà senso a tutto il resto e rende più lieve anche il giogo più grave.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

L’Uomovivo secondo Chesterton

«Abbozzai la storia di un tale d’animo buono, che andava in giro con una pistola e la puntava a bruciapelo contro il pessimista, se mai diceva che la vita non valeva la pena di essere vissuta». Così Chesterton presenta nella sua Autobiografia il romanzo Uomovivo (pp. 217, 2022), pubblicato recentemente in una nuova veste editoriale insieme a otto articoli inediti dalla Società Chestertoniana Italiana, la casa Editrice Leardini e il Centro Missionario Francescano.

Pubblicato nel 1912, Manalive è un romanzo per certi versi autobiografico, in quanto il protagonista Innocent Smith ama girare con la pistola proprio come il suo autore, il quale «andò a sposarsi davvero con una pistola in tasca perché diceva che non esistono matrimoni prudenti», come ricorda nella prefazione al volume Marco Sermarini, presidente della Società Chestertoniana Italiana.

In effetti «Innocent si prende la briga di saltare il muro di Casa Beacon e vi porta lo scompiglio dell’ortodossia, calca in testa allo scientista dottor Warner il suo cappello perché è depresso e questo è sbagliato perché ogni uomo è un re e il suo cappello è la sua corona e quindi l’uomo comune vale come il re; punta la pistola in faccia al rettore Eames perché rinsavisca e così possa rinsavire lui stesso!».

Costruito sul ciglio del paradosso, l’obiettivo di Manalive consiste proprio nel decostruire con armi quali «l’amore per l’ortodossia e il senso comune l’eresia che guasta l’uomo e il suo cervello e così questo mondo per cui combattere da patrioti cosmici», come sottolinea Sermarini. Ecco perché la pistola di Innocent è puntata fuor di metafora contro l’uomo moderno e la sua visione ideologica del reale: «Tutto ciò non è solo una questione personale di Innocent. Chesterton ci indica quale sia la nostra vera patria, che è di là ma che costruiamo già da qua. Dice infatti Innocent: “Alla fine del mondo, alle spalle dell’aurora, troverò la sposa che veramente sposai e la casa che è veramente casa mia”, e più avanti: “Dio mi ha ordinato d’amare e di servire un determinato luogo, e mi ha fatto fare, in onore di esso, una quantità di cose anche bizzarre, affinché questo luogo potesse servirmi a testimoniare, contro tutti gl’infiniti e tutti i sofismi, che il Paradiso è in un qualche posto e non dappertutto: è qualche cosa di preciso e non già qualsiasi cosa”. Inoltre questa regola Innocent la applica su di sé per il bene dei suoi occasionali amici, per il cui cambiamento fa il tifo», evidenzia acutamente ancora il presidente della Società Chestertoniana Italiana.

 L’umorismo chestertoniano è il filo rosso non solo di Uomovivo, ma anche degli articoli inediti pubblicati in appendice a tale romanzo. Di qui la cifra di un matrimonio riuscito è proprio, secondo l’ideatore di padre Brown, l’incompatibilità tra i coniugi. Infatti, scrive Chesterton, «finché un matrimonio è basato su una ben salda incompatibilità di carattere, quel matrimonio ha una buona probabilità di continuare a essere un matrimonio felice, perfino romantico. Qualcuno ha detto: “Finché gli innamorati riescono a litigare sono ancora innamorati”».

Relativamente alla poesia della vita quotidiana, con la saggia ironia che contraddistingue la sua penna, afferma in un altro articolo: «Le scarpe che porto, non dirò che siano belle sui monti ma sono almeno profondamente simboliche in strada, perché sono le scarpe di uno che reca la buona novella. La sedia su cui mi siedo è veramente romantica, anzi, eroica, visto che è costantemente in pericolo. I lampioni sono poetici, per cause non solo accidentali ma essenziali. Non si tratta semplicemente di commoventi associazioni sentimentali connesse ai lampioni, la bellezza del fatto che ad essi venissero appiccati gli aristocratici o che vecchi signori sbronzi se li abbraccino: il lampione porta davvero con sé l’intera poesia dell’uomo, perché nessun’altra creatura può innalzare una fiamma così in alto e custodirla così bene».

Rispetto al bolscevismo, constata che si sviluppò paradossalmente in Russia e non in America, ossia in «un paese che non era particolarmente industrializzato e neanche strettamente capitalista. I bolscevichi furono vittoriosi e furono sconcertati dalla loro vittoria. Il loro trionfo politico fu la loro sconfitta filosofica». E in effetti, secondo la concezione marxista della storia, il capitalismo del mondo industrializzato avrebbe dovuto precedere il collettivismo, cosa che però in Russia non avvenne.

Convintamente realista, condivide profondamente la filosofia di san Tommaso d’Aquino e ne illustra in un articolo il cuore teoretico con stile divulgativo, rilevando come il Dottore Angelico «chiese solo di ragionare a partire dalla propria esperienza. La fede è superiore alla ragione; ma la ragione è superiore a qualsiasi altra cosa e ha diritti supremi nel proprio ambito. È qui che anticipa e risponde al grido antirazionale di Lutero e degli altri; come mi disse un poeta molto pagano: “La Riforma è avvenuta perché la gente non aveva il cervello per capire l’Aquinate”. San Tommaso ha esaltato Dio senza abbassare l’uomo; ha esaltato l’uomo senza abbassare la natura. Perciò ha creato un cosmo di buon senso, una terra viventium, una terra dei vivi. La sua filosofia, come la sua teologia, è quella del senso comune. Non tortura il cervello con tentativi disperati di spiegare l’esistenza, spiegandola. I primi passi della sua mente sono i primi passi di qualsiasi mente onesta; così come le prime virtù del suo credo potrebbero essere quelle di qualsiasi onesto contadino. Perché lui, che combinava tante cose, combinava anche la sottigliezza intellettuale e la semplicità spirituale; e il sacerdote che assistette al letto di morte di questo titano di energia intellettuale, il cui cervello aveva strappato le radici del mondo e trafitto ogni stella e spaccato ogni paglia in tutto l’universo del pensiero e persino dello scetticismo, disse che nell’ascoltare la confessione del moribondo, gli parve improvvisamente di ascoltare la prima confessione di un bambino di cinque anni».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Nerone, l’uomo dietro il mito

«Si interessa di arte e di cesello, di pittura e di canto, ma si occupa anche di cavalli. E ancora, compone versi e si diletta di studi letterari. Di certo, non il profilo di un uomo politico, non di un princeps che ammalia la folla con la sua abilità oratoria».

 Così Silvia Stucchi – docente di Lingua e letteratura latina all’Università Cattolica – presenta Nerone in un romanzo storico particolarmente documentato che decostruisce il mito dell’imperatore della dinastia giulio-claudia sanguinario e corrotto (Nerone. Verità e vita dell’imperatore più calunniato della storia, Giunti 2022, pp. 384). Ricorrendo a curiosità e aneddoti, ma anche ad abili ricostruzioni di dialoghi e verosimili rappresentazioni di scene di vita dell’epoca, la Stucchi evidenzia le beghe di una corte imperiale in cui la sete di potere e l’ambizione avvelenavano ogni tipo di rapporto, soprattutto familiare. Attraverso una prosa avvincente fondata su dati storici, l’autrice rileva gli elementi più rivoluzionari dell’operato di Nerone: la ricerca del favore delle masse, l’anticonformismo nei confronti della plurisecolare tradizione moralistica romana, l’idea che la politica sia una questione di immagine e di spettacolo, l’amore per il bello e l’arte.

Nerone è infatti un sovrano amato dal popolo, un princeps efficiente, «amante della pace, per nulla smanioso di ampliare i confini dell’Impero con campagne militari sanguinose, ma anche dispendiose e controproducenti». Liberatosi della presenza ingombrante della madre sebbene risulti poco attendibile il racconto di Tacito del matricidio, come quello dell’omicidio del fratellastro Britannico, per le diverse grossolane incongruenze il giovane Lucio Nerone si prepara ad attuare una politica riformista: abolisce le imposte dirette; «mantiene l’inflazione a un tasso accettabile»; esenta le navi che commerciano con Roma dal pagamento di dazi; «dà un forte impulso alla fabbricazione di laterizi». Realizza anche una significativa riforma monetaria «che prevede la riduzione della quantità di metallo prezioso contenuta sia nella moneta d’oro, l’aureus, sia in quella d’argento, il denarius». Affascinato dalla cultura orientale, assolda geografi ed eruditi affinché ricerchino insieme le sorgenti del Nilo senza però riuscire in tale intento. Istituisce i Neronia, giochi quinquennali strutturati come le olimpiadi greche, che prevedono competizioni atletiche, musicali ed equestri. Egli non si limita a bandirli, ma vi partecipa in prima persona, esibendosi pubblicamente come cantante e attore e gareggiando come auriga. «L’arte è stata il suo sfogo e il suo rifugio, è anche diventata una vera e propria ossessione», osserva l’autrice. A tal proposito si consideri che il lancio di una mappa (piccolo drappo) quale segnale di partenza nelle gare è proprio una novità introdotta dall’imperatore, stando a quanto racconta Cassiodoro.

Relativamente al grande incendio che divampa casualmente nella notte tra il 18 e il 19 luglio del 64, «forse quella calunnia (l’attribuzione a Nerone, ndr) è nata da una circostanza fortuita: un giorno, durante un banchetto, un tale ha citato un verso greco: “Morto me, scompaia pure la terra nel fuoco!”. E Nerone che cosa aveva risposto, nell’eccitazione degli scherzi sbrigliati annaffiati dal vino? “Anzi! Che scompaia mentre sono ancora vivo!”. Ma come è possibile pensare che quell’immane disastro sia stato scientemente progettato da lui, come se avesse voluto cancellare la bruttezza di vecchi edifici o avesse avuto in odio la scomodità di quelle strette stradicciole che attraversano la città?». Certo è che egli ne trae grande profitto, come è noto, in quanto su buona parte di quella ‘terra bruciata’ edifica la sua grandiosa Domus aurea, con tanto di lago interno e di acque marine e termali per le sale da bagno.

 

Tuttavia, dopo il tragico incendio che risparmia soltanto quattro dei quattordici quartieri in cui Roma era divisa, il malcontento nei confronti dell’imperatore serpeggia a palazzo e tra le fila dei senatori. Perciò, «perché il suo scranno non vacilli, i cristiani sono i colpevoli ideali: non importa che non lo siano»; bisognava additarli come tali mediante l’accusa di lesa maestà. Le carni fumanti dei martiri utilizzate come torce nelle feste del princeps, però, cominciavano a generare commiserazione anche tra coloro che erano abituati a spettacoli tanto cruenti, per cui «iniziarono a sentirsi voci di indignazione». Il malcontento cresceva e culminò nelle celebri congiure dei Pisoni. Dopo aver sventato la prima, per non cadere vittima della seconda e presagendo ormai la sua fine, Nerone sembra preferire la strada del suicidio. Anche su tali circostanze e modalità le fonti storiche non sono concordi.

In sostanza dal romanzo di Silvia Stucchi emerge con forza il profilo dell’uomo Nerone dietro il mito sedimentato nella storiografia che non rende giustizia alla sua figura storica. Nerone ha in effetti pagato con la vita l’aver preferito il favore del popolo a quello dell’aristocrazia senatoria. Scardinando i valori del mos maiorum, «il suo regno doveva rappresentare la vittoria dell’arte sulla vita, e insieme, il tentativo di superare i confini tra le due e di abbandonare i ruoli troppo rigidi. Questa era l’eredità che voleva lasciare ai posteri: un principato che trascorra nel segno della bellezza e dell’arte».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Tra sangue e scintille di bene nell’Europa in guerra

Le contraddizioni della storia e gli abissi del cuore umano costituiscono la cornice e il quadro del nuovo avvincente romanzo di Elisabetta Sala Il cardo e la spada (Ares 2021, pp. 320) ambientato durante la Guerra dei Trent’anni. Esso mette a fuoco, attraverso le vicende dei suoi personaggi, storie di caduta e redenzione tra orrore e speranza, desideri e delusioni, tormento e luce inattesa.

Siamo a Münden in bassa Sassonia nel 1626. Prìncipi e generali si fronteggiano con schiere di eserciti in Germania, mentre la povera gente annaspa per sopravvivere. La prostituta Rose, bella e combattiva, dopo una vita di umiliazioni al seguito degli eserciti cerca una via di redenzione, ma il destino le pone una scelta complicata.

«“Perché siete tanto buono con me, che neanche conoscete?”», chiede Rose a chi le tende la mano per aiutarla a sollevarsi dalla propria condizione di miseria. Questa domanda ingenua offre in realtà l’occasione per approfondire la natura del bene, diversamente inteso da cattolici e protestanti, se infatti l’autrice chiosa: «Herr Helmut rimase disorientato dalla schiettezza della domanda. Non lo sapeva neanche lui, in realtà. Era perché le buone opere erano un segno del favore di Dio? Se uno è generoso, dev’essere perché Dio lo ha destinato alla salvezza, no? O era per ricordare a Dio di ricordarsi di lui e di non permettere più che anni e anni di fatica e sudore andassero in fumo? Non era, piuttosto, che questa bella giovane gli piaceva? La risposta che diede sorprese anche lui: “Perché non mi costa nulla. E perché ho un certo sesto senso con le persone”».

Anche il luogotenente Brian, nauseato e ormai assuefatto al sangue, combatte per professione interrogandosi sull’onore e il senso ultimo dell’esistenza. L’amore tra queste due anime in cerca di riscatto è messo alla prova dai fantasmi del passato e dalle violenze del presente. Il loro cammino s’intreccia a quello di altri personaggi significativi, tra i quali il padre gesuita Friedrich Spee, missionario tra gli eretici, sorpreso a portare «urgentemente in salvo la cosa più preziosa che c’era: delle particole consacrate trafugate il giorno prima da una chiesetta cittadina. Una volta nel bosco, forzato il tabernacolo rivestito di placche d’oro che avevano smurato dall’altare, i ladri avevano abbandonato le ostie tra l’erba e il fango, dove lui e Markus avevano avuto la fortuna di ritrovarle. Accadeva anche troppo spesso: chiese profanate, devastate, incendiate. Il nemico le provava tutte prima di arrendersi definitivamente». Eppure il suo zelo apostolico, corroborato da solide ‘ragioni della fede’, sospinge molti protestanti a rientrare nell’ovile dell’unica Chiesa. Sul tema spinoso e divisivo della predestinazione, il sacerdote gesuita ribadisce che la sola fede non è sufficiente senza le opere per ottenere la vita eterna, e dunque «ci salviamo solo per i meriti di Cristo; il quale, però, vorrebbe salvarci tutti, ma non ci salva senza la nostra cooperazione. Lo stesso vale per la dannazione: all’inferno va solo chi consapevolmente rifiuta la salvezza».

Padre Spee fa ancora una considerazione significativa sugli uomini e le loro opere, valida per tutti e non solo in tempo di guerra: «Cercò di contemplare e basta, pensando che la natura era il libro di Dio; ma, come quegli splendidi fiori si affollavano sui rami, così facevano i pensieri nella sua mente. “Molti di questi fiori si staccheranno e cadranno a terra”, si disse. “Sarebbe bello sapere quali, invece, daranno frutto”. Lo stesso valeva per la vita degli uomini: pur tra i mille fiori caduti, poi perduti mescolandosi al terreno, centinaia si trasformavano in frutti. E lui, alla fine della vita, voleva essere un albero che si piegava per il peso: voleva darne il più possibile, impegnare al meglio tutti i suoi poveri talenti».

Degli spaccati della dura vita sui campi di battaglia della guerra dei Trent’anni, l’autrice racconta: «I beoni sono i poeti migliori, perché birra e vino ti sciolgono la lingua. Ricordo un soldato convinto che nelle stelle sia scritta la morte di ognuno. Quando ce l’hai sempre accanto, la morte, o non ne parli mai e cerchi di stare allegro, o ne parli in continuazione, di solito dopo aver bevuto». Di qui «la cosa che più mi colpisce è che a volte, anche il più malvagio degli uomini nella peggiore delle sventure riesce a trovare un momento per voler bene a qualcuno. Che cos’è questo se non una scintilla dell’amore di Dio?».

Insomma, ripercorrendo peripezie e vicissitudini dei protagonisti, Elisabetta Sala tesse la trama di un avvincente romanzo in uno scenario storico complesso, in cui è però possibile individuare un filo rosso, la fede autentica e semplice di persone umili, non quella di avidi regnanti in cerca di legittimare la propria sete di potere, bensì quella degli ‘ultimi’– soldati, prostitute, bambini e sacerdoti – che la manifestano concretamente in atti generosi, quotidiani ed eroici, di carità fraterna.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Nuovi delitti nella camera chiusa, cercando il colpevole

Crimini e omicidi inspiegabilmente commessi all’interno di un ambiente chiuso da cui il colpevole è riuscito in qualche modo a far perdere le proprie tracce; enigmi apparentemente insolubili in attesa di una soluzione. Ruotano intorno a questo intrigante topos della letteratura gialla i Nuovi delitti nella camera chiusa di Rino Cammilleri, quattordici storie inedite che danno non poco filo da torcere agli investigatori protagonisti, chiamati a spremersi le meningi e a muoversi con prudenza e intelligenza tra gli indizi lasciati dal colpevole, nel tentativo di ricostruire il caso e la scena del crimine.

Tornano alcuni personaggi già apparsi nel primo volume Delitti nella camera chiusa, come l’inquisitore del XIII secolo Corrado De Tours e don Gaetano Alicante, prete dell’Ottocento – protagonisti anche dei romanzi L’inquisitore e Immortale odium de Il Kattolico – e personaggi singolari, come l’ispettore Shylock Homer, perseguitato dalle somiglianze con il suo celebre quasi omonimo.

Gli scenari delle vicende narrate sono molteplici; vi sono racconti che si svolgono in tempi lontani e poco tecnologici, come la Napoli dell’Ottocento, e altri ambientati invece in luoghi dal sapore esotico, come il Giappone contemporaneo o in città distopiche. Per dirla con lo stesso autore, «alcuni dei racconti di questa nuova raccolta sono ‘storici’, ambientati in epoche in cui il massimo della tecnologia era la polvere da sparo e uno, per fare danno senza pagar dazio, doveva spremersi il cervello. Così come ho fatto io».

Diversi delitti raccontati con dovizia di particolari hanno sullo sfondo la grande storia, come si evince anche dalle descrizioni dei protagonisti. Di don Gaetano Alicante l’autore scrive che, «prete in Napoli, era di vocazione tardiva, adulta, come si diceva. Prima era stato gendarme e, anzi, aveva raggiunto un certo grado nelle forze dell’ordine. Ma, buon cattolico, a un certo punto non aveva sopportato più il clima anticlericale che il nuovo regime piemontese aveva instaurato. E si era fatto prete, non sapeva nemmeno lui se per dispetto o per vera inclinazione». Insomma una sorta di novello padre Brown richiamato dagli ambienti curiali per risolvere spinose indagini di polizia «che alla polizia vera e propria non era il caso di andare a raccontare», come il caso di una contessa con simpatie neoborboniche trovata morta nella sua camera a seguito di una pseudo ‘combustione spontanea’.

Un’altra scena del crimine ha come retroterra il contesto culturale del Giappone, in cui «lo Stato è tutto e l’individuo nulla»; nel quale lo shogun aveva vietato il cristianesimo e primo paese al mondo per denatalità con un popolo «di formiche operaie che schiattava di fatica».

Relativamente al contesto inglese dopo lo scisma anglicano, colpisce in un racconto la descrizione de la ‘Perla del Tyburn’, al secolo Margaret Ward (proclamata poi santa), la quale «con una nobiltà che commosse tutti, dichiarò che la sua fedeltà alla Regina non era mai venuta meno, tuttavia nessuno poteva chiederle di rinunciare alla sua religione. La Regina avrebbe potuto garantirle, certo, una vita comoda su questa terra, ma non la salvezza della sua anima. Se era costretta a scegliere, optava per quest’ultima. Piuttosto che rinnegare il vero Dio e la vera Chiesa preferiva sacrificare la vita. E talmente era convinta di ciò, che di vite ne avrebbe sacrificate anche più d’una se fosse stato possibile averne molte. Se era colpevole, la sua sola colpa era di avere sottratto un innocente a una fine ingiusta. Lei e Richard Watson dovevano essere uccisi solo perché seguivano la propria coscienza? Da quando in Inghilterra era diventato un grave reato punito con la pena capitale l’aver seguito la religione dei padri, il Regno un tempo felice era diventato un regno del terrore».

Tra i casi misteriosi che accadono in stanze inspiegabilmente chiuse e impenetrabili si colloca anche quello di un «uomo che aveva ucciso la moglie, aveva finto che la porta fosse chiusa dall’interno per convincere gli inquirenti che la poveretta si era suicidata in preda a crisi depressiva». Allo stesso modo, hanno fatto credere senza difficoltà al popolo che una strega condannata al rogo si sia impiccata. Sul banco degli imputati siede poi chi riesce ad avvelenare il malcapitato nei modi più impensabili; che si tratti della griglia del condizionatore dell’aria o di una rara conchiglia fatta pezzi e data in pasto da un inserviente alla vittima da eliminare.

Come i Delitti nella camera chiusa anche i Nuovi delitti nella camera chiusa di Cammilleri sono, nella loro brevità, racconti avvincenti di cui si può svelare ben poco, se non che, in un clima di tensione, mistero e suspense, sospingono il lettore a non indugiare oltre per giungere quanto prima alla scoperta del ‘colpevole’.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Le interviste impossibili, una fotografia del mondo attuale

Max Minimum è un giornalista de Il cretino – nome con cui s’identifica ironicamente il cristiano in francese – che, dopo aver rischiato la vita per mano di Don Vito Privacy detto ‘U mutu’, il boss dei boss, che vive all’insegna del «non dire né bene, né male di ciò che non ti riguarda», è pronto a intervistare «quei personaggi che sono sulla bocca di tutti: Verità, Inclusività, Buon Senso, Fake News, Bellezza. Gente così». Dalle dichiarazioni di questi personaggi e non solo nascono Le interviste impossibili (Il Timone 2021, pp. 141) di Tommaso Scandroglio – firma nota ai lettori de La Nuova Bussola –, in cui l’autore con buoni argomenti e pungente ironia interroga e fotografa il contesto attuale sui temi che lo caratterizzano.

La prima a parlare è Libertà, una bella donna sposata e non per questo meno libera, ripresa ad attaccare palle ai piedi della gente, perché «i doveri sono la strada obbligata per essere liberi». C’è poi Neutrella Inclusività, la quale indossa una tuta camaleontica che la rende invisibile e che lavora per la cancellazione di ogni discriminazione. Il suo prossimo obiettivo è la parità di dignità e diritti tra uomini e animali.

Chiara Verità, vedova del marito, il Cavalier Buon Senso, se ne sta in bilico su un traliccio dell’alta tensione. Dice di sé: «Un tempo ero di casa anche in Vaticano, ora non mi vuole più nessuno». Gli uomini in città preferiscono starsene al buio, in quanto l’oscurità «permette di creare un mondo che non c’è, in cui un uomo può credersi donna, un bambino nel ventre della madre può essere un grumo di cellule, una relazione omosessuale può diventare un matrimonio, una provetta si può trasformare nell’utero di una madre, un suicidio in un gesto di coraggio». Perciò viene costantemente scambiata paradossalmente per la Gran Contessa della Menzogna. Eppure ha un occhio blu e uno nero, perché col primo vede il bene, col secondo il male.

Nel diario del defunto Cavalier Buon Senso, ucciso dai sicari di Senso Comune, Max Minimun ritrova gli appunti di accesi diverbi col signor Libero Radicale che voleva a tutti i costi convincere il marito di Verità della bontà del divorzio in nome dell’amore finché dura e che propaganda la menzogna dell’aborto.

Poi Minimum visita Rainbow City, la città distopica per le persone LGBTQI+, dove si insegna il gender nelle scuole, l’80% degli ospedali è dedicato alla fecondazione eterologa e c’è una Chiesa in cui si può passare con fluidità da un credo all’altro. Nella città sotterranea abitano «i terrapiattisti del gender», i retrogradi secondo i quali i sessi sono soltanto due.

Monica Lisa Bellezza è scomparsa, se ne sta in disparte perché è stata picchiata. «I picchiatori più assidui sono Frivolia Moda, Orrindo Tatoo e Schifante Piercing – vengono sempre in coppia –, Stupiberto Social, Repella Pornia, Atrocia Mastoplastica dei Conti Addittivi, Deturpetta Cosmesi, Piertorto Tivvù e Ugly Influencer». Eppure il suo corpo si risana magicamente ogniqualvolta qualcuno ritorna a contemplarla quale volto di ciò che è buono, come dimensione estetica di un atto di generosità e amore.

Tra gli altri curiosi personaggi il giornalista incontra il Dottor Ateismo; Enza Coscienza, la quale «è nel cuore delle persone che abito, non certo nella mente. La testa serve solo come cassa di risonanza»; sua sorella Lorenza, la coscienza erronea, sposata con Gianproprio Tornaconto; i gemelli Fake e News Van Ballasten, che disorientano Minimum, poiché «le notizie rovesciano governi orientano i costumi, fanno fiorire o appassire le economie di intere nazioni, scatenano guerre, mettono alla gogna o santificano chi a loro piace».

Ci son poi il signor Destino, che guarda fisso davanti a sé impassibile perché è già tutto scritto, e la signora Provvidenza, la quale invece ricorda con l’astrofisico Stephen Hawking che, anche chi crede che tutto sia scritto si guarda attorno prima di attraversare la strada; d’altra parte, l’uomo propone e Dio dispone.

Costituzione ha le forbici in mano, poiché è stata sforbiciata in specie agli articoli 2, 3, 29, dal divorzio ai nuovi ‘diritti civili’. All’esame cui è sottoposta, Realtà risponde senza mezzi termini che l’eutanasia è un delitto e non un diritto e, relativamente alla contraccezione, replica «di essere per l’amore vero, non per quello di gomma». Sui movimenti proletari dice «che han sempre fatto molti poveri». Onni Scienza racconta invece di porsi quale obiettivo illusorio di tanti per far loro credere che «le cose siano chiare, certe, incontrovertibili».

A chiudere il giro delle interviste di Max Minimum è il dottor Egualitarismo con una battuta sul sincretismo religioso che pone tutte le fedi sullo stesso piano: «“Stesso Dio in cui credere”, mi permisi di aggiungere io. “E no, mio caro, discrimineremmo chi non vuole credere in nulla. Meglio eliminare il problema alla radice e votarsi tutti all’ateismo”».

Far tesoro delle risposte illuminanti raccolte da Max Minimum alter ego letterario del nostro Tommaso Scandroglio – è dunque il primo passo assolutamente necessario per un’adeguata comprensione del mondo in cui viviamo.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

La sfera e la croce, profezia dei nostri giorni

La sfera e la croce, due simboli per due visioni della realtà e della vita umana inconciliabili, che si sfidano in cielo e sulla terra. «Questa palla è ragionevole; quella croce è irragionevole. È una bestia a quattro zampe, una delle quali è più lunga delle altre. Il globo è logico. La croce è arbitraria. Prima di tutto, il globo è unità in se stesso; la croce è, essenzialmente e soprattutto, nemica di se stessa. La croce è il conflitto di due linee nemiche, di due direzioni inconciliabili. Questa cosa muta che si innalza è un contrasto, una rottura violenta, una lotta nella pietra. Ne abbiamo abbastanza di questo simbolo. La stessa sua forma è una contraddizione in termini».

Sono queste le parole pronunciate da Lucifero, nome curioso per un professore, nel dialogo con un monaco che non a caso si chiama Michele, nel romanzo La Sfera e la Croce (pp. 256, 2021) di Chesterton, ripubblicato in una nuova veste editoriale dalla Società Chestertoniana Italiana, la casa Editrice Leardini e il Centro Missionario Francescano.

«Si tratta di un racconto distopico, una versione romanzata del suo precedente Eretici e una profezia dei nostri giorni», come rileva Marco Sermarini, presidente della Società Chestertoniana Italiana. I primi capitoli del romanzo uscirono a puntate, tra il marzo 1905 e il novembre 1906, sul periodico Commonwealth. Poi Chesterton ripose il progetto nel cassetto per ripubblicarlo integralmente nel 1910. A tal proposito «non escluderei che Ray Bradbury abbia preso spunto anche da quest’opera quando scrisse Fahrenheit 451. D’altronde si proclamò sempre devoto ammiratore del Nostro Eroe. Quasi negli stessi anni un altro ammiratore di G.K.C., Robert Hugh Benson, partoriva il suo ben noto romanzo distopico Il Padrone del mondo», osserva ancora acutamente Sermarini.

Da una parte c’è una ragione che si apre alla fede, dall’altra una fiducia razionalista cieca nel progresso che esclude ogni fede nelle verità rivelate. E in effetti san Giovanni Paolo I, nel capitolo dedicato a Chesterton del suo Illustrissimi, ha sottolineato mirabilmente proprio tale aspetto: «Il progresso con uomini che si amino, ritenendosi fratelli e figli dell’unico Padre Dio, può essere una cosa magnifica. Il progresso con uomini che non riconoscono in Dio un unico Padre, diventa un pericolo continuo: senza un parallelo processo morale, interiore e personale, esso – quel progresso – sviluppa, infatti, i più selvaggi fondacci dell’uomo».

Nel prologo un vascello volante sorvola la cattedrale di St. Paul a Londra. Agli occhi del professor Lucifero non è pensabile che la croce sovrasti la sfera, perciò tuona con superbia al suo interlocutore: «È un errore evidente. La sfera dovrebbe essere sopra la croce. Questa non è che un supporto barbarico; la sfera è la perfezione. La croce è tutt’al più l’albero amaro della storia dell’uomo; la sfera è il tondo frutto maturo finale. E il frutto sta in cima all’albero; non alla sua base». Tuttavia le ideologie della storia testimoniano, con ironia tragica, l’esatto contrario, e cioè che tali filosofie razionalistiche, cui allude la sfera, «comincino con l’infrangere la Croce, ma finiscano per distruggere il mondo abitabile». La fede autentica è, invece, passione antica e sempre nuova per tutto ciò esiste: «lo sguardo di Michele godeva di tutto ciò che incontrava, e non per una soddisfazione estetica, ma con la pura e gioconda avidità del bimbo che morde una ciambella».

La guerra nei cieli tra il professor Lucifero e il monaco Michele continua sulla terra nella lite sfociata in un duello a fil di spada e argomentazioni tra il signor MacIan – un uomo di fede «più certo dell’esistenza di Dio che della propria» che desidera «vendicare Nostra Signora sul Suo miserabile calunniatore» a tutti i costi – e Turnbull, suo antagonista in quanto ‘libero pensatore’ e ateo miscredente.

Di qui, quando la discussione si accende, MacIan argomenta acutamente che «il cristianesimo è sempre fuori di moda perché è sano di mente; e tutte le mode sono lievemente insane». Perciò «la Chiesa pare sempre indietro rispetto ai tempi, mentre in realtà precorre i tempi: aspetta che l’ultima follia abbia visto il suo ultimo tramonto e conserva le chiavi di una virtù permanente». E in effetti «la Croce non può conoscere la sconfitta perché è la Sconfitta», come ribadisce MacIan, il quale desidera battersi in nome di questa per difendere il motivo della sua stessa esistenza, nella consapevolezza che «più alto dei cieli, c’è qualche cosa di più umano dell’umanità».

Perciò egli ricorda ancora al suo interlocutore che «l’uomo in strada considera se stesso come io onnipotente pur sapendo di non esserlo. Si aspetta che l’universo intero giri intorno a lui, pur sapendo di non esserne il centro». Il romanzo segue le peripezie dei due protagonisti che finiscono come ‘folli’ persino in manicomio per le loro posizioni, muovendosi sempre sull’orlo del ‘paradosso’ così caro allo scrittore britannico.

Così nel Dies irae, nel giorno del giudizio finale, Turnbull che, «fino a quel momento, aveva avuto in perfetta buona fede la certezza che il materialismo fosse un fatto», riconosce che c’è un Fatto dinanzi al quale crolla ogni costruzione ideologica del mondo, la Rivelazione del Verbo di Dio, che può essere riconosciuto da colui che si pone con cuore libero e umile dinanzi alla realtà. Di qui anche Turnbull piega le proprie ginocchia in segno di adorazione, mentre le spade dei contendenti cadono definitivamente l’una sull’altra a mo’ di croce per ricordare che il mondo non può reggersi senza la croce.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Indagine su Sherlock Holmes e sul suo autore

La vita stessa è un enigma di cui occorre investigarne gli indizi per comprenderne un po’ di più il mistero. Lo sanno bene Sherlock Holmes e anzitutto il suo ideatore, il medico e romanziere scozzese Sir Arthur Conan Doyle che, spinto dalla «necessità di attingere al bello, al buono, a tutto ciò che colpisce, interessa e incuriosisce, attraverso la lettura, e di condividere passioni, interessi e scoperte con i propri lettori attraverso la scrittura», inizia a immaginare i tratti del suo detective. Animato da tale desiderio, «cominciò ad affiancare all’attività di medico quella di narratore, e alla fine questa diventò assolutamente preponderante. Le sue storie di indagini, di inchieste, di misteri da svelare, finirono per diventare una piccola epopea. In fondo Sherlock Holmes e John Watson sono una specie di Don Chisciotte e Sancio Panza, con la differenza che Holmes non combatte contro i mulini a vento, ma contro criminali ben concreti, e il suo metodo non è la follia, ma il ragionamento deduttivo».

 In Indagine su Sherlock Holmes (Ares 2020, pp. 232) l’abile investigatore, il suo inseparabile collaboratore Watson e il loro autore sono messi sotto la lente di ingrandimento di un altro medico e scrittore, Paolo Gulisano firma nota ai lettori de La Nuova Bussola. Egli raccoglie una miniera di indizi non solo sul più famoso detective della storia che da 130 anni continua a essere rivisitato al cinema come nella letteratura, ma anche sulla vita del suo autore, Sir Artur Conan Doyle, il quale avrebbe voluto ottenere la fama e la gloria per mezzo di romanzi storici e invece si ritrovò a reinventare e rendere il romanzo giallo di stampo poliziesco un’opera d’arte.

«Holmes era lo specchio in cui Doyle si rifletteva, in cui guardava». Scozzese, classe 1859, figlio di genitori di origini irlandesi, Arthur comincia a respirare nelle aule di medicina lo spirito scientista positivista per cui abbandona presto la fede cattolica, forse anche per rimarcare la propria identità rispetto a quella del padre alcolista che certamente non apprezzava. Si forma alla scuola del medico Joseph Bell, il quale sostiene che «un uso addestrato dell’osservazione può portare a una utilissima anamnesi del paziente» e che fu uno degli incaricati alle indagini medico-legali dei delitti di Jack lo squartatore.

 Holmes invece è «un individualista, ma al servizio della giustizia. Un anarchico, un freddo calcolatore, apparentemente cinico, ma capace di provare misericordia per la povera gente dei quartieri più poveri di Londra». Si descrive così: «Io detesto il grigio tran tran dell’esistenza quotidiana: ho bisogno di sentirmi in uno stato di esaltazione mentale costante. Ecco perché mi sono scelto questa particolarissima professione, o meglio me la sono creata, dal momento che sono unico al mondo. Sono il solo poliziotto privato ‘consulente’». Il suo metodo d’indagine consiste nel «vedere ciò che gli altri si lasciano sfuggire», cercando di scovare in ogni dettaglio un indizio utile per una conoscenza oggettiva, evitando di «formulare teorie premature su dati insufficienti».

Per quanto riguarda il suo collaboratore, «Holmes non riconobbe mai di avere in Watson qualcuno intellettualmente suo pari, ma Watson non dimostrò di soffrirne eccessivamente: accanto a Holmes sembrò aver trovato il proprio posto nel mondo, la luce riflessa di cui brillare, un rimedio alla propria fragilità». In questo modo «Watson finì per diventare l’eroe del quotidiano, l’eroe possibile, avvicinabile, concreto, plausibile».

Rispetto alla fede sottolinea Gulisano «a suo tempo aveva fatto pronunciare al suo amato e odiato personaggio: “Non c’è nulla in cui la deduzione sia così necessaria come nella religione” proseguì appoggiandosi con la schiena alle persiane. “Può essere costruita dal ragionatore come una scienza esatta. A me sembra che la nostra maggiore certezza della bontà divina poggi proprio sui fiori”. Così diceva nel racconto Il patto navale. Una consapevolezza dei propri limiti, della propria finitezza, che Holmes esprime con parole ancora più commoventi: “Che Dio ci aiuti!” mormorò Holmes dopo un lungo silenzio. “Perché il destino si diverte a scherzare con noi umili vermi? Di fronte a un caso come questo, non posso non pensare alle parole di Baxter: ‘E così finirebbe Sherlock Holmes, se non fosse per la misericordia divina’”».

Trasposto in molteplici versioni cinematografiche e ridisegnato persino in veste di cartone animato, il personaggio uscito dalla penna di Conan Doyle è ormai un cult, in quanto «Holmes è qui a ricordarci che l’uomo è fatto per investigare il mistero, è fatto per scoprire la verità. Ha come vocazione quella di rendersi conto della necessità di affrontare il mistero. A volte può conoscere solo dei frammenti, dei tratti di un sentiero che alla fine si interrompe. La missione di Sherlock Holmes è stata quella di svelare ciò che è nascosto ed è una missione che egli lascia ancora oggi come compito a ogni lettore».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

Smartphone e bambini, 10 motivi per non regalarlo ai più piccoli

“Lo smartphone è come una Ferrari che non andrebbe lasciata guidare a un neopatentato”. Usa quest’efficace similitudine la psicologa e psicoterapeuta Stefania Garassini per formalizzare nel suo saggio Smartphone. 10 buone ragioni per non regalarlo alla prima Comunione (e magari neanche alla Cresima), appena pubblicato da Ares, un primo monito razionalmente fondato e supportato da studi scientifici, sull’inopportunità di regalare precocemente uno smartphone ai propri figli.

Se internet e i social non sono da demonizzare, in quanto “nella rete, al di là dello schermo, continuano a esserci persone in carne e ossa, e con queste persone stabiliamo rapporti che hanno bisogno di proprie regole”, è però altresì opportuno aiutare i più giovani a “sforzarsi di tenere a bada l’impulsività che il mezzo induce”. Il compito primario dei genitori resta sostanzialmente quello di educare alla piena autonomia e alla capacità di scelta, e pertanto, alla vera libertà.

L’autrice suggerisce perciò un vero e proprio ‘decalogo’ di motivazioni. La seconda recita: “Regalare uno smartphone a un bambino è anche un incitamento a mentire”, nella misura in cui gli si consente di iscriversi su un social media, che prevede invece mediamente un’età minima di 13 anni. Tale limite d’età non è in effetti casuale, ma tiene conto di numerosi studi che hanno evidenziato l’influenza negativa dei social in una fase come la preadolescenza in cui è “così importante essere accettati da un gruppo e non sentirsi esclusi”. In questa fascia d’età, nella quale la ricerca di un’interazione sociale e la costruzione dell’immagine di sé assume un ruolo decisivo, “una dipendenza da like e commenti per rafforzare la propria autostima” rischia in effetti di compromettere la propria maturazione.

 La terza indicazione sottolinea che “lo smartphone crea dipendenza”. Basti considerare che i video di Youtube si riproducono ormai automaticamente o “che sbloccare lo schermo equivale a entrare in un supermercato: crediamo di avere le idee molto chiare su quello che dobbiamo fare, ma ci ritroviamo a passare una ventina di minuti almeno a vagare fra app e servizi social, proprio come quando riempiamo il carrello di merci impensate che troviamo sugli scaffali”. E così, come ipnotizzati da una slot machine, lasciamo che ampie “fette di tempo siano risucchiate da aggiornamenti e notifiche”. Insomma il mantra di una neutralità della tecnologia non esiste poiché tali mezzi, per il solo fatto di esistere, “cambiano il nostro modo di percepire la realtà e vivere le nostre relazioni”.

Il quarto imperativo esorta: “Non esporre tuo figlio a inutili rischi per la salute”. A tal proposito l’autrice ricorda che “caricare il telefono vicino al letto, usarlo per molto tempo attaccato all’orecchio con ogni probabilità è dannoso per un cervello adulto. Lo è ancora di più per il cervello in formazione di un preadolescente”, nella misura in cui genera campi “probabilmente cancerogeni” che hanno effetti negativi anche sul sonno. Di qui le indicazioni pratiche della Garassini a tenerlo lontano dal corpo e a non guardarlo almeno un’ora prima di andare a dormire.

Il quinto suggerimento recita “Non rubare l’infanzia a tuo figlio” e invita i genitori a evitare di proiettarlo anzitempo in un mondo fatto da adulti e con contenuti pensati sostanzialmente per un pubblico tale. L’autrice menziona in proposito criticamente le recenti serie Netflix a portata di smartphone, come i social più in voga tra i ragazzi quali Tik Tok che ha sostituito Musical.ly e l’incidenza della pornografia che “crea dipendenza e sostituisce l’immaginario romantico che tutti noi abbiamo alimentato fin dall’adolescenza con qualcosa di molto più crudo e materiale”. Quindi invita i genitori a “rafforzare l’autostima del proprio figlio, in modo che dipenda il meno possibile dai like sui social, a coltivare il gusto del racconto di sé stessi, ad abbassare il volume del pettegolezzo e dello spionaggio delle vite altrui, che lo smartphone incoraggia”.

La sesta ragione suggerisce: “Evita di creare un motivo di contenzioso educativo permanente”, invitando a procrastinare per un po’ il calcio d’inizio di una ‘lotta quotidiana’ intrapresa per rispettare a tutti i costi delle ‘regole’ spesso puntualmente disattese su modalità e tempi adeguati di utilizzo dello smartphone. Tali regole sono necessarie, ma devono essere “poche, semplici e chiare”, possibilmente anche discusse e condivise coi figli. Certamente su questo punto non può mancare il buon esempio degli stessi genitori che, almeno a tavola e magari la sera al letto, dovrebbero evitare di mantenere i propri occhi fissi sullo smartphone.

La settima ragione è una domanda: “Come pensi di proteggere la navigazione su internet?” e l’invito è a usare programmi e applicazioni per filtrare i contenuti cui possono accedere i propri figli, nella consapevolezza che “l’unico filtro a resistere nel tempo sarà il senso critico e la capacità di valutare che sarai riuscito a comunicare a tuo figlio”.

“Lo smartphone non ti aiuterà a rimanere in contatto con tuo figlio”, ricorda ancora l’ottava indicazione. Utilizzare il telefono come una sorta di ‘guinzaglio elettronico’ per geolocalizzare costantemente il proprio figlio è assolutamente deleterio, in quanto incrina quel rapporto di fiducia che è alla base di una sana relazione educativa. È invece preferibile insegnargli come cavarsela in una situazione critica prima di mettergli uno smartphone tra le mani.

“Ce l’hanno tutti. E allora?”. Non sarà facile scardinare la logica dominante del ‘così fan tutti’ esplicitata mediante la nona ragione di questo decalogo; eppure bisogna sforzarsi di far comprendere al proprio figlio le motivazioni di una scelta controcorrente, imparando a fare squadra anche con gli altri genitori che condividano tale scelta.

Infine l’autrice afferma che “lo smartphone non è il demonio”. Attraverso questo decalogo, la Garassini non intende infatti screditare uno strumento cui riconosce il merito di “aprire magnifiche opportunità di conoscenze e di relazioni”. Per questo motivo è opportuno che i genitori aprano spazi di dialogo coi propri figli, “chiedendo loro magari un consiglio, facendosi spiegare meglio come funziona una certa app o che cosa va per la maggiore in rete e perché”. In questo modo si stimolerà più facilmente nei ragazzi un più profondo spirito di valutazione critica delle potenzialità dello smartphone ai fini di un uso progressivamente più libero e consapevole dello stesso strumento. D’altra parte, per i genitori, “imparare a chiedere consiglio farà sì che saranno poi meglio accolti quelli che daranno a loro volta”. In questo modo anche i più giovani apprenderanno che “tutto questo girovagare nel virtuale è utile se poi ci aiuta a vivere meglio con le persone che ci stanno intorno”.

Fonte: LaNuovaBussolaQuotidiana

Un dizionario degli uomini grandi nella fede e nelle opere

Agostino, Alberto Magno, Benedetto da Norcia, Bernini, Brunelleschi, Carlo Magno, Clodoveo, Cristoforo Colombo, Copernico, Dante, De Wohl, Francesco d’Assisi, Galileo, Giotto, Guareschi, Isabella di Castiglia, Lejeune, Michelangelo, Pampuri, Marco Polo, Stradivari, Tommaso d’Aquino, Vespucci sono solo alcune delle oltre 400 voci che popolano il Dizionario elementare dei cattolici illustri, pubblicato recentemente dall’Istituto di Apologetica, a cura di Gianpaolo Barra, Mario Arturo Iannaccone e Marco Respinti.

C’è ampio spazio per uomini illustri nelle arti e nelle lettere, regine e sovrani saggi, scienziati illuminati, matematici e astronomi acuti, abili navigatori e compositori, grandi storici, sapienti filosofi e teologi, ma anche santi sociali, papi, cardinali, vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose che hanno lasciato un segno profondo nella storia dell’umanità e ai quali tutti, compreso i non credenti, dovrebbero essere grati. Tali voci riportano in maniera sintetica, con linguaggio semplice e accessibile a tutti, brevi biografie di uomini e donne che hanno contribuito allo sviluppo della nostra civiltà e dato gloria alla Chiesa di cui sono figli.

In ambito matematico spiccano, ad esempio, le figure di Maria Gaetana Agnesi (1718-1799), riconosciuta per le sue Instituzioni analitiche come “una delle più grandi donne matematiche di tutti i tempi” e quella di Ennio De Giorgi (1928-1996), che ha aperto “prospettive inedite alla matematica mondiale”, distinguendosi per la ricerca su equazioni, derivate parziali e calcolo delle variazioni. Egli riteneva che “il segreto della forza della matematica risiedesse nella capacità di passare dalla osservazione delle cose visibili all’immaginario delle cose invisibili”.

In ambito scientifico è davvero considerevole il contributo dei cattolici. Girolamo Fracastoro (1476-1553), medico personale di Papa Paolo III, è stato il “pioniere dell’infettivologia, colui che, 300 anni prima della sua validazione sperimentale, intuì che alcune malattie erano dovute a germi capaci di moltiplicarsi nell’organismo e di trasmettersi per contagio, attraverso la respirazione o altre forme di contatto, ad altri organismi”. A lui si deve anche il nome della sifilide. C’è poi padre Benedetto Castelli (1578-1643), “inventore del pluviometro per misurare la quantità di pioggia nel tempo e iniziatore della scienza idraulica”. Luigi Galvani (1737-1798) è stato “un pioniere dell’ostetricia italiana” e tra i fondatori dell’elettrotecnica moderna. A lui si deve l’invenzione del galvanometro per misurare l’intensità di correnti elettriche e della ‘galvanizzazione’, il processo col quale si riveste di un sottile strato di metallo un manufatto di un altro materiale metallico proteggendolo dalla corrosione. Lavoiseir (1743-1794), padre della chimica moderna, celebre per le sue ‘leggi’ e il suo contributo alla stechiometria, ha anche dimostrato il ruolo dell’ossigeno nei processi vitali di animali e la composizione dell’acqua e dell’aria. A don Giuseppe Mercalli (1850-1914), il sacerdote dei vulcani e dei terremoti, si deve invece l’elaborazione della famosa ‘scala’ che porta il suo nome per la classificazione dei sismi e della loro intensità. In campo astronomico la tesi scientifica di un universo in espansione da un atomo primordiale, poi ribattezzata ‘teoria del Big Bang’, porta il nome di padre George Lamaître (1894-1966).

In ambito letterario sono pochi gli studenti liceali a sapere che l’autore del proprio dizionario Lorenzo Rocci (1864-1950) era un padre gesuita che ha lavorato alacremente per compendiare il cuore della letteratura greca nel poderoso vocabolario che porta il suo nome o che il conte Monaldo Leopardi (1776-1847), padre del poeta Giacomo e gonfaloniere della città di Recanati, dopo aver sperimentato l’efficacia della vaccinazione sui propri figli, sia stato il primo a introdurla nello Stato Pontificio, rendendola obbligatoria per il vaiolo. Egli è stato uno scrittore vivace, intelligente, colto, orgoglioso della propria fede, sebbene la sua fama sia stata ingiustamente oscurata.

In campo sociale, al di là della missione educativa di grandi santi quali Giovanni Bosco e Giovanni Battista De La Salle in favore di orfani e poveri, meritano di essere ricordate l’opera missionaria di Francesca Cabrini (1850-1917), che ha favorito l’insegnamento dell’inglese e promosso la costruzione di ospedali, case di cure e luoghi d’assistenza per immigrati, e quella di don Carlo Gnocchi (1902-1956), rivolta in specie a orfani, mutilati di guerra e malati di poliomielite per una ‘riabilitazione integrale’ della loro persona a tutela della propria dignità.

Sfogliando con curiosità il Dizionario dei cattolici illustri, si possono scorgere dettagli particolarmente significativi tra le pieghe recondite della vita di personaggi celebri scoprendo, ad esempio, che il campione del ciclismo Gino Bartali (1914-2000) era terziario carmelitano col nome di Fra’ Tarcisio di Santa Teresa di Gesù Bambino.

In ambito produttivo tra per gli imprenditori è opportuno ricordare Harmel Léon (1829-1915), sperimentatore della dottrina sociale della Chiesa nella sua fabbrica di filatura con misure concrete a favore dei propri lavoratori, dagli assegni familiari all’istituzione di una cassa di mutua assistenza. In ambito politico basti citare le figure luminose del valoroso Marcantonio Colonna e del frate Marco d’Aviano, i cui apporti furono decisivi per il respingimento dell’esercito turco rispettivamente sia a Lepanto nel 1571 che alle porte di Vienna l’11 settembre del 1683; o quella del giovane martire José Sánchez del Rio durante la rivolta dei cristeros in Messico (1926-1929). In ambito giuridico emerge la figura del magistrato Rosario Livatino (1952-1990) che, per il suo impegno in prima linea per la giustizia contro la mafia, è stato vittima di un attentato. Martire della giustizia, uomo discreto, teneva sulla sua scrivania un Vangelo e un crocifisso, mentre la sua giornata iniziava sempre sostando in una chiesetta in preghiera davanti al tabernacolo.

Insomma, come scrivono i curatori, tale Dizionario si configura come una “collezione di brevi ritratti che porta esempi ed eccellenze di una civiltà millenaria” e che non vuole avere la pretesa dell’esaustività e della completezza, bensì desidera assolvere al compito di riconoscere il meritato onore ai nomi notissimi, meno noti e ignoti di quanti hanno contribuito a edificare il Regno di Dio sulla terra mettendo a frutto i doni del Padre attraverso le loro opere in tutti i campi dello scibile e dell’agire umano.

Fonte: LaNuovaBussolaQuotidiana