Ihab Alrachid, un sacerdote nell’inferno siriano

Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani. Lo era un Siria agli albori della Chiesa nascente, lo è ancora oggi in maniera non meno cruenta. “Prima della guerra, i cristiani erano rispettati, potevano professare pubblicamente la propria fede, andare in chiesa a Natale e Pasqua, che erano considerate feste nazionali. Erano il 9% della popolazione, ora sono meno della metà, ma non possiamo e non dobbiamo perdere la speranza”.

A parlare è padre Ihab Alrachid, 50 anni, sacerdote siriano della diocesi greco-melchita cattolica di Damasco, nel corso di una testimonianza promossa dalla onlus Aiuto alla Chiesa che Soffre, dal 1947 accanto ai cristiani perseguitati nel mondo soprattutto in Siria e in Palestina. “In Siria non c’è solo l’Isis tra i gruppi terroristici, ma anche l’Esercito Islamico, Al Nusra e Al Qaeda – sottolinea don Ihab – Agiscono tutti però animati dallo stesso intento: dove entrano fanno un massacro. Hanno rapito migliaia e migliaia di persone e continuano a farlo, non solo civili, ma soprattutto religiosi, di cui non abbiamo più notizie. Due vescovi ortodossi sono stati rapiti cinque anni fa ad Aleppo e ogni giorno cadono razzi e missili su ospedali, uffici e case”. Non c’è alcuna pietà nei membri di tali gruppi terroristici che arrivano spesso a “violentare le belle e giovani donne siriane per poi condurle al mercato degli schiavi per venderle al miglior offerente”. La furia omicida di chi uccide al grido di “Allah Akbar!” non risparmia neanche i bambini. A tal proposito sono particolarmente commoventi, pur nella loro tragicità, due episodi che testimoniano l’amore a Cristo e al prossimo di questi nostri fratelli nella fede da cui c’è solo da imparare: “Una bambina del catechismo, che si preparava a ricevere la Santa Comunione, è stata colpita da un razzo che le ha tranciato i piedi mentre si stava recando a scuola. Più che il dolore della perdita degli arti inferiori, la sua preoccupazione è stata quella di come potersi avvicinare all’altare per ricevere il Corpo di Cristo. Un’altra giovane quattordicenne è invece rimasta colpita e uccisa da un missile mentre andava a comprare un regalo a sua madre per la festa della mamma dell’indomani”.

Nonostante la devastazione e la guerra abbiano spinto moltissimi cristiani a lasciare la propria terra natia, anche “a Maalula, in un piccolo villaggio devastato e distrutto dai fondamentalisti, in cui si parla ancora l’aramaico, la lingua di Gesù, ci sono ancora tanti cristiani che non rinnegano la propria fede, anche a costo della propria stessa vita. Ormai quasi ogni cristiano in Siria – rileva amaramente padre Ihab  ha purtroppo almeno un parente rapito, di cui non riceve più notizie, o ucciso magari anche dinanzi ai propri occhi”. E non hanno rinnegato Cristo nemmeno i due cugini di don Alrachid rapiti cinque anni fa. Uno di essi è stato fortunatamente liberato due anni e mezzo fa, mentre dell’altro non ha ricevuto più notizie. Quello superstite ha potuto raccontare al suo cugino sacerdote come sia stato obbligato dai terroristi a imparare a memoria il Corano prima di essere da loro esaminato nel merito; come abbia subito delle torture per ogni parola sbagliata che pronunciava”. Di qui, alla domanda provocatoria relativa all’esistenza di un islam ‘moderato’, don Ihab risponde con un sorriso di diniego, quasi a lasciar intendere che esso sia solo nella testa di alcuni opinionisti di salotti televisivi borghesi.

Rispetto alla situazione attuale, nonostante continuino le persecuzioni e non diminuisca il rischio cui fedeli vanno incontro ogni volta che partecipano alla Santa Messa, a Damasco le chiese sono piene. “Non possiamo abbandonare la nostra ‘casa’, abbiamo fame della Parola di Dio e del Corpo di Cristo”, affermano infatti i fedeli siriani. Insomma anche dove le pietre delle grandi cattedrali sono cadute, ad Aleppo come a Damasco, restano salde nelle fede le ‘pietre vive’, ossia i cristiani siriani, che “hanno preparato anche il presepe e sono pronti ad accogliere il Salvatore”. La loro testimonianza di fede vissuta e di carità sia per noi dunque un monito a ricordarli quotidianamente nella preghiera, affinché il Cristo che viene come ‘Principe della Pace’ protegga e custodisca ogni cristiano perseguitato, donando agli inermi la forza del martirio e pace e consolazione a quanti hanno perso i propri cari perché in ogni cuore il suo Amore trionfi su ogni forma d’odio e di barbarie.

Fonte: LaNuovaBussolaQuotidiana

SANREMO 2018. Ermal Meta e Fabrizio Moro: “Non mi avete fatto niente”. Vincere l’odio con l’amore si può, ma senza relativismo

“Non mi avete fatte niente” è la canzone di Fabrizio Moro ed Ermal Meta premiata con il Leone d’oro al Festival di Sanremo 2018. Una vittoria auspicata da tanti per un brano certamente significativo e un’interpretazione davvero intensa da parte dei due artisti, in cui la voce morbida e calda di Meta mitiga e stempera quella graffiante di Moro. Ogni canzone però si compone di musica e parole, per cui non bisogna limitarsi alla dimensione emotiva suscitata dalla sua musicalità, ma è opportuno soffermarsi adeguatamente anche a riflettere sul significato profondo del testo, a partire dalla sua genesi.

È stata una commovente lettera che il parigino Antoine Leiris postò su Facebook all’indomani della strage del Bataclan del 13 novembre 2015 in cui rimase uccisa sua moglie a ispirare il testo della canzone “Non mi avete fatte niente” di Moro e Meta. Eccola:

 «Venerdì sera avete rubato la vita di una persona eccezionale l’amore della mia vita, la madre di mio figlio, eppure non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio neanche saperlo. Voi siete anime morte. Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore. Perciò non vi farò il regalo di odiarvi (…). L’ho vista stamattina finalmente, dopo notti e giorni d’attesa. Era bella come quando è uscita venerdì sera, bella come quando mi innamorai perdutamente di lei più di 12 anni fa. Ovviamente sono devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma sarà di corta durata (…). Siamo rimasti in due, mio figlio e io, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo. Non ho altro tempo da dedicarvi, devo andare da Melvil che si risveglia dal suo pisolino. Ha appena 17 mesi e farà merenda come ogni giorno e poi giocheremo insieme, come ogni giorno, e per tutta la sua vita questo petit garçon vi farà l’affronto di essere libero e felice. Perché no, voi non avrete mai nemmeno il suo odio».

“La musica serve per trasformare l’odio in amore, ma ci vuole anche l’educazione”. Con queste parole  Fabrizio ha risposto ai giornalisti in sala stampa nel merito del significato del testo della canzone. Gli ha fatto subito eco Ermal: “Qualcosa ti può entrare come una spina, ma sta a te trasformarla in fiore”.

 Il leit motiv del brano dei due cantautori risiede proprio nella possibilità dell’uomo di non ripagare il male con il male, la violenza subita con sentimenti di odio e di vendetta, ma di vincere il male con il bene, sconfiggendo l’odio con l’amore per costruire un mondo più umano e fraterno. Se questo messaggio è senza dubbio profondamente condivisibile da credenti e non credenti, sembra però non sia altrettanto facile, per i due artisti, riconoscerne esplicitamente l’impronta cristiana. A tal proposito è doveroso precisare che l’essere umano non possiede in se stesso e naturalmente la capacità di trasformare il male in bene, l’odio in amore, ma può farlo esclusivamente se il Creatore gliene offre la possibilità attraverso il dono della sua grazia. Nessun altro uomo se non il Dio-Uomo, Cristo Gesù, e con Lui e in Lui schiere innumerevoli di martiri provenienti da ogni angolo della terra, hanno avuto ed hanno parole di perdono per i propri carnefici.

Ecco perché se è doveroso “dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” non può esser accolta con lo stesso favore la consueta solfa relativista che pone tutte le religioni sullo stesso piano, allorquando il brano recita: «C’è chi si fa la croce e chi prega sui tappeti. Le chiese e le moschee, l’Imàm e tutti i preti, ingressi separati della stessa casa. Miliardi di persone che sperano in qualcosa». È vero, siamo tutti figli di un solo Padre, ma credere in Allah o nel Dio di Gesù Cristo non è evidentemente indifferente. In nessuna sura del Corano si legge: “Amate i vostri nemici”, né dalla vita di Maometto si apprende che il vertice dell’amore sia il perdono, laddove invece la sublimità del cristianesimo risiede proprio nella novità dell’amore oblativo del Padre, il quale offre la vita del Figlio per la vita del mondo e in questo modo trasforma il più atroce supplizio per un condannato a morte nel più nobile atto d’amore che sia mai stato compiuto nella storia umana. La salvezza di tutto il genere umano ha dunque un prezzo molto alto da pagare: il sangue preziosissimo del Figlio di Dio.

Pertanto se è in conformità al messaggio evangelico che il parigino Antoine Leiris si ‘impose’ di non odiare i carnefici della moglie e constatò con dolore quanto la morte di lei sia stata “una ferita nel cuore di Dio” allora, cari Ermal Meta e Fabrizio Moro, dovreste ammettere con chiarezza che un dio non vale l’altro!

Fonte: LaNuovaBussolaQuotidianana

Charlie. Sgomento e amarezza tra gli Universitari per la Vita

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ha ormai decretato la morte di Charlie Gard, il piccolo di 10 mesi affetto da sindrome da deperimento mitocondriale. “Siamo caduti nel baratro più profondo, nell’aberrazione più nera, nella disumanizzazione più completa”. Con queste parole Chiara Chiessi, Presidente degli Universitari per la Vita, commenta con sgomento e amarezza la decisione della CEDU di porre fine alle cure per il piccolo Charlie, nonostante la volontà contraria dei suoi genitori che si sono offerti di portarlo in America per sottoporlo a una terapia sperimentale a proprie spese e senza alcun ulteriore aggravio per lo Stato.

A nulla dunque è servito l’accorato appello inviato all’attenzione del Presidente della CEDU, l’On. Guido Raimondi, sottoscritto e firmato da 33 rappresentanti di associazioni pro vita e pro famiglia italiane, tra le quali i Comitati ‘Difendiamo i nostri figli’ e alcune sezioni dei Centri di Aiuto alla Vita e del Movimento per la Vita italiano, allo scopo di auspicare un’altra decisione che fosse “di conforto per i genitori e di speranza per la vita di Charlie”: la tutela del suo diritto alla vita. Nel ringraziare pubblicamente i firmatari dell’appello, Chiara Chiessi dichiara con forza che “questo bambino interroga le coscienze di ognuno di noi” e che, dinanzi a tale palese ingiustizia sotto gli occhi di tutti, “non si può stare in silenzio, non ci si può fermare”. Di qui l’esigenza di un rinnovato impegno degli Universitari per la Vita a costruire, mediante attività di sensibilizzazioni soprattutto tra i giovani, “un’Europa in cui la dignità di ogni vita umana, specialmente la più fragile, sia rispettata e difesa dalle istituzioni, dalla società, da tutti”.

Fonte: FarodiRoma

Vertice a Mosca tra Putin e Mattarella. “La Russa eviti che altri attacchi con armi chimiche possano ripetersi”

“Auspichiamo che Mosca – come tutti – possa esercitare tutta la sua influenza per evitare che attacchi simili possano ripetersi e riteniamo fondamentale il principio dell’accertamento delle responsabilità delle violazioni più gravi e del loro perseguimento”. Con queste parole il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha raccontato alla stampa il suo incontro di oggi a Mosca col presidente russo Vladimir Putin.

Al centro del vertice tra i due capi di stato vi è stato un “dialogo sui principali temi dell’agenda bilaterale, in molteplici settori, e sulle questioni più rilevanti e urgenti dell’attualità internazionale”, e dunque naturalmente soprattutto sulla guerra in Siria. Nella speranza di scongiurare altri attacchi chimici sulla popolazione Mattarella ha affermato: “C’è un’urgente esigenza di trovare soluzioni condivise alla crisi, soluzioni che devono scaturire da un dialogo a molteplici livelli: tra parti siriane oggi contrapposte, tra attori regionali e nell’ambito della comunità internazionale nel suo complesso. Si deve lavorare per una soluzione politica sostenibile, sotto l’egida dell’ONU e nel percorso tracciato dai negoziati di Ginevra. Lo si deve alle centinaia di migliaia di vittime e feriti causati da una violenza insensata, lo deve ai milioni di profughi e sfollati”.

Sul versante libico il Presidente Mattarella auspica invece “un atteggiamento costruttivo da parte di Mosca”, nella consapevolezza “della grande importanza che per l’Italia riveste la stabilizzazione della Libia stessa e di tutto il Mediterraneo”. In relazione all’attuale situazione politica in Ucraina egli invece si è così espresso: “Nessuno, non la Russia, non l’Europa, né l’Ucraina trarrebbero beneficio da una situazione di prolungata instabilità al cuore del continente”. Mentre sui rapporti tra Mosca e Roma, Putin ha replicato che “sarebbe nell’interesse comune il ripristino di relazioni economiche fra Ue e Russia basate su principi di parità e uguaglianza”.

Nel corso dell’incontro è stato anche rinnovato un accordo per la ricerca nel campo delle scienze fondamentali tra l’Istituto nazionale di Fisica Nucleare italiano e il Centro Congiunto per la Ricerca Nucleare di Dubna. A testimonianza ulteriore del vivace rapporto culturale esistente tra la Russia e il nostro Paese, è da ricordare lo stesso contributo del Cremlino al restauro e alla ricostruzione di due importanti monumenti colpiti dal terremoto dell’Aquila: Palazzo Ardinghelli e la Chiesa di San Gregorio Magno.

“Ci auguriamo – ha concluso Mattarella – che la frequenza dei contatti politici, la profondità delle relazioni economiche ed energetiche possano divenire sempre più ampie e diversificate, sulla base di interessi convergenti e della complementarietà delle nostre economie”.

Fonte: FarodiRoma

ISTAT. Dati allarmanti: su un milione di famiglie lavora solo la donna

Restano numerose le famiglie italiane senza reddito da lavoro. A comunicarlo è l’ISTAT che ha reso pubblici i dati del 2016. Solo una lieve, quasi impercettibile flessione di miglioramento, rispetto al 2015: si è passati infatti da 1 milione 92 mila a 1 milione 85 mila (- 0,7%).

Ma il dato più significativo è questo: in 970.000 nuclei familiari è la donna a portare, come suol dirsi, il pane a casa. In questi nuclei familiari infatti solo la donna lavora, è occupata a tempo pieno o in formula part-time, mentre l’uomo risulta drammaticamente in cerca d’occupazione o inattivo, cioè pensionato o comunque fuori dal mercato del lavoro. Al sostentamento di tali famiglie sembra però provvedano o delle rendite o più facilmente la pensione di qualcuno dei componenti.

Come da copione già letto, la maggioranza di queste famiglie, circa 587.000, senza redditi da lavoro vive nel Mezzogiorno del Paese, segue il Nord con 300.000 unità e il Centro con 198.000. Una cifra invece ulteriormente in aumento rispetto all’anno precedente (+5%) è costituita dalle 192.000 famiglie monogenitoriali, dove c’è sì la mamma, ma è sola, disoccupata e in cerca di lavoro. Si spera dunque che vengano presto attuate nuove politiche familiari sia sul piano economico che su quello sociale in grado di favorire, a partire dalla crescita dell’occupazione, un maggiore benessere per genitori e figli.

Fonte: FarodiRoma

Il Beato Angelico, “il pittore della tenerezza”.

Vallini: “Ha interiorizzato il mistero e l’ha espresso nella bellezza”

“È stato un grande artista. Potremmo definirlo il pittore della tenerezza, che ha interiorizzato il mistero di Cristo e lo ha espresso nella bellezza delle sue opere”. Il cardinale vicario Agostino Vallini ha descritto con queste parole il Beato Angelico nel giorno della memoria liturgica, celebrando i vespri in Santa Maria sopra Minerva, la basilica che ne ospita le spoglie mortali. La liturgia – molto suggestiva – è stata conclusa da una breve omelia, nella quale il porporato ha voluto esortare coloro che operano nei beni culturali a essere “custodi di un patrimonio da valorizzare anche quale espressione della bellezza di Dio”. Ed infine ha invocato: “Salga dunque al Padre, da parte di ogni fruitore delle sue opere d’arte, un canto di ringraziamento nei termini dell’orazione finale dei vespri nella sua memoria, un inno di lode a Dio che ha “ispirato con paterna provvidenza il beato Giovanni Angelico a raffigurarci la pace e la dolcezza del paradiso”.

I salmi sono stati cantati in gregoriano dai frati domenicani e dalla Schola del Pontificio Istituto di Musica Sacra, diretta da Raúl Orlando Arreguín Rosales. E il rito è stato arricchito da brevi intermezzi musicali strumentali affidati al flauto a becco, alla viola da gamba e all’organo suonati rispettivamente da Giulia Ciarla, Jasmina Capitanio e Federico Del Sordo, mentre i canti del Magnificat di Giovanni da Palestrina e del Salve Regina di Poulenc sono stati eseguiti dal Coro polifonico Musicanova diretto da Fabrizio Barchi.

Noto semplicemente come il Beato Angelico, fra Giovanni da Fiesole era un umile frate domenicano, nato intorno al 1395 col nome di Guidolino di Pietro Trosini e morto nel 1455. La sua la vocazione religiosa accompagnò quella alla pittura, che si è espressa nel rappresentare i grandi misteri della fede attraverso figure realistiche investite di una luce dorata che le fa risplendere della grazia divina. Ecco perché subito dopo la sua morte il popolo, che ne aveva apprezzato le opere, iniziò ad appellarlo Beato Angelico prima che fosse proclamato tale nel 1982 da Giovanni Paolo II, che lo additò anche quale “patrono universale degli artisti”. Il Beato Angelico maturò una visione mistica del mondo insieme a una resa realistica delle figure umane. Coniugando luce e colore, attenzione alla natura e al dato prospettico, se da un lato si riallaccia alle modalità pittoriche di Masaccio, dall’altro anticipa la nuova temperie artistica rinascimentale.

Fonte: FarodiRoma

Come Chiara Amirante scoprì la gioia del Vangelo

“E gioia sia!”. Gridano queste parole a più riprese i numerosi giovani che hanno affollato il Duomo di Salerno per celebrare la festa diocesana loro dedicata. Una festa all’insegna della gioia vera e alla riscoperta di una letizia nello Spirito Santo come quella che ha toccato il cuore di Chiara Amirante, testimone di una gioia che attrae e che è capace di trasformare anche i cuori più induriti. Chiara, come tutti i giovani, ha cercato inizialmente la gioia nelle lusinghe del mondo e ne ha ricavato delusione e amarezza insieme alla consapevolezza che il mondo non è in grado di soddisfare la sete d’amore del proprio cuore, anzi delude piuttosto le sue attese.

A 17 anni Chiara rischia di perdere la vita in un brutto incidente stradale. L’amico alla guida è ubriaco, l’auto sbanda, va fuori strada, sta precipitando in un burrone ma ella, insieme ai suoi amici, riesce a catapultarsi fuori, ad aggrapparsi a un albero e a mettersi in salvo, tirando un respiro di sollievo mentre osserva la macchina in fiamme. Una scena da film americano, ma purtroppo tragicamente reale. Nell’imminenza della morte lo scampato pericolo le pone innanzi la cruda verità: tutto passa, solo l’amore resta.

Finché un bel giorno Chiara scopre il segreto della gioia vera nell’incontro con la Parola di verità: «Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio Amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amato, nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 9-12). Sono bastati questi pochi versetti del Vangelo seminati nella terra fertile del suo cuore a radicarle il desiderio di vivere in pienezza la propria esistenza per custodire la gioia vera di chi rimane nell’amore di Dio anche nei momenti di difficoltà.

A 21 anni Chiara viene infatti colpita da una terribile malattia che aveva intaccato la stessa retina e che rischiava di renderla completamente cieca. Ma nonostante avesse perso già otto decimi della sua vista, i suoi occhi interiori rimanevano saldi nell’amore divino e il suo desiderio di portare Cristo a tutti coloro che incontrava, soprattutto agli ultimi e agli emarginati, non le dava tregua, anzi cresceva sempre di più. Così un bel giorno Chiara presentò il suo anelito al Padre in una semplice preghiera: «Signore, se questo desiderio così folle di andare di notte in strada sei tu a mettermelo nel cuore, mettimi tu nelle condizioni di poterlo realizzare! A te niente è impossibile! Io desidero solo la tua volontà!». La risposta del Padre misericordioso non tardò ad arrivare. All’indomani, quando riaprì gli occhi, Chiara si accorse di vedere meglio. Si recò però ugualmente in ospedale per fare le iniezioni periodiche dentro l’occhio, pensando si trattasse di un miglioramento soltanto temporaneo. I medici tuttavia dovettero constatare che non solo la sua malattia era scomparsa, ma addirittura Chiara era passata da meno otto decimi a una vista pari a più undici decimi.

D’altra parte se Dio le aveva posto nel cuore il desiderio di servire il prossimo per edificare il Suo Regno, è evidente che le avrebbe concesso anche la forza per farlo. Così ha inizio il suo viaggio «nell’inferno della strada» per soddisfare quella spinta interiore che l’esortava ad andare in giro di notte a cercare i fratelli più disperati e abbandonati, gli alcolizzati, i carcerati, i drogati e le prostitute. Non senza un po’ di timore Chiara discende negli inferi della stazione Termini a Roma, dove s’imbatte in una rissa in atto. C’è chi agita bottiglie di vetro e chi invece per colpire tira fuori il coltello. Sarebbe stato sicuramente più prudente fuggire via, ma lo sguardo di Chiara si posa su un giovane che giaceva disteso a terra per overdose. Le tornano in mente le parole di Gesù: “Amatevi come io vi ho amati”. Non poteva dunque lasciarlo lì così. «Dopo qualche scossone, Angelo si è ripreso e io sono stata ad ascoltarlo per un’ora, forse anche di più. Mi ha raccontato tutta la sua vita, fatta di carcere, spaccio, droga». Chiara si preoccupò allora di rispondere al grido di dolore di Angelo, cercandogli un centro, una comunità che avrebbe potuto accoglierlo, ma non ne trovò. All’indomani quando lo incontra nuovamente, Angelo l’abbraccia dicendole: «Chiara, ti ho preso un regalo. Volevo ringraziarti perché mi hai salvato la vita». E Chiara gli risponde: «Ma come ti ho salvato la vita, se non sono neanche stata capace di trovarti un posto dove andare a dormire?». Angelo la invita a seguirlo, le mostra un murales con la scritta: “Nonostante la vostra indifferenza noi esistiamo” e le spiega di averlo dipinto prima di aver deciso di suicidarsi con un’overdose. Poi Angelo aggiunge: «In tutti questi anni di vita di strada, tu sei la prima persona che si è fermata ad ascoltarmi. Allora ho pensato che se anche esiste una sola persona sulla faccia della terra disposta a spendere un’ora del suo tempo con uno come me, allora vale la pena vivere. E poi ho visto nei tuoi occhi quella gioia che io da sempre cercavo. Ora so che esiste e voglio incontrare quel Gesù che te l’ha donata e ti ha portato a rischiare la tua vita per noi».

«Quest’Angelo mi ha fatto comprendere – ha proseguito Chiara nel suo racconto – che responsabilità abbiamo quando non diamo un bicchier d’acqua al fratello che ci dice: “Ho sete”, ho sete del tuo amore, perché da un bicchiere d’amore può dipendere la speranza o la disperazione di qualcuno».

Da quel giorno nel «popolo della notte» Chiara ha incontrato tante storie di abbandono e di disperazione e accarezzato tanti volti che, trasfigurati dall’amore di Dio, da deserti aridi sono divenuti terre rifiorite. Di qui ella ha maturato la decisione di lasciare la propria casa, i suoi genitori e il suo lavoro per dedicarsi agli ultimi e donare loro un raggio di quella gioia vera che porta nel cuore. La Provvidenza divina le ha così ispirato e dischiuso “nuovi orizzonti”. Un’opera costituita di 207 centri di accoglienza, formazione e orientamento; 5 Cittadelle Cielo nel mondo, 450.000 Cavalieri della Luce, profeti di verità ed evangelizzatori di strada. Una missione che ha suscitato e favorito la carità di tanti che si sono fatti carico degli ingenti oneri economici dei diversi progetti del movimento per sostenere un popolo della luce desideroso di comunicare e testimoniare con impegno costante e dedizione apostolica la gioia vera del Cristo Risorto anche negli angoli più oscuri della terra, dove regnano le tenebre del male e dell’indifferenza.

Fonte: La Croce Quotidiano

Don Maurizio Patriciello, testimone di speranza nella terra dei fuochi

«Aurora e Mattia. Hanno entrambi 8 anni. Entrambi sono ricoverati in ospedale. Mattia dona ad Aurora uno spicchio del suo mandarino. Stupendo. Impariamo da loro. Preghiamo per loro. Ho ricevuto dai genitori il permesso di pubblicare la foto. Per portare queste meravigliose creature nelle vostre case e nei vostri cuori. Per far sapere a tutti che Aurora e Mattia sono tra coloro che nella terra dei fuochi lottano, soffrono, sperano. Dio li benedica mille volte». Con queste parole e una foto padre Maurizio Patriciello pubblicava più di un mese fa sulla propria bacheca di facebook il dolore bisognoso di condivisione dei genitori di questi due bambini. È un’immagine di una tenerezza infinita che muove a un’intima compassione.

Aurora e Mattia non sono purtroppo i soli a lottare contro il cancro, che continua a mietere le sue vittime in una piccola striscia di terra compresa tra le provincie di Napoli e Caserta, rimbalzata tristemente agli onori della cronaca locale, nazionale e internazionale come ‘terra dei fuochi’. Sono infatti tante le mamme e i papà e molti i nati di età compresa tra i 22 mesi e i 14 anni che sono saliti al cielo negli ultimi decenni. Don Maurizio Patriciello ha celebrato i loro funerali e ne ricorda i nomi su facebook giorno per giorno in un elenco che sembra destinato drammaticamente a non avere una fine imminente.

Egli ha raccontato nell’auditorium del Centro Sociale di Salerno la sua battaglia quotidiana nella ‘terra dei fuochi’, una terra avvelenata dallo sversamento di milioni di tonnellate di rifiuti speciali, industriali, chimici, farmaceutici, bruciati illegalmente «nelle campagne o ai margini delle strade, che vengono incendiati, dando luogo a roghi, i cui fumi diffondono nell’atmosfera e nelle terre circostanti sostanze tossiche, tra cui diossina; in altri casi i predetti rifiuti sono stati e sono intombati nel suolo, contaminando i terreni agricoli e le falde acquifere con danni incalcolabili per l’uomo determinati dall’avvelenamento della catena alimentare».

«Un patto scellerato tra camorra, industrie e una politica ignava, se non collusa e corrotta» – ha commentato don Patriciello – , sottolineando soprattutto le tragiche ricadute di un giro di affari di milioni di euro consumato sulle salute e la pelle degli abitanti di quelle terre. Terre di quella che fu la Campania felix.

Maurizio Patriciello è di Frattaminore. Si allontanò dalla Chiesa, ma vi fu ricondotto da un incontro, attraverso il quale il Signore tornò a bussare alla porta del suo cuore. Nell’estate del 1985, nei pressi del bosco di Capodimonte, diede un passaggio in auto un frate francescano scalzo. Fu sufficiente quella chiacchierata con fra’ Riccardo perché il Dio vivo fosse riconosciuto nuovamente presente nella sua esistenza. Di lì a poco Maurizio lasciò l’ospedale dove lavorava in qualità di paramedico per entrare in seminario. Ordinato sacerdote a 34 anni, è divenuto parroco di Caivano.

«Nel giugno del 2012 sentii un fetore persistente entrare nella mia casa e in quella dei vicini, mi arrabbiai molto e compresi che il Signore mi chiedeva di agire. Se a questa gente viene rubata l’aria, io posso far finta di non vedere?». Da quella data Padre Maurizio si autodefinisce, con quell’ironia tipicamente napoletana che lo contraddistingue, il «prete della munnezza». «Tuttavia – ci tiene a precisare – non sono né un prete ambientalista, né un prete anticamorra. Sono semplicemente un prete. D’altra parte tutto ciò che riguarda l’uomo riguarda il cristiano». Lungi dall’ingaggiare una personale congiura politica contro i politici di turno, egli vuole innanzitutto «tenere alta l’attenzione al problema». Lo scopo primario della sua missione consiste nell’annunciare il Vangelo, difendendo nello stesso tempo il diritto alla salute della gente della sua terra e soprattutto dando voce al dolore di tante famiglie che hanno perso i propri figli in tenera età.

Quella di Padre Maurizio è anche una battaglia culturale, tesa a ridestare la coscienza di un popolo a cui la criminalità organizzata ha rubato la fiducia e la speranza nel futuro, nella ferma consapevolezza che «chi si ammala muore di cancro grazie anche ai rifiuti tossici provenienti dalle industrie e non dalle nostre case». Una battaglia vissuta in Cristo che ha dato e continua a portare i suoi frutti. Infatti nel 2012 egli si recò dal Presidente della Repubblica con 13 giovanissime mamme che avevano accompagnato nelle lacrime i propri figli al camposanto. All’udire il loro dramma Giorgio Napolitano si commosse fino a piangere. Seguì nel dicembre 2013 una “legge sulla terra dei fuochi”, lo stanziamento di 25 milioni di euro per lo screening sanitario dei pazienti e, di lì a poco, la firma da parte dei vescovi campani di due severi documenti sul tema.

Padre Maurizio si è soffermato ancora sull’attività di “Noi genitori di tutti”, un’associazione di volontari che si preoccupa soprattutto di venire incontro alle esigenze pratiche delle famiglie in difficoltà economiche con bambini ammalati di tumore che necessitano talvolta di cure mediche in centri specializzati situati fuori dalla Campania.

Egli non ha nascosto infine i rischi che la sua missione comporta, le difficoltà e le spine del cammino, come l’amarezza provata recentemente rispetto alla decisione del governo di deviare ben 9,7 milioni dei 10 previsti per continuare ad assicurare la presenza dell’esercito in Campania per garantire la sicurezza dell’Expo di Milano.

Mentre dinanzi a coloro che sulla base dei risultati ottenuti dalle analisi condotte sui terreni finora censiti, sia nel mondo della politica che in quello dell’informazione, minimizzano l’entità del problema e dei danni sulla salute delle persone, don Patriciello cita soltanto due dati significativi. Il primo è tratto da uno studio del geologo Giovanni Balestri, il quale profetizza che il peggio non è ancora giunto, ma arriverà nel 2064 quando il percolato che si sprigiona dalle tonnellate di rifiuti industriali giacenti nella zona vasta di Giugliano avrà raggiunto le falde acquifere. Il secondo è invece il frutto di un’indagine realizzata dal medico Luigi Costanzo. Egli, analizzando le sole richieste di esenzione dal ticket compilate dai malati di cancro col modulo 048 nel distretto sanitario di Frattamaggiore, ha constatato che dal 2008 al 2012 esse sono aumentate del 300%.

Tra le vittime innocenti delle ecomafie vi è anche lo stesso fratello di don Maurizio, ucciso da una leucemia aggressiva lo scorso 19 settembre. Ma il parroco di Caivano non si è perso d’animo e, pur presagendo il rischio di infiltrazioni camorristiche anche nelle stesse operazioni di bonifica delle aree contaminate, rimane consapevole del fatto che «solo la Chiesa può dire la verità nella carità», poiché si pone al di là di ogni sorta di pressione e di interesse politico ed economico e guarda esclusivamente al bene e alla dignità di ogni uomo. Perciò padre Maurizio Patriciello continua a «chiamare a raccolta i buoni e a metterli insieme» e a essere per la sua gente un testimone di fede e di speranza, di una speranza che non può perire e che nessuna violenza può estirpare perché radicata in Cristo Gesù.

Fonte: Agire (Settimanale della Diocesi di Salerno)

Suor Rita Giaretta: la liberazione viene dal Sud

Nella terra dei fuochi la fondatrice di “Casa Rut” racconta la sua lotta contro la prostituzione

Quando nel 1995 giunsero a Caserta per la prima volta le Orsoline del Sacro Cuore di Maria non avevano una missione pianificata a tavolino. Lasciarono perciò che fosse il luogo cui erano state destinate a ispirare i loro propositi, a costituire il terreno buono su cui profondere il proprio carisma consistente nel farsi compagne di strada delle donne in difficoltà. Dall’analisi del territorio scoprirono che a Caserta esisteva un carcere femminile e che molte, anzi troppe ragazze dell’est, dell’Africa nera, per lo più di età compresa tra i 15 e i 20 anni, erano costrette dal racket a prostituirsi. «Siete suore, state al vostro posto! Pregate, state tranquille! Lasciate perdere, è il mestiere più antico della terra, c’è sempre stato da che mondo è mondo!». Furono queste le parole che sentirono pronunciare dall’ispettore di polizia locale allorquando chiesero delucidazioni sulla condizione di queste donne.

Così Rita Giaretta, orsolina di origini vicentine, infermiera ed ex sindacalista della Cisl, racconta in un incontro a Salerno le radici della sua vocazione missionaria e di “Casa Rut”, una comunità di accoglienza che in 20 anni di attività ha liberato 350 donne dalla tratta che le mercificava e ha aiutato a far nascere 60 bambini (il più grande di essi ha ora 17 anni!).

Tutto ha inizio da un gesto di vera carità, semplice ma prezioso per la sua capacità di sciogliere il timore e aprire alla gioia di un incontro. «L’8 marzo 1997 caricammo il bagagliaio della nostra auto con tante piantine di primule. A ciascuna di esse allegammo un messaggino arrotolato, sul quale era scritto in tre lingue (inglese, francese, italiano) semplicemente: “Cara sorella, cara amica, con questo segno vogliamo dirti che qualcuno pensa a te con amore”. Eravamo in quattro, in un’auto di sole donne e, quando ci avvicinammo per la prima volta, il loro primo tentativo fu quello naturale di fuggire, ma poi esse accantonarono le paure e si abbandonarono alla commozione, al pianto. Prendevano la croce che avevamo al collo e la baciavano, chiedendoci di tornare».

Dopo aver donato le quaranta piantine, suor Rita insieme alle sue consorelle ritornò a far loro visita ogni settimana con altri regali, quali un rosario o magari una Bibbia. «Queste ragazze – prosegue suor Rita – non potevano aprirsi subito, perché anche il dolore più intimo e profondo ha bisogno di un tempo. Solo alla terza, alla quarta volta che ci videro, iniziarono a dirci i loro nomi, a farci vedere le ferite dei loro corpi martoriati, le bruciature di sigarette, fino a esclamare: “Mamma, non buono questo lavoro!”». Il loro grido di dolore finalmente non cadeva più nel vuoto, veniva ascoltato e il loro dramma umano compreso. Non erano più schiave abbandonate nelle mani di violenti senza scrupoli, perché qualcuno si era accorto della loro condizione ed era pronto a sottrarle a una tratta disumana che le costringeva a dare i propri corpi in pasto a degli sconosciuti, nell’ansia di colmare un debito sulle proprie teste, che ammonterebbe oggi a una cifra compresa tra i 40000 e i 60000 euro. Fu così che un giorno una di queste ragazze aprì la portiera dell’auto delle suore e vi si infilò dentro, supplicando di portarla via con loro. «Sono state dunque le ragazze – esclama suor Rita – a inventare il nostro servizio, la nostra realtà di “Casa Rut”! Dio ci chiedeva di essere per loro strumento di liberazione». Una libertà che Martina riacquistò a caro prezzo.

Martina è una rumena di 17 anni che, fidandosi del fidanzato che le aveva promesso un lavoro da babysitter in Italia, si trovò segregata in una casa al buio per un anno, ad attendere i suoi clienti ignoti, fino a quando l’eccessivo andirivieni dall’appartamento in cui era nascosta non insospettì i condomini. Essi avvertirono i carabinieri che, presentatisi in borghese come clienti, irruppero in quella casa, la liberarono e la condussero dalle suore che l’avrebbero accolta. Ma il suo calvario non si era concluso. Infatti di lì a poco Martina scoprì di essere incinta e, tra le lacrime, riferì a suor Rita che avrebbe voluto buttare via il frutto di quello stupro. D’altra parte non sapeva neanche come dire ai suoi genitori, del tutto all’oscuro del suo ‘lavoro’, di aspettare un figlio frutto di un’orribile violenza e di padre ignoto. Tuttavia il suo grido disperato di dolore non fu inaudito; trovò risposta tra le pagine di un libro di preghiere che custodiva gelosamente con l’immagine della Vergine. Nel guardare la Madre ella comprese che non avrebbe potuto abortire suo figlio e che avrebbe portato avanti la gravidanza.

La vicenda di Martina è una storia di morte trasformata in vita, di vita nuova, di risurrezione. Le storie di liberazione come la sua rappresentano i miracoli di Casa Rut, una «casa che accoglie, che non giudica e non fa moralismo, in cui si vive la parabola del figliol prodigo al femminile, con un Dio che è madre e apre le porte, che rialza e ridona dignità a chi era perduto». Suor Rita ci tiene a sottolineare l’importanza di offrire a queste donne, quali forme di prima accoglienza, tutti vestiti nuovi. Un segnale che sottende un messaggio altamente significativo: «Ti riconosco nella tua bellezza, ti voglio restituire quella bellezza che altri ti hanno derubato».

Ancora oggi l’opera di suor Rita e di “Casa Rut” non si limita soltanto a ridare dignità alle vittime della tratta, ma dal 2005, attraverso la fondazione di una cooperativa sociale newHope (http://www.coop-newhope.it) vuole offrire alle donne anche un’opportunità professionale concreta, una “nuova speranza” di lavoro nella legalità. Le vittime della strada sottratte al racket che non possono ritornare nei loro paesi perché non hanno pagato il debito ai loro ‘protettori’ trovano quindi a Casa Rut e in questa cooperativa sociale che realizza manufatti etnici di oggettistica, prodotti di arredo casa e bomboniere, «una possibilità di affermazione della propria dignità di persone, un’opportunità di mantenimento, cura ed educazione dei propri figli, di formazione e di inserimento al lavoro, di partecipazione alla vita sociale del Paese, a partire dal territorio in cui vivono». Restituite soprattutto alla loro dignità inalienabile di figlie di Dio, queste donne passano dunque «dalla strada a essere imprenditrici, da rifiuti tra i rifiuti a essere risorse».

Fonte: LaCroceQuotidiano